giovedì 16 gennaio 2020

Avvenire, Intervista. Don Petrà: «Per il Concilio il celibato è un grande dono, ma non dogma»

Don Basilio Petrà: fu Giovanni Paolo II ad approvare il Codice dei canoni delle Chiese cattoliche d'Oriente in cui si dice che tra preti celibi o preti sposati non c'è differenza qualitativa

Il celibato sacerdotale? «Sicuramente un grande dono, ma certamente non un dogma e neppure una via privilegiata al ministero. Anzi tra sacerdoti celibi e sacerdoti sposati – spiega don Basilio Petrà, preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale – non c’è differenza qualitativa». Non è una sua convinzione ma, come argomenta, quanto emerge dai documenti del Vaticano II. Nel decreto conciliare Presbyterorum Ordinis si afferma con chiarezza che «la perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli (...) non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primitiva e alla tradizione delle Chiese orientali». Anzi, i preti sposati di quelle Chiese vengono esortati nello stesso documento conciliare «a perseverare nella santa vocazione, continuando a dedicare pienamente e con generosità la propria vita per il gregge loro affidato».

Qui sembra che i padri conciliari riconoscano la possibilità di integrare positivamente i due sacramenti nella stessa persona. È così?

Nel Codice dei canoni delle Chiese cattoliche di rito orientale si spiega con chiarezza e con una ricchezza teologica che andrebbe fatta conoscere a tutti, che tra matrimonio e ordine sacro non solo non c’è alcuna contraddizione ma rappresentano un approfondimento reciproco del triplice dono sacerdotale, profetico e regale di ogni battezzato. E sa chi ha approvato e firmato quel Codice? Giovanni Paolo II. Spesso la verità è più complessa di quello che immaginiamo

Vuol dire che esagera chi oggi parla di «grave pericolo» connesso all’ipotesi di superare il sacerdozio celibatario?

Siamo portati a pensare che le prassi in uso nella Chiesa di rito latino rappresentino l’unica strada possibile. Non è così. Tra le 19 Chiese cattoliche di rito orientale, solo le due indiane non hanno preti sposati. Per tutte le altre la paternità sacerdotale è una conseguenza della paternità familiare. Solo chi era buon marito e buon padre di famiglia poteva essere ordinato prete, secondo il principio paolino.

Eppure secondo alcuni ricordare questi fondamenti rischia di tradursi in un attentato al principio del celibato.

Tutt’altro. Significa invece riconoscere che nella Chiesa che, come ricordava appunto Giovanni Paolo II, respira a due polmoni, ci sono anche due tradizioni, due prassi, due codici. Entrambi pienamente legittimi e pienamente fondati dal punto di vista della tradizione e del magistero, come anche il Vaticano II ha riconosciuto.

Lei ha scritto vari saggi sull’argomento. Tra gli altri Preti sposati per volontà di Dio (2004) e Preti celibi e preti sposati. Due carismi per la Chiesa cattolica (2011) in cui tra l’altro arriva a dire che anche il sacerdozio uxorato, come quello celibatario, nasce dalla volontà di Dio in vista della salvezza degli uomini.

Proprio così. Se anche il Vaticano II ha riconosciuto formalmente il valore teologico del sacerdozio uxorato, considerandolo una condizione certamente distinta dalla forma del sacerdozio celibatario, ma ugualmente densa di valore vuol dire che anche in Occidente quella ricchezza di significati non verrebbe meno. Nelle Chiese cattoliche orientali i preti sposati sono migliaia e migliaia. E per tutti l’esemplarità della vita coniugale diventa esemplarità della vita sacerdotale, in perfetta continuità. Tanto che prima ci si sposa, poi si viene ordinati preti. E quindi dobbiamo pensare che, se nascono nella verità, entrambi le vocazioni siano frutto dell’ascolto della volontà di Dio.

Ma di fronte a queste evidenze, come guardare a coloro che accusano il Papa di eresia solo perché ammette l’ipotesi di valutare questi problemi?

Che siamo di fronte a persone che ignorano tradizione, magistero e teologia della Chiesa. Quando la teologia delle Chiese cattoliche d’Oriente spiega in modo approfondito che ministero familiare e ministero sacerdotale uxorato realizzano pienamente il senso della missione ecclesiale in una logica di continuità che arricchisce sia la coniugalità sia il ministerialità del prete, fa un’affermazione che non può essere contestata.

Oggi forse no, ma quando sono usciti i suoi libri il dibattito fu piuttosto acceso, con contestazioni anche pesanti.

Eh sì, eppure nonostante vari tentativi di sottoporre queste tesi al vaglio dell’autorità ecclesiastica, non ho mai avuto conseguenze di alcun tipo. È bastata un’indagine preliminare da parte di esperti competenti, per capire che tutto è fondato sulla tradizione e sul magistero. La legge del celibato ecclesiastico non è di natura divina e dare identica dignità ai due carismi – quello celibatario e quello uxorato – non rappresenta un rischio né per la tradizione latina né per l’evangelizzazione. Anzi.

