giovedì 27 dicembre 2018

Natale: a che punto è il nostro cammino di umanità?”

Agensir 24 dicembre 2018
M. Michela Nicolais

Un Natale "molto più vero di tanti altri". Quella che fratel Michael Davide Semeraro offre al Sir è una lettura controcorrente della Solennità che ci apprestiamo a vivere, in un periodo che il Censis ha definito "incattivito" per l'Italia.
"Il Natale ci spinge a chiederci a che punto è il nostro cammino di umanità", sostiene il monaco, che spiega tre livelli della "compassione", esorta a fare "uno screening delle nostre paure animali" e chiede di "essere intelligenza, in un momento in cui le intelligenze vengono offuscate"


“La situazione attuale è grave, ma non è disperata: la luce del Natale viene proprio a rischiarare le tenebre”. Ne è convinto fratel Michael Davide Semeraro, monaco benedettino, che partendo dagli ultimi dati Censis invita a “recuperare il carattere di avvenimento del Natale, per capire come anche una situazione oscura, buia, incattivita può diventare l’occasione per vivere un vero Natale, come credenti e come uomini”.

Da “rancorosi” a “incattiviti”: così il Censis fotografa gli italiani. Cosa può significare, in questo contesto, prepararsi a vivere il Natale?

Ritrovare il Natale evangelicamente autentico, non prima di tutto dal punto di vista morale e spirituale, ma direi storico. Se prendiamo in mano i Vangeli, soprattutto quello di Luca, ci accorgiamo che quando si racconta la nascita di Gesù si fa riferimento ad un contesto non molto diverso da quello che il Censis fotografa. Si mettono in scena, infatti, tutte le grandi potenze dell’epoca, e lo scenario è abbastanza inquietante. Tiberio, Augusto, Erode, coltivano ciascuno il loro piccolo impero, e i poveri sono costretti a lasciare la loro terra per andare a registrarsi. Gesù nasce a Betlemme e non c’è posto per lui. Letto così, il Natale di quest’anno è molto più vero di tanti altri natali. Per i credenti, può essere l’occasione di chiedersi quanto veramente crediamo nell’incarnazione del Verbo, che non è una chimera, un pensiero, un’idea, ma un fatto, un evento che è accaduto in un contesto straordinario. Il Verbo si fa carne e chiede ai pastori di fargli un po’ di posto.

Il canto degli angeli – “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” – è per tutti gli uomini e le donne un invito a far sì che questo Bambino da accogliere sproni ciascuno a dare il meglio di sé. Dobbiamo chiederci quanto siamo disposti ad avere un po’ più di compassione: il Natale ci spinge a chiederci a che punto è il nostro cammino di umanità.

Nel rapporto Censis emergono anche i “muri” che gli italiani tendono ad erigere verso chi è diverso da noi, a partire dai migranti. Il Papa, invece, non passa giorno in cui non richiami all’accoglienza.

Il Natale ci obbliga ad avere compassione persino di chi non ha compassione.

Di fatto, la sfida è non solo ad avere compassione di chi ha bisogno di compassione: è già molto, ma il livello di umanità rivelata da Gesù reclama di avere compassione anche di Erode, che per paura di perdere ciò che ha conquistato arriva fino ad uccidere e ad eliminare dei bambini. Avere compassione di chi non ha compassione esige, tuttavia, il non farsi contaminare dalla paura. Nel presepe ci sono i pastori ma anche i Magi: non sono poveri, ma uomini che pur essendo potenti e ricchi non si lasciano contaminare dalla paura dei potenti della terra e usano le loro possibilità per condividere. C’è, infine, un terzo livello di compassione, rappresentato da altre due figure del presepe: il bue e l’asinello, simboli di quell’umanità basica, quasi animale, che condividiamo con tutti gli altri esseri viventi.

Ci ricordano la necessità di fare lo screening delle nostre paure animali, per evitare che un giorno possano giocarci brutti scherzi.

La paura che genera tutte le altre paure è la paura di morire, e la nostra reazione è quella di sopravvivere a tutti i costi. L’ansia di sopravvivenza è l’anticamera di una vita inautentica, non compatibile con un buon livello di umanità. È importante, allora, fare questo screening sull’animalità, per capire quanto tendiamo verso il basso o quanto invece siamo consapevoli che 

vivere non è sopravvivere, ma condividere la vita.

L’Italia, in sintesi, è un Paese “in crisi di futuro”, dove l’incertezza economica, la precarietà, un panorama politico “urlato” e in deficit di ascolto alimentano tensioni e paure. Di quale antidoto c’è più bisogno?
Abbiamo un grande dovere di intelligenza. Nel raccontare il Natale, Luca ci parla dei pastori, Matteo dei Magi. Giovanni, invece, non ci racconta come nasce Gesù, ma scrive un prologo che è una riflessione teologica e metastorica, che è un appello all’intelligenza. Non si chiede, infatti, solo per chi, ma perché il Verbo si è fatto carne: per portarci la luce della grazia, che è l’intelligenza del reale illuminata da una ragione che guarda oltre la paura e i bisogni immediati. Che si fa scrupolo di 

essere intelligenza, in un momento in cui le intelligenze vengono offuscate: non si parla più, si grida.

In un Natale in cui c’è un disturbo di ascolto, l’intelligenza che ci viene richiesta esige il silenzio, la capacità di fare un minuto vero di silenzio interiore per chiederci dove stiamo andando e cosa vedo di fronte a me.

Quando non si è intelligenti, si vede solo il male, e “il male radica dove l’amore non basta”, come scrive Herman Hesse. L’intelligenza, invece, ci spinge a tirare fuori quel poco che abbiamo e a metterlo in comune, senza lasciare che altri pensino al nostro posto. Nel presepe abbiamo i pastori e i Magi, i sapienti che leggono nelle stelle e si mettono in cammino.

Senza intelligenza, le speranze non esistono, o si rivelano speranze che deludono.

Si è appena concluso il Sinodo dei giovani, al termine del quale Papa Francesco ha chiesto a tutta la Chiesa più capacità di ascolto. Sappiamo annunciare loro il messaggio di gioia e di liberazione del Natale?
Il grosso problema di noi adulti è che non guardiamo i giovani come realtà umana, ma ci proiettiamo nei giovani, e così rischiamo di rendere ancora più pesante il fardello della loro paura. Non riusciamo a credere in nuovi cammini. Invece di essere adulti che confidano nella verità dei giovani, proviamo invidia verso di loro e togliamo ai giovani le loro vere possibilità, il loro spazio vitale. Il Natale è anche fare spazio ai giovani, accettare che siano diversi da noi, credere nella loro speranza. Hanno bisogno di un’iniezione di fiducia.

