mercoledì 25 marzo 2020

Tutta la penitenza sta nella confessione/assoluzione? Contagio, perdono e rinnovo delle forme di vita spirituale di Andrea Grillo



Come ha messo in giusto rilievo Giovanni Marcotullio, in un recente testo su “Aleteia”, la discussione che la condizione di quarantena ha aperto intorno alla messa e alle sue difficoltà, non deve far dimenticare l’altra questione bruciante, che si apre intorno al tema della “confessione sacramentale”, alle sue forme e alle diverse soluzioni che vengono proposte per affrontare le difficoltà legate alla condizione di “pandemia”, con tutto ciò che questo significa in termini di distanze, esclusione del contatto, presidio sanitario e normativa civile che si impone anche a livello ecclesiale. Una immagine, che correda in apertura l’articolo di Marcotullio, fotografa bene una delle forme di “recezione” della novità: un prete, seduto a debita distanza, all’aperto, in una specie di parcheggio, ascolta la confessione di un penitente che sta seduto nella sua automobile. L’auto si trasforma in confessionale, per un sacramento in versione “drive-in”. La inventiva pastorale non ha limiti. Ma forse è bene sostare sulla questione in modo più complessivo e generale. Io sono convinto che anche per questo sacramento, come per l’eucaristia, la “emergenza virus” sia in grado di far emergere una serie di questioni che riguardano il senso stesso del sacramento della penitenza e potrei dire il suo “significato sistematico”. Proviamo a interrogare l’esperienza nel modo più spregiudicato possibile, per quanto ci è consentito.

a) La tradizione di questo sacramento e la “res” che vuole assicurare

Un primo aspetto che non deve essere trascurato è questo: nel sacramento della penitenza sappiamo che il contatto non può essere aggirato. La implicazione del soggetto è percepita con un grado maggiore rispetto alla stessa celebrazione eucaristica. E questo è un dato rilevante. Potremmo dire che la “partecipazione”, che nella messa può essere anche largamente “passiva” – e sopporta tranquillamente la “diretta streeming” anche nella forma più impersonale – per la confessione non funziona. Devo essere personalmente coinvolto, interpellato, sollecitato, implicato. Per questo il sacramento, se deve esistere ancora in regime di quarantena, deve trovare “soluzioni” al problema delle distanze imposte, del contagio da evitare. Il luogo più appartato e più intimo della Chiesa, il confessionale, diventa impraticabile. Dunque, potremmo dire che, se per la messa, con la pandemia la logica tridentina sembra trionfare – messe private di soli preti e assemblea che torna muta spettatrice – per la confessione il simbolo stesso del sacramento viene come “profanato” dalle norme civili. Questo impone di introdurre delle varianti, che possono essere pensate a diversi livelli. Proviamo a considerare le principali.

b) L’imbarazzo e le vie di uscita: vere e false trasgressioni

Di fronte a queste difficoltà si sono manifestate tre strade con cui si è tentato di rispondere alla emergenza:

b1) la prima è quella semplicemente “tecnica” e “funzionale”: luoghi arieggiati, guanti in vinile, distanza di sicurezza, mascherina obbligatoria. Cambia qualche accidente, la sostanza resta immutata;

b2) la seconda è il ricorso alla “terza forma” del sacramento, ossia quella con confessione e assoluzione in forma generale, che ha il vantaggio di non richiedere alcun contatto, e lo svantaggio della genericità e della non individualità;

b3) la terza proposta fa ricorso al tema classico del “votum sacramenti”, per il quale, in circostanze eccezionali, si può superare la mancata confessione specifica dei singoli peccati gravi ed essere riconciliati “in voto”: dove per “voto/desiderio/proponimento” si intende non solo la desiderata riconciliazione, ma anche il proposito di confessare quanto prima i peccati gravi, non appena sarà possibile.

E’ evidente come le diverse risposte manifestino una diversa considerazione attribuita alle circostanze storiche e culturali in cui la Chiesa si muove in questo tempo. Vi è, tuttavia, un elemento che accomuna tutte queste soluzioni, ed è una considerazione che mi pare semplicistica e troppo “amministrativa” del sacramento, che deriva da una lettura in cui le sole fonti “canoniche” esercitano un peso eccessivo, fino a distrarre dal centro pulsante del sacramento. Proviamo a vedere perché.

c) Un ripensamento complessivo del sacramento rispetto al “fare penitenza”

La norma che risuona come sottofondo di tutte queste soluzioni è quella enunciata dal can 960: “Individualis et integra confessio atque absolutio unicum constituunt modum ordinarium quo fidelis peccati gravis sibi conscius cum Deo et Ecclesia reconciliatur”. A questa definizione del “modo ordinario” di amministrare il sacramento seguono le eccezioni straordinarie, dovute a impossibilità fisica, morale o a circostanze eccezionali, che permettono di superare questa unicità. Di per sé, dunque, le tre soluzioni appaiono tutte guidate – in positivo o in negativo – da questa definizione. Di per sé la soluzione b1) resta pienamente nell’alveo della definizione, solo con accorgimenti tecnici; b2) può fare a meno della confessione integra e individuale; b3) può prescindere sia dalla confessione, sia dalla assoluzione.

Ciò che tuttavia sorprende è che le risorse pastorali, in un tempo dalle caratteristiche così eccezionali, si lascino condizionare in modo così profondo da una definizione “incompleta” del sacramento. Incompleta, ad es., rispetto alla definizione del CCC 1491. Perché bisogna riconoscere che il testo canonico, con un linguaggio istituzionale che forza la realtà, riduce il sacramento della penitenza a “due atti” (confessione e assoluzione), lasciando sullo sfondo, e nella sostanziale irrilevanza, la elaborazione del dolore e della libertà (ossia contrizione e penitenza). Potremmo dire che, nel sacramento della penitenza, così come considerato dal codice, non c’è più la penitenza. E siccome questo nostro tempo sovrabbonda proprio di penitenze – addirittura imposte per legge – sorprende alquanto che si pensi ai guanti di vinile, a come dispensare dalla confessione specifica, o addirittura dalla assoluzione, ma non si lavori sui due punti chiari, evidenti e comuni a tutti: il dolore che non passa, che spaventa e che paralizza, e la risposta corporea e spirituale della libertà all’annuncio del perdono.

In effetti, ciò che la Chiesa si vede consegnato, nel sacramento della penitenza è, per usare una definizione tridentina, un “battesimo laborioso”. Ma perché mai, proprio in un tempo di così grande elaborazione del dolore e delle forme di vita come questo, noi ci occupiamo solo di sistemare formalmente (e forse anche un po’ formalisticamente) degli “atti ufficiali”?

d) Le risorse inesplorate: la condizione di vita della quarantena non è già fare penitenza?

Ecco allora una buona occasione, offertaci da questo tempo di clausura, per tornare con occhi nuovi a questo sacramento e al suo contesto più vero. Potrei dirlo qui con una serie di 10 brevi proposizioni, dotate anche di una certa provocazione, ma spero capaci di smuovere le coscienze e di aprire gli occhi sulla realtà.

d1) I sacramenti del perdono, nella vita cristiana, sono battesimo e eucaristia. In essi facciamo la grande esperienza del perdono, che Dio riserva agli uomini e alle donne. Un dono gratuito che ci impegna e che ci mette alla prova. Possiamo vivere la comunione con Dio e con il prossimo, possiamo gustarne la gioia e la forza, ma possiamo anche entrare in crisi. Per questo ci sono non uno ma due sacramenti della crisi;

d2) Il peccato grave del battezzato e la malattia grave del battezzato sono i motivi della crisi. Nella nostra contingenza attuale, è del tutto normale che, a causa della malattia grave che contagia tanti nostri fratelli e sorelle, i malati e coloro che li amano e sono ad essi legati, vivano una crisi profonda, che investe anche la fede. La unzione dei malati e la penitenza sono i rimedi con cui la Chiesa torna al battesimo e alla eucaristia, come grandi esperienze di perdono e di grazia;

d3) La malattia grave è una “crisi di fede senza colpa”. Noi non siamo abituati a pensare così. E a sentire la vicinanza della Chiesa a coloro che soffrono la malattia grave perché non disperino. La colpa grave è una crisi di fede legata invece al comportamento volontario, scelto intenzionalmente dal soggetto. Di fronte ad esso la Chiesa non soltanto “annuncia il perdono” (assoluzione) di fronte al peccato confessato (confessione), ma accompagna la elaborazione del dolore (contrizione) e la strutturazione della risposta della libertà (penitenza);

d4) Ciò che nel sacramento della penitenza è qualificante e specifico non è l’annuncio del perdono, che questo sacramento ha in comune con battesimo e eucaristia. E’ invece l’accompagnamento nella elaborazione del dolore e nella ristrutturazione del corpo, della mente e dello spirito. Potremmo dire al “dono del perdono”, ripetuto e mutuato dal battesimo, corrisponde la elaborazione del lutto, della memoria e della libertà, che è specifico del IV sacramento.

d5) Per questo gli antichi, molto più di noi, sapevano che “penitenza” è prima una virtù che un sacramento. E il sacramento è al servizio della promozione e della articolazione della virtù. Essere consapevoli del perdono ricevuto nel battesimo e continuamente rinnovato nella eucaristia permette di superare anche i peccati più gravi se, a partire dal rinnovarsi della parola del perdono di fronte alla parola che confessa il peccato, imparo nel tempo a elaborare il dolore e a ristrutturare la mia libertà;

d6) Ecco allora che, all’improvviso, possiamo capire una cosa che ci era nascosta. Questo nostro tempo, già di per sé, ha una sua duplice struttura penitenziale, che è pronta e disponibile per tutti: il tempo quaresimale, per la tradizione ecclesiale, e il tempo di quarantena, per la tradizione civile, sono forme comuni, potremmo dire pubbliche e comunitaria, di elaborazione del dolore e di ristrutturazione dei comportamenti;

d7) Nella penitenza antica accadeva così: dopo aver confessato il peccato si diventava penitenti e si entrava in un “regime particolare”, che investiva il lavoro, il tempo, la preghiera, i luoghi di vita…Abbiamo oggi una sorta di “regime penitenziale” che accomuna una intera nazione. Come mai la Chiesa non se ne accorge? Perché usa il vecchio armamentario, che si lascia suggerire da un diritto canonico algido, inadeguato e spento, e non lavora sulla materia viva delle esperienze esposte al non-senso o ad un surplus di senso, che le parole alte della tradizione biblica e spirituale sanno interpretare con tanta forza? Perché usiamo invece “nozioni giuridiche”?

d8) L’immaginario pubblico ha provato a elaborare la condizione attuale. Le parole che emergono su tutte sono clausura, quarantena e arresti domiciliari. Sono tre vissuti di “pena” o di “penitenza”. Ma la logica pubblica le interpreta solo come “male minore” in vista della salute. E non è poco. La grande tradizione umana e cristiana sa che ogni cambiamento costa sofferenza, fatica, privazione, dolore. Una riconsiderazione della esistenza bella alla luce della quarantena è una occasione penitenziale che non possiamo leggere solo con un concetto di penitenza ridotta al sacramento, e di sacramento ridotto alla normativa canonica su di esso; questa sarebbe povertà culturale, che non nutre nessuno. Abbiamo molto più del sacramento già pronto, nella vita quotidiana: sembra un paradosso, ma è la nostra realtà di oggi, nella sua eccezionalità.

d9) Desiderio del sacramento? Sarebbe questo il desiderio necessario? Proprio in un tempo in cui il desiderio è messo così profondamente alla prova e possiamo sperimentare il “desiderio di buona salute” e “desiderio di una passeggiata” come una cosa irrealizzabile, il desiderio di pienezza e di pace, di fiducia e di contatto prende forma e ha bisogno di rapporti significativi. Un sacramento ridotto al meccanismo ad orologeria “confessione/assoluzione” diventa disumano se non è calato in un rapporto vitale. Se poi ci aggiungi guanti e mascherina, rischi di trattare l’anima con asettica competenza, ma in modo estrinseco e freddo. Il desiderio non può essere del sacramento, ma è desiderio di pienezza (eucaristica) e di cambiamento (penitenza). Che solo eventualmente passa per il sacramento, ma sempre passa per ciò che sta al di qua e al di là del sacramento, anche quando lo abbiamo restituito alla sua pienezza e non lo riduciamo arbitrariamente alla immediatezza disumana di confessio/absolutio.

d10) Lavorare sul “fare penitenza” oggi è una occasione, che ha due interlocutori diversi. Chi lavora, lavora molto di più e in condizioni peggiori. Chi non lavora ha tempi più distesi e problemi nuovi e non meno complicati. La efficienza è compromessa, o per eccesso o per difetto. Le parole della tradizione biblica, quaresimale, penitenziale, ascetica, monastica, orante, prendono oggi un nuovo tono e diventano nutrimento irrinunciabile. Accompagnare questa rilettura, al di qua e al di là degli atti formali di confessione/assoluzione, mi parrebbe la occasione da non perdere. Far diventare il “precetto pasquale” un “dono di elaborazione del lutto, della memoria e della libertà”: questo è il kairòs. O giochiamo su questo tavolo, con il meglio delle nostre parole, oppure, con la più nobile delle nostre intenzioni, spingeremo la tradizione a diventare un grande museo.

Pandemia e indulgenze: se sappiamo davvero di che cosa si tratta, era proprio il caso? di Andrea Grillo



Quali sono le priorità su cui la Chiesa cattolica può e deve prendere la parola, nel particolare contesto di questa Quaresima e Pasqua segnata così profondamente dalla pandemia? Gli ultimi documenti prodotti dalla Curia romana intervengono, come abbiamo visto nel post di ieri, con alcune evidenze chiare, ma anche con un problema nello stile, nel linguaggio e nelle opzioni, che merita attenta considerazione.

Vorrei soffermarmi qui sul punto delicato delle “indulgenze”, proposto dal recente Decreto della Penitenzieria Apostolica. Dopo aver rimandato ad una chiarificazione della “terminologia classica” con cui la Chiesa parla del tema, e che facilmente viene fraintesa, (mi limito a riproporre un post pubblicato nel 2015, in vista del Giubileo della Misericordia) occorre però esaminare con cura la pertinenza e la opportunità di un tale intervento. Che senso ha parlare di “indulgenze” in questo momento? Provo a rispondere, in modo critico, in una serie di punti-chiave.

- La evoluzione del termine indulgenza ha subito con Francesco una accelerazione: nella Bolla di indizione del Giubileo del 2015-216 si usa il termine solo al singolare ed esso perde le caratteristiche “contabili” che gli hanno guadagnato, anche a giusto titolo, una fama non precisamente brillante.

- Ma la caratteristica della “indulgenza” è di essere un “pesce” che può nuotare nell’acqua delle “pene temporali”. Qui, per evitare equivoci, bisogna spiegare bene la serietà del tema, almeno per come è stato pensato dalla tradizione medievale. Esso non riguarda il “perdono del peccato”, ma la “remissione della pena”.

- Infatti ogni assoluzione, che abbia materia “circa quam”, ossia che sia giustificata dal peccato grave, inteso come rottura della comunione ecclesiale, implica, secondo la tradizione, il superamento della “pena eterna”, ma non quello della “pena temporale”. Che cosa significa? Significa che il soggetto, che Dio ha perdonato, deve rispondere nel tempo, con la sua libertà, alla grazia del perdono. Deve “lavorare su di sé”.

- Ora, questo “compito penitenziale” – ossia le “opere di penitenza” che attendono chi ha ricevuto la grazia del perdono – implica un percorso di elaborazione con cui gli uomini e le donne rispondono con la loro vita alla vocazione all’amore e alla pace, che in Cristo hanno conosciuto e gustato. Comporta perciò una sofferenza di percorso e un doloroso apprendistato, pur scaturendo dalla gioia.

- Solo a questo punto le indulgenze possono apparire all’orizzonte e prendere il loro senso. Esse sono l’atto festivo, straordinario e eccezionale, con cui la Chiesa, con la sua preghiera, prende su di sé le fatiche di questo cambiamento e le “rimette”, cancellandole, in toto o in parte. E questo avviene nel tempo o nello spazio. Per questo le indulgenze si collegano a “tempi particolari” (giubilei, anni santi…) o a luoghi particolari (santuari).

- Ora a me pare, per quanto mi è dato di comprendere, che il contesto di una grave epidemia, che è certo un tempo eccezionale, abbia però caratteristiche tali da non richiedere tanto una “festiva remissione delle pene temporali”, quanto piuttosto una “feriale consolazione delle sofferenze”. Si tratta di “assumere un dolore e orientarlo”, non di “rimettere una pena”.

- Inoltre, e qui tocchiamo una questione ancora più delicata, come dicevo all’inizio, e come ho cercato di spiegare sopra, l’indulgenza ha senso per il soggetto che viva il compito di una “penitenza” da svolgere nel tempo e che invece scopre misericordiosamente condonata in corrispondenza di una atto simbolico. Il sacramento della penitenza determina una condizione di “pena temporale” solo se sa tematizzarla esplicitamente. Se noi celebriamo la confessione e come “penitenza” riceviamo “10 Avemarie”, non possiamo comprendere in alcun modo il valore della “indulgenza” come remissione festiva di un compito che non c’è, non per nostra cattiva volontà, ma perché così è oggi per lo più la prassi ecclesiale e la stessa interpretazione della Penitenzieria Apostolica legge il sacramento della penitenza come semplice unione di “confessione” e “assoluzione”. Io trovo molto curioso che i due documenti della Penitenzieria siano così contraddittori: uno parla della Indulgenze sulla base di “pene temporali”, di cui l’altro documento non si cura minimamente. Curiosa contraddizione all’interno del medesimo ufficio.

- Pertanto a me sembra che in questo momento il richiamo alla “indulgenza”, non come sinonimo di “misericordia”, ma quando intesa come istituto specifico esercitato dal Dicastero Penitenzieria Apostolica, appaia fuori luogo e, per certi versi, crei interferenze rischiose, tra cura dei malati, paura per la incertezza e condono della pena. Questo tempo non ha bisogno di “remissione di pene”, ma di accompagnamento nelle sofferenze, di orientamento nella confusione, di recupero di priorità elementari. Per parlare della Misericordia di Dio il tema “indulgenze” sembra qui, in tutta franchezza, una inutile forzatura.

- Infine, rispetto alla Bolla Misericordiae Vultus del 2015, il recente Decreto della Penitenzieria Apostolica costituisce una obiettiva involuzione nello stile e nel contenuto. La cosa è piuttosto evidente, poiché si torna a parlare con la terminologia di una “matematica delle remissioni” che fatica non solo ad essere compresa, ma ancor più ad essere giustificata o giustificabile. Non tutto ciò di cui un Dicastero di Curia è competente risulta perciò sempre anche opportuno o giusto.

giovedì 19 marzo 2020

L'Osservatore Romano: Ite ad Joseph

 «Finirono i sette anni di abbondanza... e cominciarono i sette anni di carestia, come aveva detto Giuseppe. Ci fu carestia in ogni paese, ma in tutta la terra d’Egitto c’era il pane. Poi anche tutta la terra d’Egitto cominciò a sentire la fame e il popolo gridò al faraone per avere il pane. Il faraone disse a tutti gli Egiziani: “Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà”» (Genesi 41, 53-55). «E oggi / E adesso siamo noi quel popolo che è spinto dalla carestia. / E gridiamo verso Dio, / per chiedergli di che vivere. / Ma egli ci dice: Andate da Gesù, e fate quello che vi dirà» (Charles Peguy).



Gli ultimi capitoli della Genesi ci presentano la splendida e nota storia di Giuseppe, venduto a mercanti che andavano in Egitto dai suoi dieci fratelli maggiori, invidiosi perché era il preferito del padre Giacobbe, per la sua veste dalle lunghe maniche e per i suoi strani sogni.

La sua vicenda va di male in peggio. Reso schiavo, è venduto a Potifar, comandante delle guardie del faraone; viene accusato ingiustamente di violenza dalla moglie dello stesso Potifar che si era invaghita di lui e non sopportava il fatto che lui rifiutasse la sua seduzione e rimanesse casto; è fatto prigioniero, facendosi interprete di sogni dei suoi compagni di cella, ma poi dimenticato.

In questa disavventura, di circa tredici anni, il Signore fu sempre con Giuseppe. Egli si accorge di non essere abbandonato, e scorge un disegno provvidenziale che lo condurrà al cospetto di un faraone angosciato dopo una notte di sogni — le sette vacche grasse e le sette vacche magre — in cerca di qualcuno che possa interpretarli. Quel qualcuno è Giuseppe. Esce di prigione, risolve senza indugiare l’enigma e annuncia sette anni di abbondanza e sette di carestia. Il faraone è talmente affascinato da questo giovane da affidargli il governo del popolo, rendendolo secondo dopo di lui.

Negli anni di abbondanza la politica agraria ed economica di Giuseppe rende l’Egitto previdente in vista della carestia. Il grano è in grandissima quantità, come la sabbia del mare, incalcolabile. All’inizio della carestia, quando il popolo griderà al faraone per avere pane, egli risponderà: «Andate da Giuseppe, fate quello che vi dirà».

Il versetto appena citato contiene un significativo aggancio con le due creature più care a noi cristiani: la vergine Maria e san Giuseppe. Le parole: «Andate da Giuseppe», nel latino Ite ad Joseph le troviamo applicate proprio allo sposo di Maria, scritte sotto le statue che lo raffigurano o sopra gli altari nelle chiese a lui dedicate.

A Giuseppe, sognatore, custode di Maria, di Gesù e della Chiesa, ci affidiamo sempre e in questa “carestia”, perché lui, come padre di famiglia, ci porti ancora il pane necessario per il quotidiano. Mi piace pensare che quando Gesù ragazzo si rivolgeva a Maria per chiederle qualcosa di particolare, ricevesse da lei la risposta: «Va’ da tuo padre, fa’ quello che lui ti dirà», come un proverbio da ripetere con un sorriso, consapevole che per alcune cose più importanti c’è bisogno della parola di un padre.

Eppure un giorno quelle parole Maria le dirà ai servi di Cana, quando lei si accorgerà della “carestia” di vino capace improvvisamente di rovinare la festa di nozze dell’umanità. Non sappiamo da quanto tempo Giuseppe avesse lasciato la vita terrena, quando Maria si ritrovò a quel matrimonio (forse pensando con nostalgia al suo). Ma quelle parole, le ultime di Maria nel vangelo — «Fate quello che lui vi dirà» (Giovanni 2, 5) — pronunciate sempre indicando Giuseppe, ora sente di dirle per la prima volta indicando il “nuovo Giuseppe” che sta portando una sovrabbondanza di Pane nuovo (e di Vino nuovo) perché l’umanità non perisca mai più, neanche nei tempi di carestia. Ecco allora che in quei mezzi versetti della Genesi e del Vangelo di Giovanni, ritroviamo la risposta al grido dell’uomo di ogni tempo. Troviamo la risposta al grido di oggi, in questa pandemia che ci fa sentire improvvisamente smarriti, impotenti, vulnerabili.

Andiamo allora da Giuseppe, che sogna l’abbondanza della Misericordia di Dio; e andiamo da Maria, che custodisce nella fede ogni cosa nel cuore, anche nel tempo della carestia della croce. Li troveremo insieme, a indicarci Gesù, per fare quello che lui ci dirà. E lui ci dirà parole d’amore, perché possiamo agire affinché l’amore, in ogni tempo, non rimanga solo una parola.

di Paolo Ricciardi

mercoledì 18 marzo 2020

SettimanaNews: Chiesa italiana: un’occasione


La durissima prova a cui siamo sottoposti in questo momento storico attiva le nostre forze interiori, che danno vita a quella resistenza e resilienza capace di accompagnarci psicologicamente e spiritualmente. Nondimeno, in questo laborioso lavoro interiore, è chiamata in causa la stessa fede cristiana, chiamata a essere antidoto contro la paura, lo smarrimento e l’angoscia, ma anche a far intravedere le possibilità nuove che Dio apre per noi, pur dentro una situazione difficile come quella a cui il coronavirus ci sta sottoponendo.

Un messaggio di speranza
Da più parti – mi preme ricordarlo – la voce dei laici e dei loro pastori si sta facendo sentire anzitutto con un messaggio di speranza; da questo momento di grande prova e sofferenza avremo la possibilità di uscire in modo nuovo, anche dal punto di vista spirituale. Mentre camminiamo nel deserto, senza pane e senza acqua, chiedendoci anche se «Dio è con noi oppure no», coltiviamo anche la segreta speranza del cuore che il Signore ci sta purificando da molte cose e, a suo modo, ci sta conducendo verso una terra nuova dove scorrono latte e miele. Vedere i campi che già biondeggiano di grano, mentre ancora il gelo e il freddo ci fanno sentire solo come dei terreni aridi, è il contenuto di quella speranza cristiana che, in queste ore, prende corpo grazie a messaggi, riflessioni, omelie e molte altre parole quotidiane che circolano specialmente sui social.

Cosa sta succedendo nella Chiesa italiana
Tuttavia, non si può tacere che questa inedita situazione sta anche scoperchiando il vaso di pandora di una spiritualità cristiana e di una diffusa visione ecclesiologica, che meritano di essere affrontate forse ora più che mai. Per comprenderne tutta la portata, basta soffermarsi un momento su quel fiume carsico che si sta gonfiando di acque, da quando l’emergenza coronavirus ha “costretto” i vescovi italiani a sospendere tutte le celebrazioni, anche festive, e in certi casi chiudere i luoghi di culto.

Da quel momento, si sono attivate alcune reazioni che anche nelle ultime ore contribuiscono a generare confusione e, soprattutto, fanno emergere in tutta la sua prepotenza un aspetto non poco preoccupante della vita cristiana ed ecclesiale: l’insormontabile difficoltà di vivere – dopo decenni dal concilio Vaticano II – una spiritualità laica e laicale in una Chiesa realmente popolo di Dio.

Tre aspetti critici
Per esigenza di chiarezza, cercherò di sintetizzare la questione in modo schematico.

“Messa sì, Messa no”
Per alcuni il digiuno eucaristico che ci è stato imposto è insopportabile. Naturalmente, non si può negare che sia per tutti noi una sofferenza. Tuttavia, sta emergendo nel nostro cattolicesimo italiano qualcosa che ha dell’eccessivo: l’eccessiva sacramentalizzazione della vita della fede, più specificatamente l’eccessivo sbilanciamento dell’azione pastorale che riduce l’essere Chiesa a «una fabbrica di Messe» (celebrate per ogni occasione, a ogni ora, più volte al giorno) e la spiritualità cristiana al semplice – talvolta abitudinario e convenzionale – «andare a Messa». O la Messa o il nulla.

Scriveva il professore benedettino Elmar Salmann: «Fino ad oggi noi abbiamo o parrocchia o niente, o la Messa o niente, o uno si fa prete o non ha nessun ruolo, o si sposa in chiesa o non c’è niente, o viene battezzato o non c’è niente». Non può continuare così. C’è – e lo ha detto papa Francesco in Evangelii gaudium – un predominio della sacramentalizzazione su altre forme di evangelizzazione.

Dispiace che dopo anni di riflessioni sull’importanza della Parola di Dio, della preghiera in famiglia e della «Chiesa domestica», oggi siano andate in confusione anche le menti più illuminate. Se in questo momento c’è più tempo per tutti, oggi potrebbe essere un’occasione unica per l’ascolto, la lettura e la meditazione della Parola di Dio; per pregare insieme in famiglia e coltivare un’altra qualità della relazione personale con Dio; per fare silenzio o leggere un bel testo di spiritualità. Per scoprire, cioè, che lo Spirito Santo abita nei nostri cuori e nella vita, prima ancora che nelle chiese.

Ma la domanda è: abbiamo educato il Popolo di Dio all’ascolto della Parola di Dio? A pregare nella vita quotidiana? A saper celebrare con la vita quella Messa che – come spesso pure diciamo nelle prediche – inizia e si celebra nei travagli dell’esistenza e di ogni situazione umana? Ite Missa est funziona ancora o la Messa è solo quella che si esprime nella ritualità liturgica? La Mensa della Parola di Dio esiste ancora o, non potendo celebrare, moriremo di fame spirituale?

Chiese aperte, chiese chiuse
Posta in questi termini l’alternativa è abbastanza sterile. La Chiesa esiste per evangelizzare e non è certo un ufficio o un’agenzia che puoi chiudere quando vuoi. Per sua natura, come papa Francesco ripete da tempo, è sempre aperta e in uscita. Tuttavia, perdonatemi la franchezza, resto davvero di stucco se dopo 60 anni dal concilio Vaticano II e dalla sua ecclesiologia, noi pensiamo ancora la Chiesa nei termini del luogo fisico dell’edificio di culto; è davvero sconfortante per chi abbia studiato un minimo di teologia immaginare che, se domani non ci fossero più chiese fondate su pietra d’uomo, noi non saremmo più la Chiesa e la Chiesa non sarebbe più; è ancora più sconvolgente l’assordante scarsa comprensione del Vangelo, in cui Gesù relativizza il Tempio invocandone perfino la distruzione, indicando se stesso come vero Tempio e annunciandoci il dono dello Spirito Santo, che avrebbe reso anche noi Tempio del Padre.

Lo Spirito che abbiamo ricevuto ci rende figli e, perciò, ci conduce ad adorare Dio né su quel monte e né in nessuna Gerusalemme umana, ma “in spirito e verità”; siamo diventati – secondo le parole di Paolo – un edificio spirituale fatto di pietre vive, ben ordinate in Cristo Gesù; e la nostra vita – non un rito esteriore – è il vero culto spirituale gradito a Dio. Questo significa che le chiese non servono? Sarebbe dire una grande sciocchezza. Ma – ci ha ricordato papa Francesco in un Angelus del 2014 e in altre occasioni – la Chiesa non è l’edificio di mattoni, ma il suo cuore fatto di pietre vive.

Si comprende la fatica, la sofferenza, anche la buona intenzione di tanti parroci; forse – come ha giustamente scritto anche Andrea Grillo in questi giorni – tenere una chiesa aperta può anche essere un segno “fisico” di speranza in questo momento doloroso; tuttavia, la questione è tutt’altra: noi siamo, con la nostra vita, il nostro lottare e sperare quotidiano, la Chiesa viva e aperta al di là di tutti i decreti legge, anche se ci trovassimo in un regime che ci impedisse di riunirci e pregare. E la confusione generata in questi giorni non va bene, meno bene vanno quei banali commenti sul fatto che i supermercati sono aperti e la chiesa no. Niente affatto.

Le chiese sarebbero aperte se avessimo davvero aiutato le persone a scoprire il valore inestimabile del loro battesimo che li rende pietre vive del Tempio e membra vive del corpo di Cristo. Non solo: sarebbe ora di ascoltare umilmente la scienza, che insieme alle autorità che ci governano, ci invita a restare a casa, o la curva dei contagi non allenterà.

La spiritualità laicale
Un’ultima parola vorrei spenderla sulla specificità della vocazione e della spiritualità laicale che, a quanto pare, subisce ancora gli effetti di un clericalismo e di un ecclesiocentrismo che spaventano. A cosa è chiamato un battezzato? Qual è il significato del suo sacerdozio battesimale? Il concilio Vaticano II parla dei laici – che non dimentichiamolo, sono la maggioranza del popolo di Dio – come coloro che “vivono nel secolo” e sono chiamati a vivere la propria vita e a compiere i propri doveri con spirito evangelico «in tutti e singoli i doveri e gli affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta» (LG 31).

I laici, cioè, cercano il Regno di Dio nelle cose ordinarie e secolari: contrariamente a certi moralismi dei linguaggi ecclesiali, la vocazione del cristiano laico è la secolarità, la quale è manifestazione di Dio. Il sacrificio spirituale offerto a Cristo dai laici, che partecipano del sacerdozio battesimale, è questo trovare Dio in tutte le cose e far fermentare il suo Regno nelle situazioni della vita e della storia. Il significato nudo ed essenziale della vita cristiana è questo «cercare e trovare Dio in tutte le cose», è questa «teologia del quotidiano» di un Dio incarnato che ci raggiunge nella finitezza delle nostre giornate prima ancora che nelle liturgie del Tempio, è questa bellezza della vita feriale che Karl Rahner definiva «lo spazio della fede, la scuola della sobrietà, l’esercizio della pazienza», che anche impercettibilmente, «nasconde il miracolo eterno e il mistero silenzioso che chiamiamo Dio» (Cose di ogni giorno, Queriniana, Brescia 1994, p. 10)..

In tempo di coronavirus, invece, sembra che i laici senza la celebrazione dell’eucaristia siano privati di tutta la potenza del loro battesimo e a loro non rimane altro che affidarsi alle dirette streaming.

Per la Chiesa italiana, oggi, è tempo di riflessione. O si coglie questo drammatico momento per cambiare o avremo perso un’occasione per sempre.

di: Francesco Cosentino

sabato 14 marzo 2020

MichaelDavide Semeraro "Quarantena e Quaresima"

Il pensiero di un monaco


Come una comunità monastica vive il trauma della società colpita dal virus. 
“Accettare le proprie pause”. 
La delicata questione della sospensione dell’Eucarestia: è da questa che dipende la vita cristiana?

In questi giorni siamo tutti chiamati a confrontarci e, in certo modo, a riconciliarci profondamente con la nostra umanità. Per lo più, almeno nella nostra sensibilità e cultura occidentale, quando facciamo ricorso a questa parola “umanità”, siamo soliti farlo in modo assai solenne e talvolta presuntuoso. Evochiamo questa preziosa parola, in cui ci riconosciamo, per distinguerci dalle altre creature viventi, nel senso di una eccellenza che diamo per scontata e per acquisita. In realtà, questa parola rimanda radicalmente a quell’humus da cui siamo stati tratti e verso cui siamo chiamati a ritornare con serenità, dopo aver percorso il nostro cammino di umanità. La caratteristica più propria della nostra dignità umana è la consapevolezza della nostra realtà che dovrebbe generare sempre l’humilitas. L’umiltà è propria delle persone umane degne di questo nome. Nella nostra cultura occidentale siamo più inclini a pensare alla nostra umanità a partire dal mito di Prometeo che non dal mistero di Cristo Signore.

L’esperienza così difficile di dover far fronte ad una pandemia come quella del Coronavirus si sta rivelando uno choc quasi assordante: non pensavamo di essere anche noi vulnerabili e così tremendamente fragili. Ci eravamo convinti di essere una porzione dell’umanità che, a costo di sacrifici e di intraprendenza mirabili, si era guadagnata il privilegio di una sostanziale e durevole immunità dalla paura e dal senso così umano di insicurezza. Eravamo così fieri e pieni di noi stessi da arrivare a pensare persino che gli altri – i popoli più poveri e svantaggiati – in realtà raccogliessero il frutto della loro pusillanimità tanto da sentirci in dovere di negare loro il diritto a sedere al banchetto della nostra felicità. La pandemia ha cambiato tutto in un attimo. In realtà abbiamo cercato di rimandare questo click il più possibile, ma oramai, pur con una inziale resistenza, ci stiamo adeguando più o meno serenamente o con malcelato panico.

Chi segue la vita e l’attività di papa Francesco è abituato a un ritmo sostenuto di impegni, di discorsi e di gesti. In questi ultimi giorni anche papa Francesco ha rallentato il suo ritmo a motivo del suo personale raffreddore, prima, e, in seguito, per conformarsi alle misure preventive adottate per arginare la pandemia del Coronavirus. In realtà anche il non-detto, il non-fatto, il non-confermato è un messaggio.

L’esempio di Etty Hillesum

Una parola mi torna in mente annotata da Etty Hillesum nel suo Diario: “BISOGNA ACCETTARE LE PROPRIE PAUSE”[1]. Proprio come le cose più importanti della creazione quale può essere una gestazione, una scoperta o un’invenzione, hanno bisogno di tempo… così gli umani cammini hanno bisogno di tutto il loro tempo, ma anche di pause, di sospensioni e di rimandi. Il rallentamento del nostro ritmo consueto può essere un’occasione per guadagnare in profondità e per amplificare la nostra modalità di vivere le realtà cosi ampie e variegate della nostra vita. La sfida di passare dal galoppo delle emozioni e delle sensazioni alla pacata degustazione di ogni frammento di vita, anche quando è limitato dalla costrizione della situazione, diventa un compito per crescere in umanità. Il senso chiaro di fragilità può diventare l’occasione per cogliere l’essenziale e tenersi pronti a tutto, anche a ciò che ci sconvolge.

La “lentezza” e il “torpore”, che sembrano quasi indispettire e allarmare questa donna appassionata e vivace fino ad essere frizzante, diventarono gradualmente per Etty degli alleati irrinunciabili. Etty Hilesum, la cui preghiera è stata citata dal cardinale De Donatis al Santuario del Divino Amore, imparò a riconoscere, in un contesto di tremenda “vulnerabilizzazione” come fu la Shoah, la loro imperdibile utilità per il lavoro interiore. Proprio questo lavoro, cui era in gran parte impreparata, la rese capace di tenere la sua posizione nella storia e di fronte al mondo fino alla fine e ben oltre la conclusione della sua vita. Il compimento vissuto da Etty Hillesum e quella pace trovata, senza perdere nulla delle sue inquietudini e della sua ribellione davanti alla sofferenza e al male, diventano una sorta di esempio e di incoraggiamento per quello che stiamo vivendo. Dobbiamo infatti riconoscere che siamo diventati una generazione non certo “malvagia” (Lc. 11, 29), ma sicuramente troppo frettolosa. Talmente pressati e continuamente stimolati non abbiamo talora tempo e modo per guardarci dentro e lasciarci veramente guardare dalla vita. Questa distrazione radicale non ci dà più la voglia di curiosare nel grande mistero di cui siamo parte senza esserne il centro.

Ciò che sta ora accadendo non può certo lasciare insensibili. Dobbiamo scegliere di guadagnare in profondità. È questo l’unico modo per raggiungere le periferie talora così poco frequentate della nostra personalità, perché tutto sia più luminoso e sereno. Abbiamo l’occasione di ritrovare quell’armonia di cui portiamo nel cuore non solo l’insopprimibile nostalgia, ma pure l’alfabeto necessario per narrarla e trasmetterla soprattutto nei momenti più difficili e gravi.

Un segno dei tempi

Ciò che stiamo vivendo, e che siamo in certo modo obbligati a vivere, si sta rivelando un duplice segno. Siamo stati introdotti dall’incremento di intelligenza del Vangelo, vissuto con il Concilio Vaticano II, a lasciarci interrogare dai “segni dei tempi”. Tutto quello che accade, in particolare quando tocca in modo così forte le nostre relazioni tra persone, è un “segno” da cogliere e da interpretare. Nella mia personale sensibilità ho colto e accolto con gratitudine mista a stupore la reazione della Conferenza Episcopale del nostro Paese alle norme imposte dal governo. Il fatto di adeguarsi in modo sereno e semplice per contenere il contagio è un vero salto di qualità nella relazione tra la Chiesa e la società moderna, sempre più post-moderna e, sicuramente, post-cristiana.

Alcuni hanno letto e persino criticato, fino a disapprovare le indicazioni date dai Vescovi del nostro Paese come una resa allo Stato da parte della Chiesa e addirittura come una resa della fede davanti alla scienza. Qualcuno ha persino gridato allo scandalo per avere ceduto al materialismo piuttosto che ribadire e rafforzare le esigenze e i rimedi spirituali. Per alcuni sospendere le celebrazioni dei sacramenti è un atto di resa incondizionata alla mentalità del mondo, invece di resistere con eroismo fino al martirio per testimoniare i valori della fede e la fiducia nella Divina Provvidenza

Personalmente ritengo che dai tempi del Manzoni il mondo è veramente cambiato! Dagli appelli del Borromeo a intensificare i pii esercizi nelle chiese e per le strade, per fare penitenza e impetrare la fine del flagello (divino secondo qualcuno!) ne è passata di acqua sotto i ponti! Siamo passati all’invito insistente, ma delicato, a vivere nella fiducia serena di poter pregare ed esser esauditi – lo speriamo! – comodamente seduti sul divano di casa. La pandemia ha permesso di rivelare quel lungo cammino compiuto in questi ultimi decenni: una vera riconciliazione della Chiesa con la società post-cristiana e un’alleanza tra fede e scienza che avrebbero fatto esultare personaggi come Galilei, Copernico, Giordano Bruno…! L’uscita dal “regime di cristianità”, decretato, per così dire, da papa Francesco nel suo ultimo discorso alla Curia Romana (21 Dicembre 2019), è una realtà che ci permette come cristiani di adeguarci alle leggi dello Stato in cui viviamo, cercando i modi adeguati e non conflittuali per essere dei compagni di cammino per tutti. Questo sereno allineamento non significa certo far mancare alla nostra umanità il suo colore e calore evangelico. Anzi, forse il contrario.

In una situazione difficile la Chiesa, attraverso i suoi Pastori, invece di “dettare” le regole del gioco, ha accettato di seguire le regole imposte per poter giocare, fino in fondo e con tutti, la scommessa di superare insieme la pandemia. Così la Quaresima, vissuta sempre più da una minoranza quasi invisibile, si è trasformata in una quarantena condivisa. L’austero simbolo delle ceneri, con cui il cammino penitenziale della Quaresima è cominciato per alcuni, mentre altri ne sono stati privati, è diventato una esperienza esistenziale condivisa. Senza programmarlo stiamo vivendo, non solo come cristiani, una Quaresima diversa – soprattutto per l’impoverimento liturgico e sacramentale – che, in realtà, può e dovrebbe diventare un tempo di condivisione in umanità. In una parola, la quaresima si è trasformata in quarantena e speriamo che la quarantena ci aiuti a vivere meglio la quaresima nella compassione evangelica. Proprio la compassione deve risplendere con una luce tutta particolare come quella delle stelle in una notte di luna piena. Il fatto di invitare i fedeli a pregare in casa e ad unirsi, attraverso i mezzi di comunicazione, alle celebrazioni trasmesse via etere è un riconoscimento della possibilità di vivere anche in modo diverso la propria vita di preghiera in un quadro più personale e intimo… più interiore e “segreto” (Mt. 6,6,). La costrizione della necessità se da una parte impone una privazione, dall’altra permette un ampliamento e un approfondimento della coscienza battesimale che conferisce ad ogni rinato in Cristo il carattere “sacerdotale” oltre che “regale” e “profetico”.

La situazione particolare permette ai credenti di sperimentare una libertà profetica nel vivere il proprio sacerdozio battesimale. Rispondendo anche alla propria sensibilità, si può custodire il proprio legame con il Signore e con la comunità unendosi spiritualmente alle celebrazioni assicurate a porte chiuse dai ministri ordinati, oppure dedicandosi alla preghiera personale e alla meditazione della Parola di Dio in solitudine o nel proprio nucleo di vita, come è abitualmente la famiglia o una comunità. La dimensione domestica della prima generazione cristiana, che si affianca a quella cultuale della frequentazione del Tempio o della sinagoga (At. 2,46), ritorna a vivere ampliando e non necessariamente impoverendo il rapporto con Dio. Con la mia comunità ci siamo interrogati su come vivere questo tempo di “distanza” dal resto della comunità ecclesiale circa la celebrazione dell’Eucaristia.

Tenendo conto della riflessione di un monaco e teologo – ormai nonagenario – si deve ricordare che:

Il sacramento dell’eucaristia non sembra al primo posto nell’economia della fede. Ciò di cui si tratta per l’umanità è rendere a Dio un sacrificio spirituale che consiste interamente nella pratica della carità: verso Dio, verso se stesso, verso il prossimo. Sacrificio nella misura in cui questo si realizza nel movimento di donare, di chiedere, di ricevere, che è il ritmo stesso dell’amore e implica una felice rinuncia[2].

In un momento in cui la comunità che celebra l’Eucaristia non può essere presieduta per motivi serenamente accolti, ci sono due possibilità. La prima è quella di “celebrare per” seguendo uno schema in cui nel ministero presbiterale si accentua la dimensione sacerdotale, in una prospettiva a partire dalla quale “la Chiesa è uno strumento e uno spazio di salvezza piuttosto che una comunità”[3]. La seconda potrebbe essere la “felice rinuncia” al prezioso dono di celebrare l’Eucaristia, digiunando in attesa di poter di nuovo banchettare insieme e quindi poter nuovamente, a suo tempo, “celebrare con”. Anche temendo che le restrizioni potranno estendersi alla Settimana Santa, avrei preferito con la mia comunità monastica continuare a celebrare insieme – almeno finché il Coronavirus non ci separi – la Liturgia delle Ore senza celebrare l’Eucaristia, tenuto conto che non si può condividere l’Eucaristia con gli altri battezzati a noi vicini, ma la si può celebrare solo “tra noi” a porte chiuse. Il dilemma non è facile da risolvere. Se da una parte la fedeltà alla comunione di Chiesa farebbe protendere per un digiuno condiviso con tutti gli altri battezzati, dall’altra lo stesso senso di comunione ecclesiale obbliga a seguire le indicazioni date dai Pastori che hanno ricordato come “i Vescovi e i Sacerdoti ricevono con l’ordinazione la grazia e la missione dell’intercessione per il proprio popolo. Sono quindi invitati a celebrare personalmente, a mettere a disposizione strumenti e momenti con i nuovi mezzi della comunicazione per pregare e meditare”.

In ogni modo, quello che viviamo in questo momento di grave pericolo è qualcosa che tocca, segna e interpella la nostra percezione di come essere discepoli del Vangelo nel mondo in cui viviamo e nelle situazioni, anche impreviste, in cui ci troviamo a vivere e a soffrire. Penso che, soprattutto se l’emergenza prenderà il tempo di cui ha bisogno per essere superata, questa esperienza segnerà la vita dei credenti e non necessariamente, come alcuni temono, in peggio. Lo stesso rapporto con l’Eucaristia potrebbe ridefinirsi ed essere ricompreso nella linea di una sacramentalità più esistenziale e non semplicemente rituale. Non ci resta che vivere e soffrire sia la privazione dei molti, che il ministero dei pochi i quali devono ancora più vigilare sul rischio di trasformarlo in un privilegio. Non va dimenticato che “in un certo senso, la comunità precede il sacerdote: essa esisteva prima di lui e continuerà ad esistere in seguito grazie alla condizione battesimale dei suoi membri e alla diversità dei carismi che hanno ricevuto”[4]. La situazione che stiamo vivendo può essere vissuta come un rafforzamento della postura clericale in base alla quale il presbitero “sa di essere di un’altra essenza rispetto ai fedeli”[5], oppure l’occasione per un sussulto di coscienza in tutti i fedeli della loro dignità battesimale. Questo mi sembra essere la sfida all’interno della comunità credente, chiamata a vivere un passaggio non indifferente in questa quaresima-quarantena. Ma quello che viviamo tra noi non è certo la sola cosa rilevante, perché come discepoli siamo costituiti tutti come testimoni.

Prendere sul serio la morte

La comunità dei discepoli se si adegua serenamente a quanto viene prescritto e imposto dalla società in spirito di libertà collaborativa, allo stesso tempo non rinuncia a vivere meglio il messaggio del Vangelo e a testimoniarlo al mondo. La pandemia mette in crisi quel modo di supponenza che si traduce in dimenticanza della nostra fragilità fino a nascondere la morte. Come discepoli del Signore Gesù crediamo nella risurrezione e, in forza di questa nostra fede, attendiamo la vita eterna senza confonderla mai con la pretesa e l’illusione di essere immortali. Come creature siamo mortali e la morte, unitamente alle tante morti che dobbiamo attraversare nella vita, è parte integrante della nostra umana avventura. In questo momento in cui tanti, per così dire, si rendono conto quasi improvvisamente di essere mortali, come discepoli abbiamo un messaggio da testimoniare e da trasmettere con la discrezione propria del nostro “munus” profetico, in forza del nostro battesimo. In una situazione che ci rende consapevoli di essere tutti potenzialmente malati, l’annuncio della speranza cristiana si fa ancora più urgente e forse persino più udibile dai nostri fratelli e sorelle in umanità. Una distinzione è fondamentale:

L’ottimismo forzato è una delle malattie del nostro secolo: l’obbligo di mostrarsi sempre positivi, chiudendo gli occhi di fronte a tutto ciò che minaccia i fragili fili su cui si trova appesa la nostra felicità a buon mercato. Quanta psicologia da quattro soldi spinge in questa direzione! Mentre la vita cristiana è orientata verso quello che Emmanuel Mounier chiamava “l’ottimismo tragico”: un ottimismo radicale nell’esito ultimo del nostro pellegrinaggio, accompagnato però da una seria presa di coscienza delle nubi e degli ostacoli sul cammino. La fede cristiana prende sul serio la sofferenza e la morte[6].

In questo momento di fragilizzazione e talora di panico, come credenti siamo chiamati a rendere testimonianza discreta e appassionata della “speranza” (1Pt 3, 15) che ci abita e ci anima. Con questa consapevolezza diventeremo capaci di quell’ottimismo tragico che è l’unico a poter essere autenticamente alla portata della nostra umanità. Annunciare il Vangelo della vita comporta la capacità di evangelizzare la sofferenza e persino la morte. La morte è chiamata liturgicamente “dormizione”, come appunto viene rammentato dai “cimiteri” che sono il luogo dove i morti dormono in attesa della risurrezione. Il termine “eternità” in ebraico viene dal verbo alam che significa nascondere. Dio ha come avvolto nell’oscurità il destino d’oltre tomba e non bisogna in nulla violare il segreto divino. In ogni modo il pensiero dei Padri afferma chiaramente che il tempo “intermedio” non è vuoto e, come spiega sant’Ireneo, le anime “maturano”[7]. Per questo, e grazie a Dio e al suo mirabile disegno:

Lo voglia o no, l’uomo che invecchia si prepara alla morte. Penso perciò che la natura stessa provveda ad una preparazione in vista della fine. […] Giacché il non prendere posizione di fronte alla morte come scopo é nevrotico quanto il reprimere, durante la giovinezza, le fantasie rivolte all’avvenire[8].

Possiamo ben dire che Cristo è maestro della morte e nostra guida attraverso tutte le morti fino al passaggio finale. Questa è la sfida più grande in quanto “morire la propria morte è altrettanto raro quanto vivere la propria vita”[9]. Ma si deve anche considerare che la serenità della nostra morte è il frutto della “dura” morte del Signore Gesù il quale, se preparò la sua morte durante un convivio come Socrate[10], la consumò, invece, nello spasmo della croce. Il modo di preparare e vivere la morte da parte del Signore Gesù non è stato stoicamente distaccato e cinicamente indifferente. Al contrario è stato radicalmente patito “con forti grida e lacrime” (Eb. 5, 7). Il Signore Gesù non ha vissuto la sua morte come una liberazione dalla vita, ma come un dono della vita per affermare che l’amore è più forte della morte. Socrate chiese al discepolo Critone di offrire – a cose fatte – il sacrificio prescritto ad Esculapio per la guarigione ricevuta “o con la medicina da un male, oppure con la morte dalla malattia della vita”[11]. Del Buddha la tradizione ci tramanda due racconti contrastanti della sua morte: una ideale e una drammatica. Al contrario i Vangeli ci testimoniano che, nel mistero della Pasqua, il Signore Gesù si è fatto solidale con la nostra angoscia attraverso la sua compassione. In questo momento così difficile, com’è la pandemia del Coronavirus, la nostra testimonianza discepolare non può che essere conforme a quella di Cristo e non può che seguire lo schema e la logica della Pasqua che forse quest’anno non potremo celebrare come d’abitudine.

La compassione

Condividiamo la fatica e l’angoscia davanti ad una pandemia, che ha messo in crisi non solo le nostre illusioni di privilegi acquisiti per sempre, ma anche il nostro modo di vivere la fede e i sacramenti. In questo doloroso frangente non possiamo e non dobbiamo che aggrapparci alla nostra fede pasquale in Cristo Signore, morto e risorto per noi. Il Vangelo ci mostra che il cuore del cuore della rivelazione in Gesù del volto misericordioso del Padre di tutti e creatore di ogni cosa è la compassione. Quello che stiamo vivendo in questi giorni è un’occasione per fare il punto sulla nostra maturazione in umanità. Essere umani, senza accontentarsi di far parte della categoria degli esseri umani che abitano questo lembo di cosmo con e tra le altre creature. Ciò che siamo costretti a vivere in questi giorni ci ricorda il dovere di accettare il nostro limite fino ad onorare quelli che sono i nostri limiti e portarli insieme. Ancora una volta possiamo fare nostro l’invito che rivolgeva a se stessa Etty Hillesum: “Ma sopportiamolo con grazia”[12].

La pandemia che stiamo attraversando non è un flagello divino, è un segno da leggere con umiltà e da portare con pazienza e compassione. Noi occidentali forse eravamo troppo sicuri di essere indenni dalla nostra dimensione di creature come tutti gli altri. Invece dobbiamo misurarci col fatto che non siamo esenti dalla mortalità, anche se ci sentiamo così onnipotenti. L’ottimismo forzato, in cui ci siamo blindati con l’idea che, seppur non siamo la razza superiore, siamo coloro che sono stati capaci di prendere in mano il loro destino, deve trasformarsi in un ottimismo tragico e in speranza evangelica. