martedì 21 aprile 2020

SettimanaNews: Papa Francesco, Esercizi di speranza

Papa Francesco, in un articolo pubblicato dalla rivista spagnola Vida Nueva, raccoglie le esperienze di oggi, quell’unzione della corresponsabilità per accudire e non mettere a rischio la vita degli altri, e tratteggia i contorni di una nuova immaginazione possibile intorno a cui convoca l’umanità come un solo popolo e tutta la comunità internazionale.

«Ed ecco Gesù venne loro incontro dicendo: “Rallegratevi”» (cf. Mt, 28, 9). Sono le prime parole del Risorto dopo che Maria Maddalena e l’altra Maria scoprirono il sepolcro vuoto e s’imbatterono nell’angelo. Il Signore va loro incontro per trasformare il loro lutto in gioia e consolarle in mezzo alle afflizioni (cf. Ger 31, 13). È il Risorto che vuole risuscitare a una vita nuova le donne e, con loro, l’umanità intera. Vuole farci già iniziare a partecipare della condizione di risorti che ci attende.

Invitare alla gioia potrebbe sembrarci una provocazione, e persino uno scherzo di cattivo gusto dinanzi alle gravi conseguenze che stiamo subendo a causa del Covid-19. Non sono pochi quelli che potrebbero ritenerlo, al pari dei discepoli di Emmaus, come un gesto d’ignoranza o d’irresponsabilità (cf. Lc 24, 17-19). Come le prime discepole che andavano al sepolcro, viviamo circondati da un clima di dolore e d’incertezza che porta a chiederci: “Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?” (Mc 16, 3). Come faremo per affrontare questa situazione che ci ha completamente sopraffatti?

L’impatto di tutto ciò che sta accadendo, le gravi conseguenze che già si segnalano e s’intravedono, il dolore e il lutto per i nostri cari ci disorientano, angosciano e paralizzano. È la pesantezza della pietra del sepolcro che s’impone dinanzi al futuro e che minaccia, con il suo realismo, di seppellire ogni speranza. È la pesantezza dell’angoscia di persone vulnerabili e anziane che attraversano la quarantena nella più assoluta solitudine, è la pesantezza delle famiglie che non sanno più come portare un piatto di cibo sulla loro tavola, è la pesantezza del personale sanitario e degli addetti alla sicurezza quando si sentono esausti e sopraffatti… quella pesantezza che sembra avere l’ultima parola.

francesco dopo coronavirus

È tuttavia commovente ricordare l’atteggiamento delle donne del Vangelo. Di fronte ai dubbi, alla sofferenza, alla perplessità dinanzi alla situazione, e persino alla paura della persecuzione e di tutto ciò che sarebbe potuto accadere loro, furono capaci di mettersi in movimento e di non lasciarsi paralizzare da quello che stava succedendo. Per amore verso il Maestro, e con quel tipico, insostituibile e benedetto genio femminile, furono capaci di accettare la vita come veniva e di aggirare astutamente gli ostacoli per stare accanto al loro Signore.

A differenza di molti degli Apostoli che fuggirono in preda alla paura e all’insicurezza, che negarono il Signore e scapparono (cf. Gv 18, 25-27), loro, senza evadere né ignorare quello che stava accadendo, senza fuggire né scappare… seppero semplicemente esserci e accompagnare. Come le prime discepole che, in mezzo all’oscurità e allo sconforto, riempirono la loro borsa di olii aromatici e si misero in cammino per andare a ungere il Maestro sepolto (cf. Mc 16, 1), così noi abbiamo potuto, in questo tempo, vedere molti che hanno cercato di portare l’unzione della corresponsabilità per accudire e non mettere a rischio la vita degli altri.

