sabato 28 novembre 2020

Guardare nella verità fa scorgere profeti, di Antonella Lumini

 27 novembre 2020


Guardare la realtà in faccia e vederne le derive pericolose, non vuol dire essere catastrofisti, ma sentirsi parte attiva della grandiosa opera spirituale in atto. Con Cristo iniziano i tempi escatologici, si accelera il corso della storia. L’era dello Spirito allude proprio allo smantellamento di ogni oscurità che impedisce l’emersione della verità. E la verità per essere accolta chiede misericordia, espansione dell’amore e lo Spirito è amore. Questo processo va di pari passo con l’espandersi delle forze che si oppongono alla verità, le forze dell’Anticristo. Tutte le resistenze a Cristo e alla sua opera di luce che costituiscono lo spirito del mondo e sono radicate in ognuno di noi, combattendo Cristo, divengono sempre più intelligenti fino ad illudersi di avere il dominio della realtà. Ci sono però limiti che non possono essere oltrepassati. Quando si attentano entra in atto un dispositivo di salvaguardia capace di frenare tendenze irreversibili. Eventi come le epidemie possono leggersi spiritualmente come risposte salvifiche a pericolosi processi autodistruttivi, hanno funzione catartica tesa a salvaguardare l’umanità da se stessa. Non vanno certo letti come punizioni divine, sarebbe ancora un modo infantile di percepire il rapporto a Dio, bensì come avvenimenti che scuotono e spingono ad assumere la responsabilità delle azioni e del peso che grava sulla storia. Quando il senso di autosufficienza fa dilagare egoismo, sopraffazione, ingiustizia, violenza, il pericolo di annientamento è grande. Fatta questa premessa, nella pandemia in corso non possiamo non vedere un segno che invita al cambiamento. Il malessere diffuso, suscitando paura, rabbia, rischia di degenerare in lotta di tutti contro tutti. I nemici non sono i governanti che chiudono, i medici che allertano, il nemico è il dilagare di questo virus invisibile che però forse vuole dirci qualcosa. Imponendo nuove limitazioni, isolando fra loro le persone, frenando il ritmo, offre le condizioni propizie per pause di silenzio, per guardare dentro se stessi, fa tracimare il disagio profondo che abita l’anima umana.


Nessuno, a parte Papa Francesco ha il coraggio di dire che è venuto il momento di rivedere uno stile di vita, certi usi e costumi che, non solo, vanno limitati data la situazione, ma proprio ripensati, messi in discussione rimodulando insieme le attività economiche. Questo virus forse vuole dirci che il nostro modello di società è da ripensare. Che l’eccessivo consumismo, la sregolatezza nei ritmi, lo sradicamento dalla natura, hanno raggiunto il culmine. E qui sorge il vero problema. Quanto siamo disposti a metterci in discussione, ad accettare consapevolmente certe rinunce?


Prevale la tendenza verso eccessi sfrenati mossi da un ego inappagato e rivelatore di grande sofferenza interiore. L’incubo che stiamo vivendo sta mettendo a nudo un processo autodistruttivo di cui siamo ancora troppo poco consapevoli. Invitare al cambiamento sarebbe impopolare per le forze politiche, solo il risveglio delle coscienze può maturare quanto è ancora in gestazione. Guardare nella verità fa sorgere profeti: «Ascoltino o non ascoltino (...) sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro » (Ez 2, 4-5). Il profeta mantiene viva la connessione con l’ordine divino, vede nella verità, parla il Verbo, l’atto creativo. Ascolta e lascia che la parola divenga in lui azione creatrice. C’è un ordine perfetto che governa gli universi, pervade la nostra vita, una geometria archetipica che garantisce il riprodursi della misura perfetta che genera amore. Ogni creatura vi è connaturata, ma nell’umanità tale vincolo di appartenenza è messo in discussione dalla volontà individuale e collettiva che può contraddirlo e lo può fare proprio in quanto l’essere umano è chiamato a uscire dall’innocenza per intraprendere un cammino di consapevolezza. Ci sono crisi, come quella che stiamo vivendo, che favoriscono questa messa a nudo della verità, rimandano a scenari apocalittici, a quello svelamento catartico che purifica la storia. Normalmente siamo come assuefatti a una falsa coscienza che ci permette di restare nell’inganno. C’è una verità celata che rimane nascosta grazie alla tenuta di quel meccanismo di rimozione funzionale alla salvaguardia dello status quo. In passaggi come questo, in cui c’è meno difesa, lo stato di malessere interiore emerge. Aumentano depressioni, ansia, panico collettivo, insofferenza. Ma qual è la verità celata che la falsa coscienza tiene nell’oscurità? È il tradimento verso la vita e il suo ordine perfetto che è la memoria di Dio incisa a fuoco nell’intimo. Questa verità procura un dolore insopportabile che per essere vissuto richiede di incontrare la misericordia divina, di aprirsi ad un amore che non giudica, che ama senza riserve. Gustare di questo amore salvifico diviene il cardine che sostiene e permette di traghettare il tempo della prova. «Per il dilagare dell’iniquità si raffredderà l’amore di molti» (Mt 24, 12). Come le vestali custodivano il sacro fuoco, urge divenire custodi della fiamma dello Spirito nel cuore. L’iniquità del nostro tempo è il senso di autosufficienza, il delirio di onnipotenza che spegne nell’anima la memoria dell’amore, la fiamma dello Spirito e conduce su baratri di un’impotenza senza via d’uscita. Onnipotenza e impotenza costituiscono le polarità del gioco perverso che uccide in noi l’amore, ci sono però limiti che non possono essere oltrepassati. Le forze creatrici entrano in campo e frenano con rigore assoluto. L’ira divina è questo rigore posto a salvaguardia di un ordine che la volontà umana non può mettere a rischio. Quando ci prova si autodistrugge perché sbatte contro mura impenetrabili che respingono indietro. Il delirio di onnipotenza si basa su un inganno di prospettiva, la prospettiva del serpente antico che diviene il dragone dell’Apocalisse: trasformare l’io in Dio. La chiave che dà la svolta è invece l’io che rinnega se stesso. L’inganno che dà forza all’io che si fa Dio si dissolve attraversando quello smarrimento che chiede la resa. «Vi sarà allora una tribolazione grande. Se quei giorni non fossero abbreviati nessuno si salverebbe, ma grazie agli eletti, quei giorni saranno abbreviati» (Mt 24, 21-22). Eletti, cioè amati, sono coloro che rispondono all’amore lasciandosi amare. Divenendo capaci di amore, divengono strumenti del processo che purifica la storia. Non possiamo continuare a nasconderci quando sofferenza e morte si fanno così vicine. Possiamo subire la verità, oppure accoglierla come profeti, accettando di lasciare operare il Verbo in noi, incarnandolo, divenendo strumenti della sua opera. L’azione creatrice scaturisce dalla contemplazione, è conforme alla misura dell’amore impressa a fuoco come sigillo di appartenenza. I tempi urgono: «Quando vedrete tutte queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte» (Mt, 24, 33). Egli è sempre vicino, siamo noi ad essere lontani perché distratti, accecati, ma nei tempi catartici, in cui la verità si rivela, la memoria si risveglia, la presenza si fa sentire.


di Antonella Lumini

lunedì 9 novembre 2020

Vita Pastorale - Dove va la chiesa -di Enzo Bianchi

Nelle nostre ultime riflessioni mensili su queste colonne abbiamo meditato sulla crisi che il cristianesimo attraversa in Occidente, abbiamo rilevato con grande preoccupazione il venir meno della forza propulsiva del messaggio cristiano e abbiamo delineato l'esclusione sempre più attestata della presenza cristiana nella nostra società dell'indifferenza. 


Accanto a queste letture ansiose della "crisi" vi è però la ricerca del "cosa fare" e la sollecitudine per il Vangelo da parte di quanti ancora aderiscono a esso come al fondamento del loro vivere e del loro operare. Occorre riconoscerlo con onestà: abbiamo alle spalle decenni che non sono affatto un deserto. Dal Concilio in poi, infatti, le Chiese hanno faticato, lavorato per l'evangelizzazione e lo sviluppo adulto della fede cristiana; bisogna ammettere che, pur in mezzo a contraddizioni, ritardi, a volte vere e proprie regressioni, non si è restati inoperosi né tanto meno ci si è comportati da nemici del Vangelo. 


Tuttavia i frutti sono pochi, dobbiamo constatare una sterilità della vita ecclesiale che ci ha portati a una situazione ormai di diaspora, più che di minoranza. Le primavere che abbiamo sperato e visto arrivare sono state presto arrestate da gelate repentine e oggi nella Chiesa si respira un clima spesso stanco, senza dinamica e a volte avvelenato da contese, divisioni, esclusioni, calunnie e guerre fratricide. Ritorna sempre d'attualità l'invocazione che la Bibbia ci fa elevare al Signore: «Convertici e noi ci convertiremo!», così come risuona l'interrogativo: che fare? All'ordine del giorno vi sono molti temi che richiedono urgenti soluzioni perché vi sia un futuro per la Chiesa: la sinodalità, la presenza della donna nelle Chiese, il ministero ordinato e altri ministeri, il loro rapporto con il sacerdozio del popolo di Dio, la liturgia e la sua ritualità... Tutti temi strettamente connessi tra loro, che non possono trovare una soluzione senza una riforma spirituale e della forma vitae ecclesiale. 


Vorrei dunque mettere in rilievo semplicemente tre istanze preliminari affinché si possano poi percorrere strade e itinerari di riforma. Vorrei cioè rispondere alla domanda: che fare?, formulata oggi da una semplice comunità, da un gruppo ecclesiale, da una parrocchia, cercando in tal modo di immaginare la Chiesa. 


Potrà sembrare scontato, ma la prima istanza è quella di essere una Chiesa dell'ascolto. Non si dimentichi che il momento originario e generativo della comunità cristiana è, per l'appunto, l'ascolto: ascolto della parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture e proclamata nella potenza dello Spirito Santo; ascolto di ciò che lo Spirito dice alle Chiese qui e ora; ascolto reciproco tra fratelli e sorelle che formano una medesima assemblea chiamata a diventare un solo corpo, il corpo di Cristo. L'ascolto è decisivo, ma in realtà oggi è ciò che più manca nella vita del mondo e nella stessa vita della Chiesa. Solo l'ascolto può restituire centralità ed egemonia al Vangelo nella vita dei credenti e delle comunità cristiane: è così che il Vangelo diventa la notizia buona e bella capace di far ardere il cuore, intrigare, chiamare, destare fede-fiducia in chi lo ascolta. Solo una Chiesa dell'ascolto riceve la linfa vitale dal suo Signore e vive della comunione con lui. Ma l'ascolto della parola di Dio spinge e abilita necessariamente all'ascolto degli altri, fratelli e sorelle, che sono la Chiesa: ascolto reciproco, in cui ciascuno ha qualcosa da imparare, dal semplice battezzato, al vescovo, al papa. Ascolto dunque anche del mondo, dell'umanità di cui facciamo parte e in mezzo alla quale siamo posti. Se vi è questo ascolto, allora è possibile percorrere le vie della fraternità e della sororità senza confini e con orizzonti universali, imparando la grammatica del camminare insieme, della sinodalità. 


E attenzione: parlare di "sinodalità" nella vita ecclesiale non significa innanzitutto rimandare a un'istituzione, ma a un modo peculiare di vivere da parte della Chiesa. Solo una Chiesa che sa ascoltare saprà essere sinodale, altrimenti sarà unicamente caratterizzata da qualche organo burocratico in più. La seconda istanza riguarda una qualità ecclesiale che non emerge a sufficienza, neanche in una Chiesa come quella odierna che spende tante energie e dà grande testimonianza nell'accoglienza degli stranieri. È l'istanza di una Chiesa ospitale non solo nel mettere in atto azioni di carità ma nella pratica dell'accoglienza quotidiana nella vita ecclesiale e nella liturgia. 


Al riguardo occorre una conversione: la Chiesa non deve solo dare ospitalità ma cercare e chiedere ospitalità, offrendo la sua presenza gratuita come un dono in mezzo agli uomini e alle donne non cristiani, in mezzo a questo mondo indifferente. Le nostre comunità, peraltro attive nella carità, restano ancora troppo delimitate e chiuse, comunità di cattolici praticanti con tentazioni esclusiviste. 


Occorre invece aprire i nostri spazi, allargare le nostre tende e invitare tutti a venire, per poterci dire fratelli e sorelle insieme, per offrirci reciprocamente la presenza senza strategie di conversione e tantomeno di crescita della comunità cristiana: ecco dunque una "Chiesa che si fa conversazione" (Paolo VI), che cammina con gli umani, che è sollecita alla vita bella e buona degli uomini e delle donne, per custodire insieme questa nostra terra. Che meraviglia, che stupore e che fraternità si riescono a vivere in quelle parrocchie nelle quali, dopo la liturgia eucaristica, sul sagrato della chiesa o in qualche sala attigua ci si incontra, ci si saluta, ci si guarda negli occhi. Sì, la chiesa è chiamata a diventare comunità ospitale in un mondo sempre meno ospitale. Proprio ciò che non è più praticato dagli altri, ed è però umanissimo, deve essere recuperato dai cristiani. 


Infine la terza istanza — e non si pensi che lo sia in ordine di importanza — è la dimensione ecumenica. Con l'inizio del ministero di Francesco abbiamo registrato con gioia una serie di gesti ecumenici e di parole profetiche che parevano una promessa di passi verso l'unità. Ma ora tutto è fermo e l'ecumenismo sembra non attrarre più l'attenzione delle Chiese, che accettano supinamente quest'ora di gravi tensioni tra di loro e di paralisi del dialogo. Va però detto con chiarezza: senza l'unità dei credenti in Cristo non solo permane lo scandalo della divisione, ma le logiche della tribù e del confessionalismo impediscono lo scambio e l'aiuto reciproco in vista di una riforma, inibiscono il confronto che vive della diversità riconosciuta e riconciliata. 


L'unità non la troveremo al termine di dialoghi dottrinali lenti e sfiancanti, ma grazie a incontri e ad azioni intraprese insieme. Il divieto di ospitalità eucaristica, finora sempre confermato, aumenta la diffidenza degli uni verso gli altri, e così ogni Chiesa fa il suo cammino come se le altre non esistessero. Ma questo è disastroso, oltre che antievangelico! Siamo in diaspora, siamo minoranza all'interno di una marea di indifferenti, eppure il Vangelo non ha perso la sua potenza: siamo noi che, seppellendolo di cenere, gli impediamo di ardere come fuoco portato da Gesù sulla terra.