«Non riesco, non ce la faccio proprio!»: espressioni alle quali non si fa nemmeno più caso. Sono il modo in cui spesso, sbrigativamente, ci liberiamo di un invito o rimuoviamo un pensiero. Eppure rivelano un’abitudine alla rincorsa, una quotidianità col fiato corto. Secondo il vangelo di Matteo, diabolico è il continuo portare l’asticella verso l’alto. Satana, infatti, si propone così: «Se sei il Figlio di Dio, allora…» (Matteo 4,3.6); un approccio che fin da bambini ci ha coperto di sguardi, di voci, di aspettative, finché reagire con uno sbrigativo “non riesco” è diventato naturale. Al fondo dell’esperienza delle attese altrui, alberga in molti uno strato di tristezza: «Ho promesso, ma non so mantenere»; «Se fossi davvero (…) dovrei»; «Si aspettavano molto e li ho delusi»; «Avrei voluto, ma non sono stato all’altezza». Diabolico è spegnerci l’anima mediante il pensiero di ciò che non siamo, accentuato dal risentimento per ciò che, a propria volta, altri non sono stati e per quel che Dio non è. Divisione. Capolavoro del maligno. Il Gesù che contempleremo, in giorni di digiuno, oppone a Satana un cuore leggero, indiviso. Non trasformerà le pietre in pane, non guadagnerà un plauso indiscutibile, non prenderà possesso del mondo. Dirà “no” a molto che ci si aspetta da lui; non vivrà per dimostrare chi è. La quaresima ci propone di seguirlo più radicalmente, per trovare a nostra volta libertà e respiro. Per questa ragione, a un cammino di penitenza non occorrono eroiche esagerazioni cui inchiodarci per quaranta giorni: basterebbe opporre la nostra dignità di figli amati al mare di aspettative che incombono su di noi, o almeno allenarci a questo. Duro, infatti, è rinunciare a ciò che non ci è chiesto di essere, al bene che non tocca a noi fare, al “sempre di più” che pretenderemmo raggiungere. Aspro è sopportare che qualcuno ci fraintenda, allenare il cuore a tener conto delle critiche, rimanendo lieto. Difficile è accettare che forse non modificheremo persone e realtà cui abbiamo dedicato passione o impegno. Si tratta però del cammino di Gesù con cui entrano nel mondo i tempi e il regno di un Dio immensamente più misericordioso e potente di noi: metterci nelle sue mani si rivelerà tutt’altro che una rinuncia a quanto abbiamo desiderato. Preghiera, digiuno, elemosina significano, in questa chiave, il nostro anteporre la bontà di Dio a incombenze diaboliche. Solo in tale impresa occorre “riuscire”, sostenuti dallo Spirito Santo e gli uni dagli altri. Al resto possiamo dire liberamente un “non riesco”, che si traduce in «non mi è chiesto». Il deserto, così, educandoci al limite, ripulisce l’orizzonte. Qualcosa di nuovo esiste e viene. C’è un diffuso, serio bisogno di rinnovamento. Dentro e fuori tutte le istituzioni urgono segnali di discontinuità, credibili e possibilmente duraturi, per incrinare sfiducia e rassegnazione. A dire il vero, nel tracollo economico, culturale, politico, affettivo, demografico che da oltre dieci anni in Europa chiamiamo “crisi”, è quasi un miracolo credere ancora che qualcosa di nuovo possa apparire. La quaresima diviene, allora, di enorme attualità se, almeno dai credenti, è ricevuta come occasione collettiva di revisione. Milioni di persone, per quanto in percentuale si tratti di una minoranza, ricevono le ceneri. Se questo gesto fosse autentico, ogni anno, per qualcuno; se chi ha il dono della fede, per quaranta giorni, verificasse il suo agire in termini di alleggerimento, purificazione, conversione, forse il nostro non sarebbe il mondo che è. La pazienza di Dio è tangibile nel ciclico rioffrirsi del momento opportuno, che la tradizione cristiana ha codificato nell’anno liturgico.
La Chiesa ci annuncia, quindi, che siamo un popolo cui, per non soccombere nel “non riesco”, è chiesta penitenza. «Grida a squarciagola, non avere riguardo; alza la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti» (Isaia 58,1) A noi tocca decidere se prendere o no per le corna l’insoddisfazione che si prova nell’abitare un declino. «I malvagi sono come un mare agitato, che non può calmarsi e le cui acque portano su melma e fango. Non c’è pace per i malvagi, dice il mio Dio» (Isaia 57, 20-21). Anche collettivamente, infatti, noi non abbiamo pace. «Perché digiunare se tu non lo vedi, mortificarci, se tu non lo sai?» (Isaia 58,3). Crisi della fede: a che serve? Che se ne fa Dio? Il profeta attacca frontalmente – sembra paradossale – persino un’ostentata penitenza: «Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai. Ecco, voi digiunate tra litigi e alterchi» (Isaia 58,4). Cioè: che pace volete da lui, che vicinanza bramate? Che cosa comportano per voi i suoi giudizi giusti? Non è anzitutto Dio a dover cambiare. La Scrittura accende i riflettori su ciò che di noi sopportano quotidianamente amici, familiari, colleghi di lavoro, riguarda le responsabilità che ci sono date e il potere, piccolo o grande, che esercitiamo. La penitenza non investe solo dei vizietti, ma la corruzione di pensieri, sentimenti, intenzioni, gesti, espressioni.
«Dice il Signore: e io li guarirò” (Isaia 57,19). Non sono solo parole. Conducendo alla Pasqua, i prossimi quaranta giorni inseriscono la determinazione al cambiamento sul fatto più nuovo che il mondo abbia mai conosciuto. Dalla misteriosa persona di Gesù Cristo – che tanto fascino sprigiona anche su chi non crede – e in particolare dalla gratuità infinita della sua passione, morte e risurrezione, viene a noi un’energia indispensabile. «Se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno» (II Corinzi 4,16).
È il contrario di soccombere sotto attese altrui e obiettivi esterni a noi; il contrario dell’inautenticità. Si rinnova “l’uomo interiore”. Seguiamo Gesù, vivendo così un esodo, nel paradosso di fissare lo sguardo su cose invisibili (II Corinzi 4,18). Il tempo della sua vita è stato breve e unico come il nostro, un corpo a corpo con Satana dal quale per tutti e per sempre uscì vittorioso. Ebbene, è adesso il momento per ciascuno di assumere il proprio compito, di condurre la propria lotta, con Gesù negli occhi. «E chi ci ha fatti per questo è Dio, che ci ha dato la caparra dello Spirito» (II Corinzi 4,5).
Il bene è possibile quaggiù, esser figlio di Dio è possibile quaggiù, dire di no al diavolo è, per grazia, esperienza a misura d’uomo. Sperimentarlo su di sé è poterlo sperare per tutti. È vedere il mondo cambiare.
di Sergio Massironi