Alzo gli occhi verso il Cielo: Paolo Ricca: "Celibato, obbligo o scelta?"

Paolo Ricca "Celibato, obbligo o scelta?"

Roma, 14 gennaio 2020 – L’Agenzia NEV ha intervistato il teologo valdese Paolo Ricca sul tema del celibato ecclesiastico e delle recenti richieste provenienti dal Sinodo dell’Amazzonia di aprire all’ordinazione degli uomini sposati.

Preti sposati, qual è la posizione dei protestanti?

La posizione è quella scelta dai Riformatori del XVI secolo che hanno ritenuto che non ci fossero motivi biblici o di altra natura perché i ministri, e in particolare i pastori di comunità, non fossero sposati. Quindi, i Riformatori stessi, senza eccezioni, si sono sposati. Lutero stesso, anche se a dire il vero si sposò molto tardi, è stato marito, divenendo poi padre di sei figli e figlie.

Joseph Ratzinger ha chiesto di togliere la sua firma dal libro del prelato guineano Robert Sarah, in uscita in Francia con titolo “Dal profondo del nostro cuore”. Nel volume è presente un saggio introduttivo del papa emerito che avrebbe scritto “non posso tacere”, chiedendo a papa Francesco di non permettere l’ordinazione sacerdotale di uomini sposati proposta dal Sinodo sull’Amazzonia. Cosa ne pensa?

Io penso che il celibato sia una possibilità, sia per il cristiano qualunque, il cristiano laico, sia per il cristiano incaricato di un ministero, che sia un ministero sacerdotale, pastorale, diaconale, dottorale o altre forme di ministero apostolico.

È una possibilità, di cui la Bibbia parla. Gesù a quanto pare non era sposato, ma l’idea che ci sia incompatibilità tra matrimonio e ministero di qualunque natura, nella chiesa, e parlo di ministero maschile e femminile, perché questo vale ovviamente anche per le donne, è un’idea che non ha nessuna radice biblica.

Se uno sente di essere chiamato a una vita come single, come si dice oggi, come persona singola, bene. Nessuno lo vieta. È anche previsto nella lettera ai Corinzi al capitolo 7, dedicato a queste questioni.

È una possibilità che, per essere autentica, io penso debba restare libera. Nel momento in cui diventasse una legge, diventasse obbligatoria e si affermasse, come mi sembra sostenga Ratzinger, che c’è un rapporto ontologico, cioè di sostanza, tra celibato e ministero sacerdotale o pastorale (il quale verrebbe messo in discussione, anzi verrebbe negato o comunque irrimediabilmente compromesso dal fatto di avere un rapporto coniugale o matrimoniale), questa affermazione è assolutamente, secondo me, priva di qualunque fondamento biblico e dunque, con tutto il rispetto, priva di verità e di autorità cristiana. Non è una cosa che la fede cristiana deve accettare, questo è il punto. Non è una cosa a cui si deve obbedire in nome della fede.

Naturalmente tutte le posizione sono degne di essere meditate, non si disprezza nulla e nessuno, ma non mi sento di dire altro. È un’opinione rispettabile, come tutte, ma nulla di più. Un’opinione che non ha nulla di specificamente e autorevolmente cristiano.

Secondo lei il celibato ecclesiastico andrebbe abolito?

Quello che si deve abolire non è il celibato, ma l’obbligo del celibato. L’obbligatorietà è ciò che tradisce la natura stessa del celibato. Non che uno sia obbligato a sposarsi, ma l’obbligo del celibato è anche una violazione dei diritti umani.

Chiunque accetti questa legge lo fa volentieri, volenterosamente, per mille ragioni spirituali, religiose o non religiose. Però, così come è un diritto umano il celibato, così è un diritto umano il coniugio. Amare una persona è un diritto, non è un delitto. Tutti sanno che c’è l’attrazione dei sessi. Ed è una cosa sacrosanta, l’unica grazie alla quale l’umanità sopravvive. Senza essa, senza l’attrazione, non ci sarebbe futuro. Il matrimonio può complicare o risolvere problemi, come tutte le situazioni umane della vita. Non esiste una mistica del matrimonio, e neanche una mistica del celibato.

Cosa succederebbe se venisse abolito l’obbligo del celibato?

Se si arrivasse all’abolizione dell’obbligo di celibato sarebbe una liberazione. Si capirebbe in tutto il mondo che ministero e matrimonio (l’amore coniugale e familiare) possono coesistere, oppure no, ma non possono essere scelte imposte.

È chiaro che una vita familiare infelice, del pastore, o del prete, può riflettersi negativamente sull’esercizio del ministero, ma questo non giustifica imporre una scelta. Ratzinger sosterrebbe nel suo saggio che nell’Antico testamento i sacerdoti dovevano promettere di astenersi da ogni atto sessuale con la propria moglie, vivendo da fratello e sorella. Non lo sapevo, mi riesce molto strano crederlo, ma sarebbe una legge iniqua.

Dietro tutto questo c’è il sospetto, per non dire la convinzione, che la sessualità sia peccaminosa in sé, che qualunque atto sessuale tu compia, tu pecchi. Perché il peccato è lì da qualche parte, in modo misterioso. È un’idea antichissima, diffusissima anche nel cristianesimo e, forse, una delle ragioni per cui la rinuncia alla sessualità è stata capita come primo passo per la santità. Ma queste sono teorie fuori dalla sacra scrittura.

Io non ho una sapienza diversa da quel poco che posso capire dalla Bibbia, dove tutto questo non esiste. Pensiamo al Cantico dei cantici. È un manifesto della sessualità come grazia divina, uno dei più bei doni che l’umanità possa sperimentare.

mercoledì 8 gennaio 2020

Enzo Bianchi "Un serio ritorno dei cattolici alla politica"


Vita Pastorale - Dove va la chiesa - Gennaio 2020
Viviamo in un tempo contrassegnato dalla “crisi”, nella quale io leggo soprattutto una situazione di “aporia”. Aporia come incertezza, come non comprendere e non sapere, come non saper dire né decidere, fare delle scelte…
E questo proprio perché manca l’operazione faticosa e paziente del discernimento, della lettura dei segni dei tempi e delle urgenze emergenti oggi nel nostro mondo globalizzato, certo, ma un mondo che va innanzitutto letto e compreso come mondo occidentale ed europeo, il nostro mondo.

E cosa osserviamo in quest’ora? Un’incapacità dei cattolici di stare nella polis, un’afonia dovuta a un’astenia della loro fede, ma anche a un allontanamento, ormai consumatosi, dall’impegno politico cristianamente ispirato. Come ha scritto Severino Dianich, “l’attuale insignificanza dei cattolici in politica è il sintomo di un avvenuto scollamento della vita di fede del credente dalla percezione delle sue responsabilità politiche”. Va detto che i laici cattolici sono stati delegittimati e di fatto sostituiti da soggetti ecclesiastici che negli ultimi anni del secolo scorso e nei primi anni del nostro hanno avocato solo a sé il discernimento sulla situazione sociale, culturale e politica italiana, fino a intervenire direttamente in materie la cui competenza sarebbe appartenuta di diritto ai laici stessi. Così si è negata ai laici cattolici la possibilità di essere cristiani maturi, adulti, cristiani appartenenti a un popolo “regale”, e si è spenta la loro presenza, si è zittita la loro voce, non permettendo loro di esprimere la capacità di testimonianza nella polis.

Ora, se è vero che “la chiesa” – come più volte ha ricordato Benedetto XVI – “non è e non intende essere un agente politico”, spetta invece ai cittadini cattolici una funzione immediata nel partecipare in prima persona alla vita pubblica “senza abdicare alla molteplice e svariata azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere il bene comune” (Benedetto XVI, Deus caritas est 29). Quali sono le modalità in cui tale partecipazione può avvenire?

Un’ipotesi che in questi ultimi anni si manifesta tramite la voce di figure autorevoli del laicato cattolico e anche della gerarchia è quella di rifondare un partito di ispirazione cattolica. Gastone Simoni, vescovo emerito di Prato, ne ha parlato in alcuni interventi molto articolati. Scriveva il 30 agosto scorso: “Mi parrebbe venuta l’ora per stringere i tempi e arrivare all’evento fondativo di un nuovo soggetto politico non oltre i prossimi mesi del 2019”. Non si tratta di fondare un partito cattolico – precisa il vescovo – ma “della nascita di un nuovo partito democratico di piena ispirazione cristiana … che, come tale, sia impegnato a tradurre laicamente e democraticamente l’intera gamma dei valori personalistici e comunitari propri della visione antropologica-storica che Paolo VI sintetizzava, nella Populorum progressio (nn. 42-43), come ‘lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini’”.

Si auspica la partecipazione alla politica da parte di cattolici, attraverso “un partito promosso certamente da cattolici ma aperto ad altri purché non avversi ai fondamentali valori dell’‘umanesimo integrale’”. L’esito potrà essere “un fatto più o meno piccolo, minoritario, sì, ma non insignificante di testimonianza cristiana in questo” momento “di emarginazione del pensiero e dello spirito cristiano”. Sempre secondo Simoni, questo soggetto dovrà superare in modo deciso “quella divisione tra i ‘cattolici della morale’ (o dei valori cosiddetti non negoziabili) e i ‘cattolici del sociale’, secondo quanto più volte ha detto e richiesto il cardinale Bassetti”, presidente della CEI. In questo stesso solco, va segnalata, più di recente (31 ottobre 2019), la pubblicazione di un “Manifesto per la costruzione di un soggetto politico ‘nuovo’ d’ispirazione cristiana e popolare”, già sottoscritto da centinaia di persone e decine di gruppi e associazioni, tra cui “Politica Insieme”, di cui fa parte Stefano Zamagni, capo della Pontificia accademia delle scienze sociali.