Abbiamo visto mani che ungono corpi
A differenza di quanti fuggirono con la speranza di salvare sé stessi, siamo stati testimoni di come vicini e familiari si sono impegnati, con sforzo e sacrificio, a restare in casa e frenare così la diffusione. Abbiamo potuto scoprire come molte persone che già vivevano e dovevano subire la pandemia dell’esclusione e dell’indifferenza hanno continuato ad adoperarsi, accompagnandosi e sostenendosi, affinché la situazione sia (o meglio, fosse) meno dolorosa.

Abbiamo visto l’unzione versata da medici, infermieri e infermiere, magazzinieri, addetti alla pulizia, badanti, trasportatori, forze di sicurezza, volontari, sacerdoti, religiose, nonni ed educatori e tanti altri che hanno avuto il coraggio di offrire tutto ciò che avevano per dare un po’ di cura, calma e animo alla situazione. Anche se la domanda continuava a essere la stessa: «Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?» (Mc 16, 3), tutti loro non hanno smesso di fare ciò che sentivano di potere e dover dare.

I nostri gesti di oggi non sono vani
Ed è stato proprio lì, in mezzo alle loro occupazioni e preoccupazioni, che le discepole furono sorprese da un annuncio straripante: «Non è qui. È risorto». La loro unzione non era un’unzione per la morte, ma per la vita. Il loro vegliare e accompagnare il Signore, persino nella morte e nella disperazione più grande, non era vano, anzi permise loro di essere unte dalla Resurrezione: non erano sole, Lui era vivo e le precedeva lungo il cammino. Solo una notizia straripante era capace di rompere il circolo che impediva loro di vedere che la pietra era già stata rotolata via, e il profumo versato aveva più capacità di diffusione di ciò che le minacciava.

Questa è la fonte della nostra gioia e speranza, che trasforma il nostro agire: le nostre unzioni, la nostra dedizione… il nostro vegliare e accompagnare in ogni forma possibile in questo tempo, non sono né saranno vani: non è dedizione per la morte. Ogni volta che prendiamo parte alla Passione del Signore, accompagniamo la passione dei nostri fratelli, vivendo anche la stessa passione, le nostre orecchie ascolteranno la novità della Resurrezione: non siamo soli, il Signore ci precede nel nostro cammino rimuovendo le pietre che ci paralizzano. Questa buona novella fece sì che quelle donne tornassero sui loro passi a cercare gli Apostoli e i discepoli che restavano nascosti per raccontare loro: «La vita strappata, distrutta, annientata sulla croce si è risvegliata ed è tornata a pulsare» (R. Guardini, El Señor, 504).

Questa è la nostra speranza, quella che non potrà esserci strappata, messa a tacere o contaminata. Tutta la vita di servizio e di amore che avete donato in questo tempo tornerà a pulsare. Basta aprire una fessura perché l’unzione che il Signore ci vuole donare si espanda con forza inarrestabile e ci consenta di contemplare la realtà dolente con uno sguardo rinnovatore.

E, come le donne del Vangelo, anche noi siamo ripetutamente invitati a tornare sui nostri passi e a lasciarci trasformare da questo annuncio: il Signore, con la sua novità, può sempre rinnovare la nostra vita e quella della nostra comunità (cf. Evangelii gaudium, n. 11). In questa terra desolata, il Signore s’impegna a rigenerare la bellezza e a far rinascere la speranza: «Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43, 19). Dio non abbandona mai il suo popolo, è sempre accanto a lui, specialmente quando il dolore si fa più presente.

Il tempo favorevole
Se abbiamo potuto imparare qualcosa in tutto questo tempo è che nessuno si salva da solo. Le frontiere cadono, i muri crollano e tutti i discorsi integralisti si dissolvono dinanzi a una presenza quasi impercettibile che manifesta la fragilità di cui siamo fatti. La Pasqua ci convoca e c’invita a fare memoria di quest’altra presenza discreta e rispettosa, generosa e riconciliatrice, capace di non rompere la canna incrinata né di spegnere lo stoppino che arde debolmente (cf. Is 42, 2-3) per far pulsare la vita nuova che vuole donare a tutti noi.

