lunedì 17 febbraio 2020

Francesco Cosentino "Amazzonia, tra sogni e paure"


SettimanaNews
14 febbraio 2020

Due premesse sono d’obbligo, prima di formulare un breve pensiero sull’esortazione apostolica Querida Amazonia.

La prima è una specie di «avvertenza per l’uso»: non sarò diplomatico, perché la mole di riflessioni e approfondimenti che in queste ore si susseguono, anche solo affidate a un tweet o un messaggio su Facebook, risente come spesso capita di un vecchio vizio dei linguaggi e degli ambienti ecclesiali: anche davanti ai buchi bisogna mettere per forza le toppe e, in un modo o nell’altro, bisogna uscirne puliti, con parole e contenuti prudenziali e calcolati, sempre sospesi tra il dire e il non dire. Quel che ne viene fuori, a differenza di alcune poche eccezioni, sono discorsi che si situano al centro, senza scontentare nessuno, ma senza suscitare brividi né tantomeno incendiare i cuori.

La seconda premessa è che il punto di vista del teologo è quello di un «pensiero aperto e mai concluso», come papa Francesco suggerì ai docenti della Pontificia Università Gregoriana, parlando in particolare della disciplina che insegno, la teologia fondamentale. Dunque, la riflessione rimane aperta e si nutre di un pensiero critico che, se fondato, deve restare tale anche in presenza di una posizione ufficiale del Magistero, fermo restando l’accoglienza di quest’ultima. Dunque, pieno rispetto e accoglienza per l’Esortazione Apostolica firmata da Papa Francesco, nell’esercizio di una libertà spirituale che però deve alimentare le domande, la ricerca e la riflessione.

I 4 sogni per l’Amazzonia
Vengo allora, brevemente, a Querida Amazonia. Il documento si snoda attorno a 4 sogni fondamentali per la terra amazzonica: la lotta per i diritti dei poveri e degli ultimi, la difesa della ricchezza culturale propria, la custodia della bellezza naturale che la contraddistingue e, infine, il sogno di «comunità cristiane capaci di impegnarsi e di incarnarsi in Amazzonia, fino al punto di donare alla Chiesa nuovi volti con tratti amazzonici» (n. 7).

I primi tre sogni rispondono a urgenze epocali non più procrastinabili, per una promozione e piena integrazione della vita umana degli abitanti di quelle terre e una reale protezione della sua bellezza naturale, entrambe minacciate e ferite dalla povertà, dalle ingiustizie, dagli squilibri economici e sociali, e dal disastro ecologico in atto.

Il quarto sogno richiama un’urgenza di altro tipo, che potremmo definire pastorale ma che, più precisamente, è ecclesiale. Il grande annuncio salvifico del Vangelo deve giungere con tutti gli strumenti possibili anche in questa terra ferita e desiderosa di rinascita; ciò esige una vera e propria inculturazione sociale e spirituale – afferma l’esortazione – a servizio di una nuova evangelizzazione e di una spiritualità non individualista e alienante, ma capace di dare voce e forma ai bisogni spirituali, ma anche a quelli umani e sociali.

Che questo quarto sogno risponda realmente e concretamente all’esigenza, tuttavia, è quantomeno dubbio. Il documento, infatti, dopo aver ribadito l’importanza e la centralità dell’eucaristia, affronta il tema dell’inculturazione della ministerialità in modo assai singolare: bisognerebbe infatti «inculturare» l’importanza dell’eucaristia domenicale, fonte e culmine della vita cristiana, in una situazione ecclesiale e pastorale fortemente segnata dall’assenza di presbiteri e da comunità cristiane guidate nella stragrande maggioranza dei casi da laici preparati e formati, che annunciano la parola e spesso amministrano alcuni sacramenti.

Perché vi sia realmente l’inculturazione, l’esortazione afferma l’esigenza, da parte della Chiesa, di «una risposta specifica e coraggiosa» (n. 85). Infatti, «occorre trovare un modo per assicurare il ministero sacerdotale. I laici potranno annunciare la Parola, insegnare, organizzare le loro comunità, celebrare alcuni Sacramenti, cercare varie espressioni per la pietà popolare e sviluppare i molteplici doni che lo Spirito riversa su di loro» (n. 89). Tuttavia, ciò non basta perché – afferma il documento – «hanno bisogno della celebrazione dell’eucaristia (…). Se crediamo veramente che è così, è urgente fare in modo che i popoli amazzonici non siano privati del cibo di nuova vita e del sacramento del perdono» (n. 89).

La possibile soluzione arriva al numero seguente: i vescovi dell’America Latina promuovano la preghiera per le vocazioni e siano più generosi, formando e inviando preti che svolgano la loro missione in Amazzonia.

Una lettura critica
Ci sia consentito esprimere quantomeno alcune perplessità, riguardanti una certa approssimazione con cui viene affrontato un problema così complesso. La discussione non si può risolvere nell’assioma «preti sposati si, preti sposati no», come incautamente hanno fatto certe tifoserie anche a seguito di esposizioni sul tema del celibato prive di fondamento teologico e anche di buon senso. Qui è in gioco, invece, una visione di Chiesa, la sua capacità di “sognare” in modo nuovo la ministerialità, il suo coraggio di affrontare nodi che prima o poi la storia riproporrà con forza – e forse sarà troppo tardi – per riformare se stessa.

Se Papa Francesco si è fermato un attimo prima e ha ritenuto di dover accompagnare nel tempo le diverse tematiche connesse al ministero ordinato e al ruolo della donna, ha certamente buone ragioni che vanno nella direzione dell’unità ecclesiale e di una maturazione armonica su questi temi.

Ma la domanda del teologo rimane: fino a quando? Quando avverrà questa maturazione ecclesiale che, finalmente libera dalla paura di cambiare, darà voce, spazio e volto a quell’audacia che pure papa Francesco auspica da tempo? Fino a quando si dovrà continuare a sentir parlare di allargamento del ministero laicale, quando ciò è stato affermato già sessant’anni fa dal Concilio Vaticano II e la famosa «ora dei laici» – secondo una felice battuta del pontefice – non si è avverata perché «sembra che l’orologio si sia fermato»? Fino a quando nessun ministero ufficiale e istituito per le donne? Fino a quando l’aspetto della disciplina dovrà essere rigidamente conservato perfino dinanzi a una drammatica urgenza sacramentale?

Rimane anche una considerazione, che non ha nulla di amaro, ma vorrebbe porsi come pungolo e provocazione: se su certe questioni aperte la Chiesa, anche stavolta e in presenza di una situazione come quella amazzonica, si è lasciata ancora irretire dalla paura e si è divisa in letture ideologiche contrapposte, qualcosa non quadra. Significa che le manca il coraggio, è deficitaria di profezia, è prigioniera dello status quo e si rinchiude proprio in quella «paura di sbagliare», denunciata da papa Francesco in Evangelii gaudium, invece che essere santamente inquietata dall’urgenza di portare il Vangelo a tutti.

Avanti, pregando per la Chiesa
Aveva affermato il cardinal Martini nel suo bellissimo testo Conversazioni notturne a Gerusalemme: «Il celibato è un altro argomento. Questo tipo di vita è oltremodo impegnativo e presuppone una profonda religiosità, una comunità valida e forti personalità, ma soprattutto la vocazione a non sposarsi. Forse non tutti gli uomini chiamati al sacerdozio possiedono questo carisma. Da noi la Chiesa dovrà escogitare qualcosa. Oggi a un parroco vengono affidate sempre più comunità, oppure le diocesi importano sacerdoti di culture straniere. Questa a lungo termine non può essere una soluzione. La possibilità di consacrare viri probati (uomini esperti, di provata fede e capacità relazionale) dovrà in ogni modo essere discussa».

Ma siamo qui. A pregare per la Chiesa, con fiducia e speranza.

giovedì 13 febbraio 2020

Jesus, Enzo Bianchi "L'altro come rivelazione di un dono"


Viviamo in un tempo contrassegnato dalla “crisi”, nella quale io leggo soprattutto una situazione di “aporia”. Aporia come incertezza, come non comprendere e non sapere, come non saper dire né decidere, fare delle scelte…
E questo proprio perché manca l’operazione faticosa e paziente del discernimento, della lettura dei segni dei tempi e delle urgenze emergenti oggi nel nostro mondo globalizzato, certo, ma un mondo che va innanzitutto letto e compreso come mondo occidentale ed europeo, il nostro mondo.

E cosa osserviamo in quest’ora? Un’incapacità dei cattolici di stare nella polis, un’afonia dovuta a un’astenia della loro fede, ma anche a un allontanamento, ormai consumatosi, dall’impegno politico cristianamente ispirato. Come ha scritto Severino Dianich, “l’attuale insignificanza dei cattolici in politica è il sintomo di un avvenuto scollamento della vita di fede del credente dalla percezione delle sue responsabilità politiche”. Va detto che i laici cattolici sono stati delegittimati e di fatto sostituiti da soggetti ecclesiastici che negli ultimi anni del secolo scorso e nei primi anni del nostro hanno avocato solo a sé il discernimento sulla situazione sociale, culturale e politica italiana, fino a intervenire direttamente in materie la cui competenza sarebbe appartenuta di diritto ai laici stessi. Così si è negata ai laici cattolici la possibilità di essere cristiani maturi, adulti, cristiani appartenenti a un popolo “regale”, e si è spenta la loro presenza, si è zittita la loro voce, non permettendo loro di esprimere la capacità di testimonianza nella polis.