Questa è un’ipotesi, una scommessa, verso la quale va il mio rispetto, anche se ravviso in essa alcune ingenuità nella concreta possibilità di realizzazione. Credo infatti che oggi non sia sufficiente convocare, radunare ma, se si vuole compiere un’operazione politica efficace e duratura, occorre dedicare molto tempo alla formazione, a un cammino ecclesiale e nella polis di ascolto attento e continuo di ciò che emerge dalla convivenza sociale.

L’altra ipotesi, peraltro ancora da precisare, è quella di un sinodo per l’Italia, su cui già ho riflettuto, proprio in questa rubrica, nell’aprile scorso. La sinodalità – lo ribadisco – non è un’opzione possibile, ma è la forma in cui vive la chiesa, la comunità cristiana: si tratta di camminare insieme per leggere insieme il cammino percorso, per discernere i segni dei tempi e ciò che è urgente secondo l’egemonia del Vangelo, per decidere e operare insieme nella storia e nella convivenza umana. Se questo è il cammino, ben distante dalle preoccupazioni di un partito di ispirazione cattolica, occorrerà avere come obiettivo un impegno diretto nella politica da parte dei cristiani, nella consapevolezza che questo appartiene alla testimonianza cristiana ed è un dovere che non può essere evaso, quale segno concreto della differenza cristiana nella compagnia degli uomini.
Proprio in questo alveo della sinodalità come processo e stile per la vita dei cristiani nella comunità e nel mondo, da almeno trent’anni, ossia dall’ora della grande crisi apertasi proprio riguardo alla partecipazione dei cattolici alla vita politica, e in questi anni della grande afonia, ho proposto una via concreta, un metodo che permetterebbe una polifonia di voci e di azioni ispirate però da una stessa fede. Contro ogni tentazione di integralismo e di ricerca di una presenza “occupante” nella politica, a mio avviso i cattolici dovrebbero imparare ad abitare lo spazio in cui regna Cesare senza per questo renderlo uno spazio teocratico. Finita la stagione della cristianità, finita la stagione del partito cattolico ed esauritosi il “progetto culturale”, occorre veramente iniziare un nuovo percorso che può solo realizzarsi mediante una prassi ecclesiale vissuta innanzitutto a livello di comunità cristiane e di chiese locali.

La proposta è dunque quella di dare vita nelle nostre chiese locali, diocesane o regionali, a uno spazio al quale tutti i cattolici che si sentono responsabili nella vita ecclesiale e nella società possano essere convocati e quindi partecipare. Non un’assemblea dei soliti scelti o eletti in base all’appartenenza ad associazioni o istituti pastorali, ma un’assemblea realmente aperta a tutti, che sappia convocare uomini e donne muniti solo della vita di fede, della comunione ecclesiale, della consapevole collocazione nella compagnia degli uomini. Si tratta di chiamarli a esprimersi in merito a una lettura della vita sociale, delle urgenze che emergono e perciò in merito a un ascolto del Vangelo.

Questo sarebbe un confronto in cui si esaminano i problemi che si affacciano sempre nuovi nella vita del paese e si cerca di discernere insieme le ispirazioni provenienti dal primato del Vangelo. Da questo ascolto reciproco, da questo confronto, possono emergere convergenze pre-politiche, pre-economiche, pre-giuridiche che confermano l’unità della fede ma lasciano la libertà della loro realizzazione plurale insieme ad altri soggetti politici nella società. Un forum, dunque, uno spazio pubblico reale in cui pastori e popolo di Dio insieme, in una vera sinodalità, ascoltino ciò che lo Spirito dice alle chiese e facciano discernimento per trarre indicazioni e vie di testimonianza, di edificazione della polis e della convivenza buona nella giustizia e nella pace. È in questo spazio che si possono delineare le istanze evangeliche irrinunciabili, che poi i singoli cattolici con competenza e responsabilità tradurranno in impegni e azioni diverse a livello economico, politico e giuridico.

Così sarebbe assicurata l’unità dell’ispirazione evangelica, ne sarebbe garantita l’autenticità, senza tentazioni di integralismo, dando vita a “una polifonia ispirata a una stessa fede e costruita con molteplici suoni e strumenti” (papa Francesco, 4 marzo 2019, Udienza a un gruppo della Pontificia Commissione per l’America Latina).