Ora et labora.net: Il mistero del Natale

IL MISTERO DEL NATALE

Estratto da “Libertà dello spirito” di Giovanni Vannucci O.S.M. – Quaderni di ricerca 5 – 1967
Centro Studi Ecumenici Giovanni XXIII, priorato di sant’Egidio - Sotto il Monte - Bergamo


Nella contemplazione del mistero natalizio, come del resto in quella di tutti i misteri della fede, il nostro spirito deve essere ansioso non di raggiungere dei commossi stati d’animo, ma quelle conoscenze offerte a noi per liberare l’atto religioso da ogni accondiscendenza pietistica e devozionale e giungere al compimento, con dignità, del nostro culto liturgico e sacrificale. Il quale non sarà più un’azione in mezzo ad altre attività, ma sarà l’azione che ricompone ogni espressione di vita nella realtà del sacro.
Basta, per convincerci che nella liturgia ci vengono offerte le conoscenze indispensabili perché i nostri giorni terreni abbiano un senso, riflettere che il mistero dell'incarnazione compie la discesa nella carne umana della Parola coeterna e coessenziale di Dio. Se la Parola ha assunto la forma umana, in questa sarà espressa la vastità e la profondità della sapienza di Dio, perché noi uomini legati ai sensi e alla carne apprendiamo le conoscenze che importano veramente. Quindi nei mistero dei figlio di Dio incarnato non solo appare la bontà dell’amore misericordioso di Dio, ma ci vengono date, con realtà di fatti, quelle conoscenze che aiuteranno noi ad avere un comportamento corrispondente all’immensità del dono offerto. Da ciò deriva quell’atteggiamento che abbiamo suggerito, ripetutamente, a chi, in maniera fertile, desidera partecipare allo svolgersi del mistero liturgico nel corso dell’anno sacro, di parteciparvi con attenzione tale che il nostro essere sia occupato dalle conoscenze che il rito, con la sua complessa capacità evocativa, comunica.

Il silenzio della notte santa

La prima messa della festa del Natale è celebrata nella notte profonda: una delle notti che seguono il solstizio invernale che segna la ripresa del cammino dell’astro della luce dopo l’esperienza, fatta dalle creature del nostro emisfero, di notti lunghissime. Nel profondo del silenzio notturno le due nature, l’umana e la divina, l’essere e il non-essere, il Tutto, la Parola di Dio e il nulla, la realtà umana, sono unite in un meraviglioso scambio di vita.
Il silenzio fecondo raggiunto dalla creatura che fa tacere in se stessa tutte le voci dell’esteriorità: sensi, immaginazione, sentimenti, pensieri, rende possibile la nascita del figlio di Dio nell’anima. Il mistero dell’Incarnazione si è compiuto a Betlem, ma non comprenderemmo nulla di Dio se lo limitassimo nel tempo e nello spazio. Osserva come tutto è concorde con divina esattezza: la parola di Dio discende nel seno della Vergine che non conosce uomo, nasce fuori della città dell’uomo, in una grotta, non costruita da mano creata, nell’ora in cui regna il silenzio perfetto per il tacere di voci terrene e per l’assenza di luci sensibili.
Nel tuo cammino religioso il giorno che sarai nel silenzio totale, per la tacitazione delle voci che salgono dai sensi, dai desideri, dai sentimenti ed avrai raggiunto l’oscurità feconda di chi non crede più alle proprie vedute umane e ti sarai portato fuori della città costruita dagli uomini, spinto dalla constatazione dell’inutile operare umano, sarai, come: la grotta di Betlem, nella condizione di accogliere la Parola di Dio che discende da sempre. Quel giorno, in te e per te sarà nato il Salvatore.
Vedi che nella nascita del figlio di Dio ti è indicata la via verso la luce: il silenzio fertile delle creature che aspettano l’irrompere gioioso ed illuminatore della parola di Dio.
Osserva le indicazioni che ti condurranno alla perfetta conoscenza della via seguita dalla Parola di Dio nella sua manifestazione nella notte santa.
Si incarna e nasce da una Vergine che non conosce uomo: « sine semine largitus est nobis suam deitatem ». Nasce nella profonda oscurità di una delle più lunghe notti dell’anno; nel silenzio assoluto; senza conforto umano; in una grotta, opera della natura; lontano dalla città. Nel tuo avvicinamento al mistero dell’Incarnazione devi tener conto di ognuna di queste circostanze, additate dalla liturgia, non per fantasticarci sopra o perderti in dannosi sentimentalismi, ma con quell’attenzione che metti quando, in un paese sconosciuto, consulti la carta per orientarti. Più seguirai queste indicazioni e più ti renderai persuaso che queste sono le uniche concesse, a te e a tutti, per ritrovare la terra riconsacrata dalla discesa del Figlio di Dio. La tua prima cura sia di ritrovare in te la terra verginale, liberandoti da tutte le soprastrutture che vengono dagli uomini; questo lo otterrai quando sentirai te stesso solo come un anelito che ascende verso l’alto, implorando l’unica luce che lo placa. In tale felice condizione sarai quando in te taceranno le Voci della carne e del sangue, della volontà e della ragione; quando non crederai agli ideali puramente umani di conquista e di realizzazione, e capirai che per l’ineffabile incontro è sufficiente un angolo qualunque della terra dove tu ti senta pronto all’offerta fiduciosa alla Parola, come la materia primordiale, nel silenzio e nella tenebra feconda, era in attesa del comando creatore.
Lo spogliamento totale e la libertà luminosa
Non ci è dato di immaginare un distacco maggiore dalle speranze avidità umane di possesso, di plauso, di conforto, di quello che scopriamo nella nuditàdella grotta. Il figlio di Dio nasce libero da ogni schiavitù derivante da privilegi terreni, e questa sua condizione lo rende il dono di comunicazione offerto daDio a tutti gli esseri, qualunque condizione appartengano. La nascita da vergine, senza concorso umano, vuol dire anche questo: tutto è incontaminato inCristo. Se fosse nato nella casa di un ricco non sarebbe stato in comunione con chi non ha nulla; se avesse visto la luce nella casupola del povero, il ricco l’avrebbe guardato con diffidenza. La grotta, costruita dalla natura, è di tutti e di nessuno, così il fanciullo che vi nasce è offerto a tutti gli esseri, non è proprietà esclusiva di alcuno. Accogli pensoso le indicazioni di questa nascita: il figlio di Dio non ha privilegi di sorta, è talmente spoglio di qualità vistose che suscitano il plauso umano che nasce ignorato da tutti. Il sacerdozio edotto sul tempo e sul luogo della sua nascita, al momento che questa si compie, l’ignora; il potere civile non ne sa niente; gli abitanti di Betlem chiudono la porta delle loro case alla Madre che sta per partorire. II figlio di Dio ha una cosa che né la carne né ilsangue, né il potere sacro, né quello civile, né il possesso di un nome famoso di beni terreni potevano dargli: Egli è la Parola di Dio incarnata. Approfondisci ancora: quella notte mille sogni di conquista agitavano la capitale dell’impero; sottilissime questioni di filosofia tenevano sveglie le menti dei pensatori ellenici; discussioni a non finire si facevano a Gerusalemme sul regno di Dio e sul suo messia. Ignorato da tutti nasce il figlio di Dio, e, da quel punto insignificante di spazio e di tempo, l’umanità si dilata verso più vasti orizzonti di coscienza.
Dunque il Figlio di Dio non ha nulla ma è il figlio di Dio.
Ti confesso che tale verità mi fa tremar tutto, vorrei gridare a tutti i miei frati, a tutti i credenti nel mistero dell’Incarnazione: a nulla serve l’avere, il figlio di Dio ci dice che dobbiamo essere, perché la gioia e la pace trovino spazio di danza nel cuore degli uomini, nella terra riconciliata.
Essere ed avere sono i due poli di tutta la storia drammatica dell’umanità e della Chiesa. L’uomo proteso verso l’avere, diventando schiavo delle potenze tenebrose esteriori, profana se stesso e il creato. L’uomo che nel silenzio ricompone in sé l’immagine divina diventa un centro irradiarne di vita e di luce. Ecco il miracolo della notte santa: il fanciullo è il figlio dell’Altissimo e il silenzio è rotto dal canto degli angeli, la tenebra dissipata da luce del cielo, la solitudine abolita dai cuori dei pastori che vengono a portare i loro doni. Tutto è armoniosamente messo in movimento dal fanciullo che è il figlio dell’Altissimo. I banditori, i trafficanti, gli agitatori verranno dopo, ma quando vorremo ricontemplare il fascinoso incanto della notte santa dovremo sempre andare oltre la loro urlante turma;
Non lasciare di pensare su queste indicazioni, finché non ti sarai nutrito del loro midollo.
Se il figlio di Dio avesse avuto dei privilegi, come l’avrebbe potuto accogliere chi ne è privo? Così se avesse avuto possessi terreni, schiere di servi al suo servizio, un nome potente e famoso, non avrebbe avuto la libertà luminosa del figlio di Dio, non sarebbe stato un dono di grazia e di vita per ogni essere.

La grotta
La nascita del figlio di Dio in un’incavatura della superficie terrestre è, come del resto ogni avvenimento della vita del Signore, simbolo di ben più profonda realtà. La Parola incarnata fu reclinata nell’interiorità della terra, e viene nascere nel profondo di ogni essere umano che appare all’esistenza. Questo ci viene assicurato dal quarto evangelista quando afferma che la Parola incarnata è la luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo (Giovanni 1). Dunque nel nostro profondo non ci sono soltanto istinti selvaggi di libidine e di distruzione, complessi incestuosi e forze tenebrose, ma c’è il Signore Gesù che con la sua pacifica luce placa e indirizza ogni energia al su vero fine.
La redenzione della terra comincia da questa certezza: nel profondo di ogni essere, anche nel più abbietto, c’è Cristo. In me c’è la Parola incarnata, come nell’amico più sincero, come nell’avversario più crudo. Da questa constatazione sorge l’umanità nuova, sorretta dalla rispettosa venerazione di ogni essere, dalla speranza incrollabile che un giorno il cuore di ogni uomo sarà avvolto dal canto degli Angeli e inondato da una luce che non è di questo mondo. E l’incanto della notte santa si ripeterà senza fine: «Io Giuseppe camminavo e non camminavo. Guardai su nell’aria e vidi l’aria colpita da stupore, e guardai alla volta del cielo e la vidi ferma e gli uccelli del cielo immobili. Guardai la terra e vidi un vassoio giacente e degli operai seduti intorno a mangiare e le loro mani erano nel vassoio, e quelli che stavano masticando non masticavano, quelli che prendevano i cibo non lo sollevavano dal vassoio, e quelli che lo stavano portando alla bocca non ce lo portavano, e i visi di ognuno erano rivolti verso l’alto. Ed ecco delle pecore erano spinte innanzi e non avanzavano, il pastore levò la mano per percuoterle e la sua mano rimase per aria. Guardai la corrente del fiume, vidi le bocche dei capretti poggiate sull’acqua e non bevevano. Poi, dopo un istante, le cose furono riprese nel loro corso » (Vangelo di Giacomo).
L’imposizione del nome di Gesù
Usciamo dalla luce della notte santa per riprendere il corso normale della nostra esistenza. La liturgia ci accompagna alla soglia della Chiesa e, nella festa dell’imposizione del nome di Gesù al Salvatore ci dà un suggerimento concreto perché il gaudio natalizio fiorisca pei la salvezza di tutti. Se il Signore Gesù è la presenza santa e luminosa di ogni essere che viene al mondo, il servizio cristiano sarà di comportarsi coerentemente a questa certezza di fede.
Dire il nome di Gesù su ogni creatura, amica o contraria, benefica o malefica, simpatica o no. Dirlo con atteggiamento di umile rispetto, di amore che tutto crede, di venerazione per il mistero racchiuso nel giro di ogni esistenza. La pace della notte santa in tal maniera passa da cuore a cuore, di generazione in generazione, senza conoscere fine. E si traduce in umanissime forme di vita — «è apparsa la benignità e l’umanità del Signore Gesù» — che implicano il rispetto, l’amore fermo e incrollabile, la speranza indefettibile di vedere ogni porzione di terra ribenedetta e riconsacrata dal nome santo di Gesù.
La sorgente del potere e la legge
II giorno dell’andata dei magi a Betlem per compiere atto di venerazione al figlio di Dio, è designato dalla liturgia come il giorno dell’Epifania del Signore, cioè della manifestazione del potere glorioso di Gesù. I tre doni offerti indicano chi è il piccolo venerato, l’oro è l’offerta in onore dei re, l’incenso il dono al sacerdote, la mirra, sostanza fragrante per l’imbalsamazione del corpo della vittima. Tenendo presenti questi tre simboli, comprendiamo la natura di colui il cui mistero in questo giorno ci viene svelato; è il re e la sorgente di ogni potere terreno esercitato secondo il pensiero di Dio; è il sacerdote e la scaturigine del sacerdozio conforme al cuore di Dio; è colui che compie in se stesso l’unico gesto che rende possibile, nella dura era attuale, l’accesso alla verità; il sacrificio di se stessi. Il giorno della nascita il figlio di Dio è apparso in una porzione di terra non profanata da mano d’uomo, lo squallore è stata la condizione necessaria perché potesse comunicare con tutte le creature, in perfetta libertà e immunità da privilegi. Per questo è il re di tutti e la scaturigine e la norma di ogni vero potere sulla terra. Per questo, stando alla rivelazione di Betlem, il potere regale non è la meta di sogni ambiziosi di potenza, non il risultato di abili maneggi delle masse e delle loro oscure bramosie, ma servizio umile e incondizionato, silenzioso e fattivo, dell’uomo che, attraverso la mano sicura del potere terreno, deve raggiungere una più robusta maturità di coscienza, una percezione più chiara di ciò che è vero e di ciò che è transitorio. Nel fanciullo venerato dai magi è già in atto l’insegnamento che un giorno definirà la vera statura del capo: « Il buon pastore dà la vita per il suo gregge, il prezzolato l’abbandona nel momento del pericolo » (Giovanni 10, 11).
Il fanciullo venerato dai magi è anche sacerdote, l’origine e il compimento del vero sacerdozio, la cui missione è di ricongiungere la terra e il cielo attraverso le vie di pace tracciate da Cristo.
 La mancanza di ogni privilegio, la nudità più semplice, la libertà da qualunque potere terreno, anche il più tenue che poteva essere rappresentato dall’aprirsi di una casa per accogliere la Vergine partoriente, sono le ali che fanno volare in alto, nella sua opera mediatrice, il sacerdozio vero.
Anche qui l’essere prevale sull’avereE da Cristo nasce non una casta sacerdotale, avida di potere e di privilegi terrenima un ordine nuovo di creature che in lui ritrovano l’armonia perduta dell’amore e del servizio silenzioso, e fedele, perché ogni uomo dall’umile e spoglia presenza del sacerdote cristiano sia guidato a vedere in se stesso, senza violenza e senza imposizioni, la luce del Signore.
Il fanciullo è anche la vittima più augusta, immolata nell’ora nella quale l’era, cui noi uomini attualmente apparteniamo, raggiungeva il suo punto centrale. La nostra è l’era della forza bruta e della violenza spietata, i suoi sentieri sono segnati dalle vittime che si sono offerte per aprire un varco alla speranza e alla verità nel cuore dell’uomo. L’unica via possibile perché possiamo ritrovare la connessione tra la terra e il cielo, il nostro io chiuso nelle valve dell’egoismo e l’io divino aperto nell’infinito cielo, è il sacrificio. Ed il sacrificio cruento è diadema del re vero, l’infula sacra del sacerdote vero. Questo intuirono i semplici e pensosi cuori dei saggi che dall’Oriente vennero a Betlem, per prestare omaggio a colui che compiva la loro conoscenza e la loro speranza ed era il fiore sbocciato sul terreno della insonne attesa religiosa dell’uomo.