Oggi credo sia urgente imparare nuovamente l’arte del dialogo, sia nelle nostre chiese e tra di loro, sia nella società. Siamo davvero chiamati a reinventare con intelligenza e creatività una cultura del dialogo, per poter vivere davvero insieme e non solo gli uni accanto agli altri. Vorrei dunque fornire alcune tracce elementari per intraprendere questo itinerario che ci sta davanti e ci attende.
La prima tappa mi pare consista nella sospensione del proprio giudizio per considerare l’altro con simpatia. Tutto incomincia da qui. L’altro non si rivela sempre “bello”, non genera per forza di cose o l’attrazione o la curiosità. Nella loro alterità, gli altri davvero sono “differenti”, sovente capaci di contraddirci. Avere un atteggiamento di simpatia significa, in un primo tempo, accettare di non comprendere l’altro, cercando nel contempo di condividerne i sentimenti, nella convinzione che la verità dell’altro ha la stessa legittimità della mia. Questo non significa l’inesistenza della verità o l’equivalenza di tutte le verità. Ciascuno può manifestare la propria verità con umiltà e dovrebbe essere disposto a ricevere da altri la verità che sempre ci precede e ci supera. Anche quando siamo convinti che la nostra verità dia senso alla nostra vita.
La simpatia implica l’empatia: ci spingerà incontro all’altro non uno slancio del cuore ma la capacità di metterci al suo posto, di capirlo dal di dentro, la quale si fonda sulla nostra comune condizione umana. L’empatia permette di percepire che l’esistenza per natura non è mai isolata, che “nessun uomo è un’isola”: esiste solo nella comunicazione e nella consapevolezza dell’esistenza di altri. L’egocentrismo, l’indifferenza, il cinismo, il rancore sono vinti da questo sentimento: si fa così posto all’altro passando dalla paura all’accoglienza, dunque all’apertura all’incontro.

Ma simpatia ed empatia sono solo le condizioni di possibilità di un dialogo fecondo di trasformazione e arricchimento reciproci: infatti dal dialogo mai si esce come vi si era entrati, e la sfida del dialogo implica la disponibilità a intraprendere un tale cammino. Dialogando emergono visioni inedite dell’altro, si avvicina la fine dei pregiudizi: c’è la scoperta di ciò che si ha in comune ma anche di ciò che manca a ciascuno. Lo spazio intermedio tra i due volti è la terra di nessuno che attende di essere coltivata e resa feconda da parole di accoglienza e riconoscimento. Quella terra di mezzo è lo spazio del dialogo. E dialogando, due volti si trovano l’uno di fronte all’altro, in una prossimità capace di aprire alla vita. Avviene così la contaminazione e lo spostamento dei confini: l’altro, che collocavo in una dimensione remota, si rivela molto più vicino e simile a me di quanto immaginassi. La frontiera non è annullata, ma da luogo di conflitti e malintesi diviene luogo di pacificazione e di incontro.

Certo, se non attendiamo nulla dall’altro, il dialogo muore prima ancora di nascere. Ma se siamo disponibili ad accogliere l’altro come “ospite interiore”, riconoscendone le tracce presenti in noi, allora scocca la scintilla del dialogo autentico: si dà tempo all’altro, si scambiano parole che divengono doni reciproci. Il dialogo diviene così ciò che la parola stessa dià-lógos dice: un intrecciarsi di linguaggi, di significati, di culture. Le domande dell’altro diventano le mie, i suoi dubbi scuotono le mie certezze, le sue convinzioni interpellano le mie. Allora scopriremo che nel dialogo arriviamo a esprimere pensieri mai pensati prima, con l’affascinante percezione di sentirli a un tempo inauditi eppure familiari a noi stessi, facendo l’esperienza di essere da tempo abitati da realtà che eravamo convinti di ignorare.

Nel dialogo l’altro si fa rivelazione di un dono che viene da altrove e va poi altrove. Ci rende possibile la scoperta inedita della nostra propria esistenza. Con parole e gesti fa affiorare l’interiorità che è in noi e ci fa il grande dono di rivelare in modo nuovo noi a noi stessi.