È il soffio dello Spirito che apre orizzonti, risveglia la creatività e ci rinnova in fraternità per dire presente (oppure eccomi) dinanzi all’enorme e improrogabile compito che ci aspetta. È urgente discernere e trovare il battito dello Spirito per dare impulso, insieme ad altri, a dinamiche che possano testimoniare e canalizzare la vita nuova che il Signore vuole generare in questo momento concreto della storia. Questo è il tempo favorevole del Signore, che ci chiede di non conformarci né accontentarci, e tanto meno di giustificarci con logiche sostitutive o palliative, che impediscono di sostenere l’impatto e le gravi conseguenze di ciò che stiamo vivendo.

Questo è il tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, con il realismo che solo il Vangelo può offrirci. Lo Spirito, che non si lascia rinchiudere né strumentalizzare con schemi, modalità e strutture fisse o caduche, ci propone di unirci al suo movimento capace di “fare nuove tutte le cose” (Ap 21, 5).

In questo tempo ci siamo resi conto dell’importanza “di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale” (Lettera enciclica Laudato si’, 24 maggio 2015, n. 13). Ogni azione individuale non è un’azione isolata, nel bene o nel male. Ha conseguenze per gli altri, perché tutto è interconnesso nella nostra Casa comune; e se sono le autorità sanitarie a ordinare il confinamento in casa, è il popolo a renderlo possibile, consapevole della sua corresponsabilità per frenare la pandemia. «Un’emergenza come quella del Covid-19 si sconfigge anzitutto con gli anticorpi della solidarietà» (Pontificia Accademia per la Vita. Pandemia e fraternità universale, Nota sulla emergenza da Covid-19, marzo 2020).

Siamo un solo popolo
Lezione che romperà tutto il fatalismo in cui ci eravamo immersi e ci permetterà di sentirci nuovamente artefici e protagonisti di una storia comune e, così, rispondere insieme a tanti mali che affliggono milioni di persone in tutto il mondo. Non possiamo permetterci di scrivere la storia presente e futura voltando le spalle alla sofferenza di tanti. È il Signore che ci domanderà di nuovo: “Dov’è tuo fratello” (Gn 4, 9) e, nella nostra capacità di risposta, possa rivelarsi l’anima dei nostri popoli, quel serbatoio di speranza, fede e carità in cui siamo stati generati e che, per tanto tempo, abbiamo anestetizzato e messo a tacere.

Se agiamo come un solo popolo, persino di fronte alle altre epidemie che ci minacciano, possiamo ottenere un impatto reale. Saremo capaci di agire responsabilmente di fronte alla fame che patiscono tanti, sapendo che c’è cibo per tutti? Continueremo a guardare dall’altra parte con un silenzio complice dinanzi a quelle guerre alimentate da desideri di dominio e di potere? Saremo disposti a cambiare gli stili di vita che subissano tanti nella povertà, promuovendo e trovando il coraggio di condurre una vita più austera e umana che renda possibile una ripartizione equa delle risorse? Adotteremo, come comunità internazionale, le misure necessarie per frenare la devastazione dell’ambiente o continueremo a negare l’evidenza?

La globalizzazione dell’indifferenza continuerà a minacciare e a tentare il nostro cammino… Che ci trovi con gli anticorpi necessari della giustizia, della carità e della solidarietà. Non dobbiamo aver paura di vivere l’alternativa della civiltà dell’amore, che è “una civiltà della speranza: contro l’angoscia e la paura, la tristezza e lo sconforto, la passività e la stanchezza. La civiltà dell’amore si costruisce quotidianamente, ininterrottamente. Presuppone uno sforzo impegnato di tutti. Presuppone, per questo, una comunità impegnata di fratelli” (Eduardo Pironio, Diálogo con laicos, Buenos Aires, 1986).

In questo tempo di tribolazione e di lutto, auspico che, lì dove sei, tu possa fare l’esperienza di Gesù, che ti viene incontro, ti saluta e ti dice: «Rallegrati» (cfr. Mt 28, 9). E che sia questo saluto a mobilitarci a invocare e amplificare la buona novella del Regno di Dio.

 Testo originale spagnolo pubblicato sulla rivista Vida Nueva (17 aprile). Traduzione italiana apparsa su l’Osservatore Romano.

venerdì 3 aprile 2020

SettimanaNews: Mons. Wilmer: Dio alla prova

di: Joachim Franck (a cura)

Mons. Wilmer, vescovo di Hildesheim (Germania), è stato fino al 2018 superiore generale dei dehoniani. Attualmente è anche presidente della Commissione Justitia et Pax della Conferenza episcopale tedesca.
In questa intervista, pubblicata sul Kölner Stadt Anzeiger del 30 marzo 2020, affronta problemi cruciali collegati con la pandemia del coronavirus: in particolare l’eterno problema del dolore e il silenzio di Dio e quello riguardante la Chiesa in questo drammatico momento. L’intervista è stata raccolta da Joachim Franck e tradotta da padre Antonio Dall’Osto.


– Signor vescovo, come si è sentito cambiato dalla crisi del coronavirus?

Ciò che il mio ex segretario, originario di Bergamo, mi racconta della situazione in Italia è terribile. Il vescovo del luogo ha sospeso tutte le cerimonie funebri perché non si riesce a starci dietro per il gran numero di morti. Un anziano padre francescano, fra Aquilino, prima della cremazione, mette il suo smartphone sulle bare e lo collega con i loro familiari affinché possano dire addio almeno in questo modo. Soltanto dopo, quando tutto è finito – dice il vescovo – si può recitare insieme un Requiem per tutti i morti della diocesi. È qualcosa di straziante che mi commuove profondamente.

– Questo avviene per tutti coloro che hanno un cuore. Che cosa la turba come credente?

Mi chiedo infatti: fino a che punto la fede, la Chiesa, sostengono anche la nostra teologia? Cosa perdono di questa colonna portante? Le affermazioni della Chiesa sono messe alla prova circa la presenza di Dio. Il concilio Vaticano II insegna che Dio è presente nelle varie circostanze: soprattutto nella celebrazione della messa, nei sacramenti, e anche nella parola della Scrittura e, infine, là dove “due o tre sono riuniti nel nome di Gesù”.

Il turbamento del credente e la Parola
Io noto che ci siamo concentrati molto sulla messa e i sacramenti. Adesso che le chiese sono chiuse, diventano importanti la Bibbia e le piccole comunità di fedeli come “chiese domestiche”.

– Per le riunioni con tre è già difficile.

Ma due sono ammessi E anche da solo posso leggere le Scritture e trarne giovamento per la mia vita. Questo è rilevante. Ora entra in gioco nuovamente il grande interrogativo di Martin Lutero: come posso trovare  un Dio misericordioso? Non solo in qualche modalità attribuita alla mediazione della Chiesa, ma direttamente, attraverso un contatto diretto. E qui torno nuovamente alla promessa di Gesù ripresa dal concilio Vaticano II: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”.

Il mio leitmotiv per questo tempo è il seguente: l’assenza delle messe ci sollecita a pensare ad altre forme di comunicazione reciproca che sono presenti nella tradizione cristiana. La celebrazione della messa – l’eucaristia – è molto importante. Ma ora sedetevi! Leggete la Bibbia, parlatene tra voi in due o tre, mediante una teleconferenza o Skype, poco importa. Soprattutto: parlate con Dio! Potrei anche dire: spezzate il pane e dividetelo tra voi, come i primi cristiani, senza sacerdote? Non mi spingerei così lontano.

Vorrei tornare indietro e dire: la Parola della Bibbia è anch’essa un cibo nutriente. L’interrogativo sulla presenza di Dio dev’essere posto ancora più profondamente: dov’è Dio di fronte a un nemico invisibile che si diffonde in tutto il mondo e uccide? Ho molta stima della teologa protestante Dorothee Sölle che ha vissuto a lungo a Colonia, una discussa ma grande donna che orienta il nostro sguardo in maniera inesorabile e senza compromessi sulla sofferenza.

La sofferenza – afferma – dal punto di vista cristiano non è un destino che la gente deve sopportare. La sofferenza induce al grido, alla protesta, ad uno shock esistenziale: come ha potuto succedere una cosa del genere a noi come comunità mondiale del 21° secolo? In Italia, la gente ricorda il celebre romanzo di Alessandro Manzoni I Promessi Sposi, in cui si parla della pestilenza durante la guerra dei trent’anni proprio nella zona di Bergamo.

– Con questo, l’interrogativo su Dio è posto in modo ancora più acuto poiché la traccia della sofferenza e della morte è indelebile e si snoda senza fine attraverso i secoli. 

Non possiamo sconfiggere la sofferenza. Forse il coronavirus sì, lo speriamo, ma non la sofferenza in sé. Questa è anche la convinzione drammatica di Dorothee Sölle. Si tratta piuttosto di come affrontiamo la sofferenza. È – afferma la Sölle – una maniera di cambiamento, di trasformazione. Però senza una falsa consolazione, senza far sperare nel dopo fantastico che esiste solo nella mia proiezione. Sollevare nuovamente questo problema potrebbe essere compito delle Chiese.

E parlare del fatto che Dio è presente in chi soffre: nei malati di coronavirus, negli infermi che, come a Bergamo, non si sono affatto contagiati da sé, e non possono essere curati per la scarsità delle risorse e muoiono senza antidolorifici. Sono convinto che Dio è presente anche in coloro che assistono tutte queste persone, in ogni modo possibile.

– La sua fiducia in Dio è rimasta scossa?

No. Io mi attengo a un versetto del Nuovo Testamento: “Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza” (2Tm 1,7). Tuttavia questa crisi mi sconvolge e mi mostra che Dio è ancora una volta del tutto diverso da come lo immaginavi.


– A molti viene in mente l’immagine di un Dio che castiga: l’umanità riceve la paga per la sua arroganza…

Questo pensiero è terribile e del tutto non cristiano. La crisi del coronavirus non è un castigo di Dio. È una catastrofe naturale.

– Lei ha parlato del ruolo delle Chiese. Non trova che le Chiese nella crisi siano praticamente per così dire annientate? Le chiese sono state chiuse, le celebrazioni cancellate. Tutto è silenzioso e muto. Una cosa del genere non è avvenuta nemmeno in tempo di guerra.

Noi, nella diocesi di Hildesheim, teniamo le chiese aperte. Con la chiara condizione: non per riunioni di persone, soltanto per la preghiera personale e come luogo di ritiro e di sosta. Chi vuole può venire qui a riposarsi, ad accendere una candela. Anche questo è ciò che si vede.

Io dal mio studio ho una veduta sulla cattedrale e continuo a osservare il portale che si apre e chiude. Le persone vanno e vengono. Ma raccolte. Mi sembra come se sulla città e sulla campagna si fosse imposto un tempo di contemplazione, una specie di esercizi collettivi silenziosi.

Per quanto riguarda la presenza pubblica delle Chiese: è vero. In questo momento tutti guardano agli scienziati e ai politici. Aspettiamo di avere notizie sui vaccini o sui farmaci. Aspettiamo decisioni che garantiscano posti di lavoro e tengano unita la società. Le Chiese non compaiono in primo piano. Noto tuttavia che ora siamo interpellati in un modo che forse prima non avremmo immaginato.

Pratiche non parole, la Chiesa che verrà
– Interpellati su che cosa?

La Chiesa come avvocata che viene in soccorso. Ciò avviene con l’impegno, non con dichiarazioni; con parole di conforto, non con pretese. Penso che sia questo che ora entra chiaramente in gioco. Viene spontanea la domanda: cosa succede se la “normalità tranquilla” si scompagina?

Quando ciò che ritenevamo sicuro all’improvviso non regge più? Se i fondamenti su cui noi basiamo la nostra vita, minacciano di sgretolarsi? Il calcolo razionale giunge al limite e avvertiamo di aver bisogno di qualcosa che va oltre. Sapevate che Gesù ha un soprannome? Devo riflettere. Quale pensate che sia? Il Salvatore. Questo richiede di tendere l’orecchio e ascoltare. Gesù è il medico. Tutti andavano da lui e volevano che li risanasse nel corpo e nello spirito ed egli sapeva mettere insieme i frammenti di un’esistenza infranta. Su questo atteggiamento devono essere giudicate la religione cristiana e la Chiesa.

– Vale a dire?

In quanto Chiesa, la crisi del coronavirus ci costringe a chiederci nuovamente: in che modo noi possiamo rendere ragione a Gesù Salvatore? In particolare: mediante la vicinanza alla gente. Nessuna vicinanza uccide. In questi giorni significa naturalmente una vicinanza con una distanza fisica. La crisi è un’esperienza chiave per noi: la Chiesa non esiste per se stessa, ma per la società.

– I dibattiti interni di riforma alla Chiesa sono per il momento venuti meno.

Per alcuni è la prova che essere concentrati esclusivamente su se stessi è irrilevante. Al contrario. La crisi mi mostra che le riforme sono necessarie, ma non sufficienti. Abbiano bisogno di qualcosa di più. Abbiamo una crisi della Chiesa, ma anche una crisi della fede nel senso che non ci è chiaro come funziona il rapporto tra l’uomo e Dio, il grande e insondabile segreto.

– Lei è stato superiore maggiore di un Istituto attivo sul piano internazionale. Ci accorgiamo che gli steccati delle frontiere crollano e che i Paesi si preoccupano di autodifendersi. Il coronavirus è la fine dell’idea della comunità dei popoli? 

Sarebbe un male. Naturalmente dobbiamo anche proteggerci come comunità, osservare delle regole, mantenere le distanze. Ma sarebbe una catastrofe ancora maggiore se noi ci isolassimo e non vedessimo gli altri. “Si salvi chi può” è un motto fatale per i singoli come anche per un popolo. Ma sono sicuro che l’egoismo non vincerà e vedo che ci sono già dei segni molto incoraggianti.

– Quale per esempio? 

Si ricorda che nei primi giorni della crisi acuta si parlava continuamente di professioni rilevanti per il sistema. Si trattava di medici, scienziati, politici, senza dimenticare i giornalisti. Fin quando è diventato improvvisamente chiaro che importante per il sistema era anche la giovane donna con un retroterra di migrazione, che non parla tedesco ma siede alla cassa del supermercato o riempie gli scaffali.

Pasqua, forse come alle origini…
– Lei ha già annullato la Pasqua 2020?

Questa settimana – per la prima volta nella storia della diocesi di Hildesheim – la nostra conferenza di gestione è stata tenuta in videocircuito e abbiamo stabilito che i servizi liturgici del giovedì santo, del venerdì e anche la veglia pasquale si tengano in cattedrale, con una piccola cerchia di partecipanti. La domenica di Pasqua celebro la messa alla radio NDR (Norddeutscher Runfunk) e WDR (Westdeutscher Rundhfunk). La benedizione della rivoluzione digitale – e la chiamo volutamente “benedizione” – diventa ora chiara. La gente può collegarsi virtualmente non solo per riunioni e conferenze, ma anche per pregare e per la messa. Ciò è di grande aiuto.

– Tuttavia, la Pasqua, la più grande festa del cristianesimo in una cattedrale vuota, senza una comunità che festeggia, non le sembra una contraddizione?

È per lo meno uno spettacolo molto, molto insolito. Ma forse corrisponde alla situazione delle origini della Pasqua: guardiamo la tomba vuota e ci chiediamo: “Dov’è ora il Signore?”.

giovedì 2 aprile 2020

SettimanaNews: Celebrare il tempo dei giorni

Perché non riscoprire, in assenza dell’eucaristia, la recita della Liturgia delle ore? Anch’essa è celebrazione del mistero pasquale di Cristo.

In questo tempo nel quale anche la fede è messa alla prova si sottolinea molto – e si fanno a volte anche inutili polemiche (fuori luogo in questo momento) – l’impossibilità di celebrare insieme, come comunità cristiana, l’eucaristia, fonte e culmine della vita della Chiesa (cf. LG 11; SC 10). Mi sembra, da ciò che vedo e sento, che invece si insista poco sulla possibilità di celebrare personalmente o in famiglia la Liturgia delle ore, in particolar modo le lodi mattutine e i vespri.

Eucaristia e Liturgia delle ore
Se indubbiamente la celebrazione eucaristica è il modo più alto della Chiesa per celebrare il mistero pasquale di Cristo, la Liturgia delle ore è anch’essa, nel modo che le è proprio,celebrazione del mistero pasquale di Cristo. Non è certamente la stessa cosa che celebrare l’eucaristia, ma è comunque celebrazione nel ritmo della giornata del mistero di Cristo, di morte e risurrezione che, in un momento come questo, tutti possono vivere.

I Principi e norme per la celebrazione della Liturgia delle ore affermano che la Liturgia delle ore «estende alle diverse ore del giorno le prerogative del mistero eucaristico “centro e culmine della vita della Chiesa”» (PNLO 12).

Se, in questo tempo, non possiamo celebrare insieme l’eucaristia, questa affermazione acquista un valore ancora più grande e ci dovrebbe far interrogare. Inoltre, sempre i Principi e norme per la celebrazione della Liturgia delle ore affermano che «la celebrazione dell’eucaristia viene ottimamente preparata dalla Liturgia delle ore» (PNLO 12).


Perché allora non vedere in questo tempo di necessaria e forzata astensione dalla celebrazione comunitaria dell’eucaristia un momento in cui la Liturgia delle ore acquista in pieno questa funzione di “preparazione” e di “tensione” alla celebrazione eucaristica, in attesa di poterla nuovamente celebrare insieme?

Per tutti, non solo per alcuni
La Liturgia delle ore, purtroppo, è ancora troppo intesa come l’“obbligo” dei preti (dei chierici) e dei religiosi, una preghiera riservata cioè ad alcuni nella Chiesa. Il Vaticano II e la riforma liturgica hanno invece voluto recuperare la Liturgia delle ore come celebrazione della Chiesa, che tutti i cristiani possono celebrare.

Purtroppo, in questi anni non si è fatto abbastanza perché nelle comunità cristiane si comprendesse il valore della Liturgia delle ore e la si celebrasse in modo comunitario, assegnandole il valore che ha, a volte riducendola alla versione un po’ più ricercata delle “preghierine” del mattino e della sera (basta vedere il titolo di alcuni sussidi). Ma la Liturgia delle ore non è l’equivalente della preghiera del mattino e della sera, è molto di più, è celebrazione della Chiesa, del mistero pasquale di Cristo nel ritmo del tempo.

Il linguaggio del tempo per «dire»/celebrare la Pasqua
Nella liturgia, il tempo è un linguaggio che diventa “sacramento” del mistero pasquale di Cristo. Noi conosciamo tre ritmi del tempo: quello annuale (l’anno liturgico), quello settimanale (la domenica), quello quotidiano (la liturgia delle ore).

Il ritmo del tempo basato sul giorno, che è «l’unità minima del tempo» naturale (cf. Rizzi, Il problema del senso), nella liturgia cristiana è costituito dalla Liturgia delle ore. Il modo proprio della Liturgia delle ore di celebrare il mistero di Cristo è differente sia da quello che caratterizza l’anno liturgico, sia dal ritmo ebdomadario. Se, infatti, l’anno liturgico si fonda principalmente sul variare delle stagioni che divengono “sacramento” del mistero di salvezza, la Liturgia delle ore ha come elemento di riferimento l’arco della giornata e, in modo particolare, il sorgere e il calare del sole. Proprio per la fondamentale importanza del riferimento alle ore del giorno, al sorgere e al calare della luce, il Vaticano II invita a rivedere la celebrazione della Liturgia delle ore in modo che «le diverse ore, per quanto è possibile, corrispondano al loro vero tempo» (SC 88).


A questo dato fondamentale, che riconosce al corso naturale del giorno e della notte un valore “sacramentale”, vanno ricondotti i principali elementi che formano la celebrazione della Liturgia delle ore. Lodi e vespri, ad esempio, hanno evidentemente il loro riferimento fondamentale al sorgere e al calare della luce e quindi alla risurrezione e alla passione, alla creazione e alla fine/compimento della storia. Proprio per questo loro chiaro riferimento ad una ben precisa ora del giorno lodi e vespri, che sono «il duplice cardine dell’ufficio quotidiano, devono essere ritenute le ore principali e come tali celebrate» (SC 89).

Le ore minori di terza, sesta e nona hanno, proprio per la loro collocazione temporale nell’arco della giornata, un esplicito riferimento a eventi della passione di Cristo che troviamo nei racconti evangelici e ad altri eventi.

La Settimana Santa che ci sta davanti
Perché non pensare alla Settimana Santa che ci sta davanti come ad un’occasione per riscoprire la Liturgia delle ore? Chi non è già abituato a celebrarla, potrebbe cominciare, magari proprio in questa Settimana Santa – e in particolare nel Triduo pasquale – così “strana” a celebrarla o personalmente, o, ancor meglio, in famiglia.

Si potrebbero celebrare in famiglia soprattutto lodi, vespri e, magari, anche compieta, in particolare nei giorni del Triduo. Magari alle lodi, si potrebbe sostituire alla lettura breve il Vangelo del giorno.

Il Venerdì Santo, si potrebbe celebrare l’Ufficio delle Letture alle 15.00 del pomeriggio, leggendo, dopo le letture, la Passione del Signore, secondo Giovanni.

Nella notte del Sabato Santo, quando si celebra la Veglia pasquale, si potrebbe celebrare insieme l’Ufficio delle Letture del giorno di Pasqua, concludendolo con la lettura del Vangelo della risurrezione del Signore (cf. brano evangelico della Veglia pasquale o del giorno di Pasqua).

Strumenti
Per chi non avesse a portata di mano il libro della Liturgia delle ore, i mezzi informatici ci aiutano molto oggi. Ci sono comodissime App da installare sul telefonino che mettono a diposizione la Liturgia delle ore completa di ogni giorno:

La CEI ne propone una (con anche la proposta del canto).
Molto comoda è anche l’App e-prex.
Per chi non avesse la possibilità di scaricare l’App sul telefonino, si può ricorrere ad un sito.

Viviamo questo tempo anche come opportunità
È un tempo difficile, doloroso. Un tempo in cui emergono anche le nostre povertà nell’ambito di fede ed ecclesiale. Sfruttiamolo per “crescere” e per cercare di vivere bene quegli strumenti che abbiamo a disposizione, senza perdere tempo a lamentarci di quelli che non abbiamo o non possiamo vivere. Anche questo è uno “stile cristiano” con cui vivere questi giorni difficili.

Forse allora scopriremo in modo nuovo tutta la ricchezza di fede e di preghiera che il Vaticano II ha “preparato” per la nostra vita personale e comunitaria. È come una tavola imbandita della quale forse non abbiamo approfittato fino in fondo, ma che forse è il momento di riscoprire.

Matteo Ferrari è monaco di Camaldoli.