domenica 23 dicembre 2018

L'OSSERVATORE ROMANO: Lasciando che tutto tremi

Il mistero dell’incarnazione e la «dismisura» del messaggio di Gesù


Non è un caso, se Giovanni il Battista accompagna i cristiani al Natale. Certo, storicamente la sua missione prese forma durante la vita adulta di Gesù, eppure l’Avvento ne sottolinea il carattere precursore tanto che la natività di Cristo sembra esaudire la sua attesa di un nuovo inizio. È come se il canto degli angeli nella notte santa rispondesse alla sua voce che grida nel deserto, o come se la via che egli chiese di appianare conducesse dritta a Betlemme. Il ritmo liturgico, che genera questi anacronismi, non abbandona i fedeli nella confusione. Al contrario, consente loro una lettura dei testi biblici e delle connessioni storiche che sprigiona significati contemporanei.

Il lettore attento ha chiara la percezione che ogni pagina evangelica — e in modo speciale quelle che raccontano le origini di Gesù — lasci trasparire tutto il mistero. Il Battista è allora “prima” di Cristo ben al di là della loro distanza anagrafica di soli sei mesi. Sarà Gesù stesso a sottolinearlo, arrivando a dichiarare: «Fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui» (Luca 7, 28). Questa misteriosa sentenza segue di poche righe un messaggio che il Messia invia al Battista in carcere. A fare da tramite, due discepoli incaricati di portare al Rabbì di Nazareth la perplessità di Giovanni: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (7, 21). Una buona domanda, in fondo, anche per il nostro Natale. A essa il Cristo continua a rispondere con la beatitudine forse meno recepita nel mondo cristiano, che in modo secco andrebbe tradotta: «Beato chi non si scandalizza di me» (7, 23). Sono parole che chiedono di misurarci con una realtà misteriosa: la venuta del Messia può scandalizzare. Letteralmente essere di ostacolo, costituire un inciampo, far cadere.

Il nesso narrativo che Luca istituisce tra questa scena e il racconto del Natale è ben riconoscibile: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito» (7, 22); «Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro» (2, 16 e seguenti); «I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro» (2, 19). È il rapporto tra ciò che si ascolta e ciò che si vede il punto: una sorpresa che rende inizialmente vacillante e non scontata la testimonianza, a motivo del suo contenuto paradossale, scandaloso. Ci sono buone ragioni per leggere in questa chiave non solo la Pasqua e il ministero pubblico di Cristo, ma la sua stessa nascita. Tra ciò che si è udito e ciò che si è visto c’è sì corrispondenza, ma in una sorta di disdetta del comune buon senso. Occorre riconoscere quanto sia il racconto di Luca sia quello di Matteo articolino in modo paradossale il venire al mondo del Salvatore. Il rapporto tra Giovanni Battista e Gesù ci invita allora ad accostare più radicalmente il Natale, avvertendo l’energia interna alla sua poesia.

Che esperienza abbiamo di un Gesù destabilizzante? Ecco il tema. Se religione è avere una risposta pronta per ogni situazione, vivere in un ordine certo, disciplinare i pensieri, le emozioni e le decisioni, che ne sappiamo di lui? Il nodo è imprescindibile: per evitarlo occorrerebbe abbandonare i vangeli, perché non ce n’è uno che lo nasconda.

La vicenda di Gesù è insieme calamitante e scostante, sin dal principio: «Segno di contraddizione, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Luca, 2, 34).

Ebbene, ma in che cosa il Messia ci è di inciampo? Nella crisi del Battista la risposta: Dio non corrisponde all’idea che ce ne siamo fatti. Occorre, dunque, che crolli la nostra religiosità: invece di colpire i peccatori Gesù colpisce il nostro dio. Ha pensieri che talvolta sembrano quelli dei non credenti, ha comportamenti che lo fanno somigliare a un peccatore, frequenta gente pessima e sembra non avere una linea sicura. Semina gioia e interrogativi. Ha qualcosa d’inquietante e di imprendibile.

Certo, ingenuamente potremmo pensare che Israele avesse tutte le informazioni per riconoscerlo. Invece no: avviene davanti a Gesù un tracollo, implode un ordine e solo così le Scritture iniziano a illuminarsi qua e là, perché emerga lentamente un nuovo disegno, una coerenza diversa. Da questo punto di vista, emblematico è il rapporto che la nascita di Gesù istituisce con altre pagine bibliche ambientate a Betlemme. Fra tutte, la principale riguarda l’unzione di Davide: in Samuele (1 Samuele 7) appare chiaramente lo scarto tra Dio e le rappresentazioni umane. Samuele va verso Betlemme obbedendo alla voce divina che lo sospinge fuori dall’ordine costituito, per una missione scandalosa e pericolosa: ungere un re, mentre ce n’è un altro in carica.

In filigrana il profilo di Giuseppe, investito di un compito altrettanto estraneo a ogni consuetudine e guidato verso Betlemme, città in cui ha da nascere un nuovo re. In entrambi i racconti l’immaginario umano è colpito nei suoi archetipi. Di fronte al maggiore dei figli di Iesse, Samuele riceve un’indicazione inequivocabile: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore».

Il Natale di Cristo porta dunque in piena luce una coerenza interna all’agire di Dio: Betlemme si conferma la città ai cui margini, tra pastori e greggi, il più piccolo, il dimenticato, lo scartato diviene pietra angolare. «Samuele chiese a Iesse: “Sono qui tutti i giovani?”. Rispose Iesse: “Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge”. (...) Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto. Disse il Signore: “Àlzati e ungilo: è lui!”».

Tutta la storia di Israele è questo: Dio che ci dona se stesso invece delle nostre rappresentazioni di lui. Un processo travagliato, costoso. Per evitarlo c’è chi ha pensato di eliminare il Messia. Lo avevano già fatto coi profeti. Anche noi possiamo chiudere i vangeli, o almeno disinnescarli e uscire da quest’alleanza troppo dinamica tra cielo e terra. Possiamo eliminare Cristo dal cristianesimo, rendere Gesù un nome vuoto: continuamente ripetuto, ma senza scandalo, senza brivido, senza crisi.

Il segno offerto ai pastori — «troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Luca, 2, 12) — è una messa in discussione profonda di grandezza e sicurezza.

I sogni di Giuseppe nel vangelo di Matteo, così come in Luca il silenzio di Maria, che rielabora gli avvenimenti collegandoli nel suo cuore, raffigurano allora un tipo nuovo di religiosità. Il rapporto con la parola di Dio non è qui di mera osservanza: l’ascolto, l’osservazione, i sogni rappresentano lo spazio di un’autentica libertà. Caratteristica di questo profilo spirituale è la piena responsabilità di interpretare. L’urto di Dio fa crollare l’ordine artificiale del già visto, del già detto, del “naturale”.

Di fronte al presepio diventano allora pronunciabili anche gli interrogativi troppo a lungo sepolti. Che prete sono, se provo quello che provo? Che cristiano devo considerarmi, con i dubbi che ho? Che figlio sono con le delusioni che procuro? Che madre o che padre, con gli errori che faccio? Che innamorato sono, che non so dare la felicità? Che anziano sono, se ho paura di morire? Si dà carne alla parola di Dio solo lasciandone decantare in se stessi la novità, che è fiducia e coinvolgimento. Ogni nascita, anche quella del Verbo in noi, presuppone infatti un travaglio. Ed è impatto con la fragilità e la piccolezza: in esse, non nella forza, Dio si fa trovare. Questo è lo scandalo. Ricapitolata in Gesù, l’intera vicenda biblica rivela in proposito un’interna coerenza, rimasta sottotraccia ogni qual volta abbia prevalso la religione come sistema e come potere.

È immaginabile si bisbigli nella Chiesa l’obiezione: a che pro? Seminare questi dubbi, sollevare certi coperchi, alimentare inquietudine e senso della complessità che cosa c’entra con il Natale? Non sono messaggi semplici e di gioia che dobbiamo diffondere? L’impressione è che non supereremo mai del tutto la sottile “sapienza” del Grande Inquisitore. Isaiah Berlin rilanciava già nel 1958 l’attualità della lezione di Dostoevskij: «Nulla gli uomini temono più della libertà di scelta, di essere lasciati soli a brancolare nel buio, e la Chiesa, togliendo loro il carico della responsabilità, ne fa degli schiavi consenzienti, grati e felici».

Le Scritture danno invece forma a una Chiesa che non toglie “il carico di responsabilità”, senza per questo lasciar “soli a brancolare nel buio”. Rispetto all’Inquisitore, mette in campo un funzionamento radicalmente diverso del dogma, perfettamente descritto dall’ortodosso Florenskij, secondo il quale «se il mondo conoscibile è spaccato, neanche noi possiamo eliminare le sue crepe e non dobbiamo nemmeno nasconderle. Se la ragione conoscitiva è frazionata, se non è monolitica, se contraddice se stessa non dobbiamo fingere che non lo sia. Lo sforzo impotente del raziocinio umano di armonizzare le contraddizioni, lo stanco tentativo di nascondersi, sono atteggiamenti ai quali ora è bene contrapporre la coraggiosa ammissione della contradditorietà». Ebbene, nel Natale, più che mai, la tensione interna alle narrazioni evangeliche documenta che «i misteri della religione (…) sono invece esperienze inesprimibili, indicibili, indescrivibili, che non possono rivestirsi di parole se non assumendo l’aspetto della contraddizione, vale a dire contemperando in sé allo stesso tempo il sì e il no. Sono tutti misteri superiori alla ragione».

Di qui il travaglio, la libertà, l’apertura degli umili ai paradossi di Dio. È la ragione per cui — continua Florenskij — «tutti i testi liturgici sono tumultuosamente fitti di contrapposizioni antinomiche e di affermazioni antinomiche spinte all’acme (...) Noi mettiamo il dogma come limite ideale dove si supera la contraddizione. Per il raziocinio il dogma è soltanto formale; solo per l’anima piena di grazia esso si riempie di succo vitale e diventa Verità che dimostra se stessa». Ci troveremo sulle labbra e assaporeremo, nel tempo natalizio, antichissime espressioni dello scandalo evangelico: «L’onnipotente Creatore assume natura di schiavo, un corpo di morte vestendo ci scioglie dai lacci di morte (…) Sul fieno di povera stalla è nato Gesù Salvatore: l’Eterno che sfama i viventi si nutre da un seno di donna». Ogni vita, in realtà, è da questo mistero autorizzata a sostenere le tensioni, a tenere insieme gli opposti, ad abitare le contraddizioni. Contro l’istinto a semplificare barando, a liquidare la complessità con l’ideologia, a rimuovere le parti di realtà che non rispondono all’ideale, «è nato per noi un Salvatore» (Luca, 2, 11)

Credo che ai giovani — come ai bambini si fa con le fiabe — vada offerto il mondo con le sue crepe, nell’inesprimibile esperienza di assaporarne la bontà. Il serpente di Genesi s’insinua in questo paradiso: induce a pensare che il limite sia una maledizione, che tanta fatica sia indegna di noi. La Chiesa deve dimostrarsi esperta di questa trappola e non proteggere dalla libertà: al contrario, sostenerla, promuoverla, indicarne il fascino. Operazione “pericolosissima”, perché il trattenere è più istintivo del lasciar andare: prevenire le cadute, denunciare le tentazioni, custodire un ordine più sociale che spirituale.

I vangeli scardinano questo modo di procedere. Di fronte al Bambino di Betlemme noi possiamo lasciare che tutto tremi: la mania di perfezione, le certezze, la religione. È stato così per Maria, per Giuseppe, per i pastori, per Zaccaria ed Elisabetta, per Simeone e Anna. E Dio ci donerà se stesso invece di quel che pensavamo di lui, gli altri al posto delle idee che ci eravamo fatti di loro, noi stessi, invece di quel che volevamo essere o almeno sembrare. Beato, veramente beato, chi non si scandalizza di lui.

di Sergio Massironi

venerdì 21 dicembre 2018

Settimana news: Don Primo Mazzolari - Natale: Ci sei Tu!

Il Bambino nasce. Vado a vederlo. Cosa gli dirò quest’anno?

A Natale tutti gli possono parlare: qualche cosa tutti gli dicono perché quand’Egli nasce «nel mezzo della notte, si fa un gran silenzio, e alla Parola onnipotente che discende dalle sue sedi regali» le povere voci create s’accostano e parlano.

Volete che non gli parlino il bue, l’asino, le pecore del Presepio? E la paglia del suo giaciglio non gli dirà nulla? E gli Angeli non volete che gli portino il desiderio delle stelle e i sospiri della notte?

Un bambino non dà soggezione. Perfino i mendicanti parlano ai bambini che incontrano per strada: perfino la gente che non sa o non osa rivolgere la parola ad anima viva, davanti a un bambino si fa coraggio. Un bambino non tradisce, un bambino non fraintende, un bambino capisce ogni lingua. Egli non è ancora salito sulla torre di Babele.

Capisco adesso perché l’Onnipotente si fa bambino: perché l’onnipotenza si veste della più grande impotenza e chiede a tutti e ha bisogno di tutto, anche di una stalla abbandonata, del fiato di un asino, di un po’ di paglia.

Il Presepio è la casa dell’Accondiscendente: la scuola che confonde i savi e depone i potenti. Deposuit potentes de sede.[1] Che strana maniera di confonderci e di deporci.

Noi ci vestiamo di ferro e di acciaio, ci mettiamo intorno fortezze di cemento e campi di mine: ci serviamo d’ordigni che vomitano fuoco e morte. Vantiamo la nostra forza uccidendo.

Che povera forza, una forza che uccide! Mentre il Forte si veste di povera carne, una carne che ha freddo, ha fame. Già piange: già sanguina questa povera carne di un Dio fatto bambino!

Noi ci barrichiamo, scaviamo trincee, tracciamo limiti… e l’Inaccessibile, l’Inviolabile, l’Eterno, entra nel tempo, scende sulla terra, prende dimora fra gli uomini, toglie il limite tra l’infinito e il finito, tra l’umano e il divino e si mette a servizio di tutti, alla mercé di tutti…

Quale temerarietà! O non ci si conosce o la sua carità è così grande che può passar sopra a tutte le misure e a tutte le precauzioni della nostra saggezza.

Qualunque cosa T’accada, Signore, non potrai incolpare che Te stesso: se un giorno Ti metteremo in croce, non potrai dire: io non l’ho voluto.

Ci hai posto in tentazione di mancarti di riguardo. Un bambino che nasce in una stalla, anche se gli angeli lo giocondano, non può essere un personaggio di riguardo.

Infatti, tutti vengono a vederlo: tutti gli vogliono parlare e nessuno si fa annunciare.

Vorrei parlargli anch’io se non m’infastidisse la gente che ha d’intorno; vorrei parlargli solo, cuore a cuore. Aspetterò un poco: chissà che quel devoto che non la smette mai, intanto finisca. Finalmente! se ne va. Non c’è più nessuno: è la mia volta.

‒ Signore…

Dovrei parlargli di me, ma in questo Natale non posso parlargli di me, ho vergogna di parlargli di me.

Io possiedo ancora una casa, un focolare, una chiesa, una patria. Non è ancora venuto nessuno a ordinarmi di sgombrare: nessun aeroplano è venuto a sganciare bombe sulla mia casa, nessun morto tra i miei… Di guai non ne manco, ma son guai fabbricati da me, dal mio benestare che può prendersi il lusso di contare che gli manca questo e quello.

E quando uno sta bene, non rappresenta nessuno all’infuori di sé stesso.

Io non sono la voce di nessuno. E se non sono la voce di nessuno, con quale diritto voglio parlare a Uno che è tutti?

Davanti all’uomo, solo chi sta bene ha diritto di far sentire la propria voce.

Solo chi sta bene ha dei diritti davanti all’uomo: solo chi ha qualche cosa è qualcuno davanti all’uomo. Ma davanti al Presepio è qualcuno solo chi ha niente. Gli può solo parlare uno che ha niente.

Se uno fa gli affari su quelli che muoiono in trincea o in mare, non ha diritto di parlare.

Se uno non ha cuore per chi ha perduto la casa, la patria, la chiesa… non ha diritto di parlare.

Se uno resta indifferente davanti alla barbarie irrompente, non ha diritto di parlare.

Se uno non ha fame e sete di giustizia per tutti i depredati, per tutti gli oppressi, non ha diritto di parlare.

Io non ho diritto di parlare. Il mio benessere mi oltraggia; il mio egoismo mi schiaffeggia: la mia comodità mi diminuisce fino a togliermi ogni diritto di parola davanti al Dio-Bambino di questo Natale di guerra.

Scappo di chiesa e mi butto per la prima viottola che mena ai campi. La notte pare schiarirsi sotto le stelle divenute vicine, molto vicine, e meno indifferenti per quello che accade quaggiù. Voglio domandare al silenzio della notte, alla desolazione dei campi, alle lagrime dei poveri, dei perseguitati, degli orfani, delle vedove, al lamento dei feriti, al grido degli esuli e degli oppressi, ai morti di tutti i cimiteri vecchi e nuovi… la voce che sola ha diritto di parlare al Cristo.

Voglio che qualcuno mi impresti il diritto che ho perduto, la dignità che ho rifiutato rifiutandomi al dolore.

Sono disposto a «vendere» tutto per riavere quella comunione con l’umanità lacerata e crocifissa che sola può dare voce alla mia preghiera.

Suonano le campane della mia chiesa. Che strano suono! non sembrano neanche le mie campane. Ma io le ho sentite ancora queste campane. Natale del 1918: una foresta ai limiti del Belgio.[2]

La stessa solitudine, lo stesso silenzio… a l’improvviso, un suono di campane… dopo tanti mesi di cannone.

Finalmente la pace in un suono di campane: tutta la stanchezza che cede in un suono di campane: tutta la sospensione dei cuori in un suono di campane: tutti i lutti, tutte le speranze in un suono di campane.

Come mi sembra lontana la casa, la chiesa, la Patria! … E sono a due passi: le porto in cuore e me le sento così perdute, così fragili, così inesistenti… Non ho più nulla di mio. Di mio, in questo momento, non ho che l’urlo delle sirene d’allarme, lo scoppio delle mine, il sibilo dei siluri che squarciano la carne, il bagliore degli incendi, il pianto degli orfani, il lamento dei prigionieri, l’inguaribile nostalgia dei profughi, le croci di legno.

Adesso ho diritto di parlarti. Signore, sto male. Ma perché Tu sei tornato fra noi, perché hai voluto tornare tra noi ancora una volta, è tutt’altra cosa.

Non ti chiedo nulla: mi basta che tu sia fra noi. Noi possiamo divenire anche più cattivi, ma se Tu resti, anche questo grosso male passerà.

Signore, grazie! Mi sento meno male al cuore. Domani, no, oggi. C’è già qualcosa di nuovo oggi: ci sei Tu.

[1] Cf. «Magnificat», Lc 1,52.

[2] Mazzolari nel 1918 era stato tenente cappellano militare nella Piccardia, responsabile della cura pastorale delle truppe italiane inviate sul fronte francese.

mercoledì 19 dicembre 2018

Andiamo fino a Betlem – don Tonino Bello

Andiamo fino a Betlem, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso.

Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi dell’onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.

Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.

Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte, e illuminato di stelle.

E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.

don Tonino Bello

Avvenire.Natale. La meditazione di Enzo Bianchi. Le tre nascite di Gesù

La festa di Natale si avvicina e molti cristiani si apprestano a celebrarla, preparando anche i festeggiamenti che essa tradizionalmente richiede. In questa lunga vigilia che ormai è sempre più anticipata, e di conseguenza prolungata, per ragioni commerciali, non certo "spirituali", si levano alcune voci critiche verso il consumismo, che scaturisce dall'ebbrezza connessa alle feste; altre voci richiamano l'attenzione sui poveri, sui senza casa, simboleggiati nei presepi; per altri ancora il Natale è l'occasione di una guerra culturale contro quelli che non sono cristiani; per altri, infine, il modo di vivere questa festa è epifania della stupidità che rinuncia a simboli e segni per non mettere in imbarazzo chi è estraneo alla fede cristiana.Sembra che la vigilia, anziché essere un tempo di preparazione e di maggior consapevolezza di ciò che si celebra, sia un pretesto per altre preoccupazioni. Va anche registrata una forte caduta della qualità della fede, perché il popolo cristiano, non educato ma anzi sviato, non sa più cosa sia veramente il Natale e cosa è chiamato a celebrare. Lo dimostra la vulgata che ormai si è imposta: «Aspettiamo che nasca Gesù bambino. Ci prepariamo alla nascita di Gesù. Gesù sta per nascere: venite, adoriamo!». Espressioni, queste, prive di qualsiasi qualità di fede adulta e secondo il Vangelo. Perché? Perché Gesù è nato una volta per sempre a Betlemme, da Maria di Nazaret, dunque non si deve più attendere la sua nascita: altrimenti si tratterebbe di un'ingenua regressione devota e psicologizzante che depaupera la speranza cristiana, oppure di una finzione degna della scena di un teatro, non della fede cristiana! Non ci si prepara alla Natività di Gesù Cristo, perché a Natale - come recita la liturgia - si fa memoria (commemoratio, dice l'antico martirologio) di un evento del passato, già avvenuto «nella pienezza del tempo» (Gal 4,4).Cosa dunque si celebra a Natale da autentici cristiani? Si fa memoria della nascita di Gesù, della nascita da donna del Figlio di Dio, della «Parola fatta carne» (cf. Gv 1,14), umanizzata in Gesù di Nazaret. A Natale, inoltre, volgiamo i nostri sguardi alla venuta gloriosa di Cristo alla fine dei tempi perché, secondo la promessa che ripetiamo nel Credo, «verrà a giudicare i vivi e i morti e il suo Regno non avrà fine». Tutto l'Avvento ha il significato di preparazione a questo evento finale della venuta gloriosa di Gesù Cristo, non alla nascita del santo bambino. Infine, a Natale ogni cristiano deve vivere e celebrare la nascita o la venuta del Signore Gesù nel suo cuore, nella sua vita. La grande tradizione della chiesa cattolica, fin dagli antichi padri d'oriente e d'occidente, ha meditato su queste tre nascite o venute del Signore, e proprio in base a questa consapevole percezione dovuta allo Spirito i sacramentari gelasiano e gregoriano introdussero le tre messe di Natale: notte, aurora e giorno. Sono poi stati soprattutto i padri cistercensi del XII secolo a sostare maggiormente sul mistero del Natale come giorno delle tre nascite di Cristo: Bernardo di Clairvaux per primo distingue, medita e commenta queste tre nascite, e subito dopo i suoi discepoli, Guerrico di Igny e Isacco della Stella.Facile la meditazione sulla prima venuta di Gesù, quella dell'incarnazione, illustrata dai "vangeli dell'infanzia" di Matteo e di Luca (cf. Mt 1-2; Lc 1-2): è un evento che si compie nell'umiltà, perché Gesù nasce da Maria nella campagna di Betlemme, non avendo trovato i suoi un alloggio nel caravanserraglio. Di questa nascita avvenuta quando Cesare Augusto era imperatore ed Erode re di Galilea, non si accorgono né i potenti né gli uomini del culto e della legge: sono pastori, poveri coloro ai quali Dio dà l'annuncio della nascita del Messia, il Salvatore. I nostri presepi la rappresentano bene, ma questo "memoriale" di un evento avvenuto nella storia autorizza la lettura di due ulteriori nascite-venute del Signore. In primo luogo la venuta del Signore nella gloria alla fine dei tempi: colui che è venuto nell'umiltà della carne fragile e mortale degli umani verrà con un corpo spirituale, glorioso, vincitore della morte e di ogni male, per instaurare il suo Regno. Questa è la parusia, la manifestazione di Gesù quale Signore di fronte a tutta la creazione. L'Avvento insiste soprattutto su questa venuta per chiederci di vigilare, di essere pronti, di pregare per affrettarla, perché egli viene e viene presto! Purtroppo a tale venuta si fa sempre meno cenno nella chiesa e la predicazione spesso è muta su questo tema. Eppure ciò è decisivo per la fede: se Cristo non viene nella gloria quale giudice e instauratore definitivo del Regno, allora vana è la nostra fede, vana la nostra affermazione che egli è risorto, miserabile la nostra vita di sequela (cf. 1Cor 15,19). Purtroppo nella vita secolare della chiesa attraversiamo raramente periodi di "febbre escatologica" e quasi sempre restiamo nel torpore di chi è spiritualmente sonnambulo e non attende più nulla. Non è un caso che Ignazio Silone, questo grande cristiano, a chi gli chiedeva perché non entrasse a far parte della chiesa, dal momento che aveva ritrovato una fede profonda in Gesù e nel Vangelo, rispose: «Per far parte di quelli che dicono di aspettare il Signore, e lo aspettano con lo stesso entusiasmo con cui si aspetta il tram, non ne vale la pena!».Infine, il Natale è l'occasione per rinnovare la fede nella terza nascita di Gesù: la venuta di Gesù in noi che può avvenire ogni giorno, hic et nunc, qui e adesso. Il cristiano sa che il suo corpo è chiamato a essere dimora di Dio, tempio santo. Ecco allora l'importanza che il Signore Gesù venga, nasca in noi, nel nostro cuore, in modo che la sua vita sia innestata nella nostra vita, fino a poter dire nella fede: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). È una venuta che ciascuno di noi deve invocare - «Marana tha! Vieni, Signore Gesù!» (1Cor 16,22; Ap 22,20) -, deve preparare, predisponendo tutto per l'accoglienza del Signore che viene nella sua Parola, nell'Eucaristia e nei modi che egli solo decide, in base alla sua libertà e alla potenza dello Spirito santo. Occorre essere vigilanti, in attesa, pronti, con il cuore ardente come quello della sentinella che aspetta l'aurora.Qui occorrerebbe ascoltare san Bernardo che ci parla delle «visite del Verbo, della Parola», in cui il Signore Gesù Cristo viene in noi: evento spirituale, nascosto, umile, ma sperimentabile. Ecco solo due stralci delle sue meditazioni: «Conosciamo una triplice venuta del Signore. Una venuta nascosta si colloca infatti tra le altre due, che sono manifeste. Nella prima il Verbo "è apparso sulla terra e ha vissuto tra gli uomini" (Bar 3,38). Nell'ultima venuta "ogni carne vedrà la salvezza di Dio" (Lc 3,6) e "volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto" (Gv 19, 37; cf. Zc 12,10). La venuta intermedia è invece nascosta. Nella prima venuta, dunque, "venne nella carne" (1Gv 4,2) e nella debolezza, in questa intermedia viene "in Spirito e potenza" (Lc 1,17), nell'ultima "verrà nella gloria" (Lc 9,26) e nella maestà. Quindi questa venuta intermedia è, per così dire, una via che unisce la prima all'ultima: nella prima "Cristo" fu "nostra redenzione" (1Cor 1,30), nell'ultima "si manifesterà come nostra vita" (Col 3,4), in questa è nostro riposo e nostra consolazione». (Discorsi sull'Avvento V,1); «Confesso che il Verbo mi ha visitato più volte. Benché sia spesso entrato in me, non l'ho mai sentito entrare. Ho sentito che era là, mi ricordo della sua presenza. Ma da dove sia venuto nella mia anima, o dove sia andato nel lasciarla, da dove sia entrato e uscito, confesso che oggi ancora lo ignoro. È solo grazie ai moti del mio cuore che mi sono reso conto della sua presenza. Finché vivrò, non cesserò di invocare, per richiamare in me il Verbo: "Ritorna!" (Ct 2,17). E ogni volta che se ne andrà, ripeterò questa invocazione, con il cuore ardente di desiderio». (Discorsi sul Cantico dei cantici LXXIV, 5-7).Ecco il vero Natale cristiano: noi ricordiamo la tua nascita a Betlemme, Signore, attendiamo la tua venuta nella gloria, accogliamo la tua nascita in noi, oggi. Per questo il mistico del XVII secolo Angelo Silesio poteva affermare: «Nascesse mille volte Gesù a Betlemme, se non nasce in te, tutto è inutile».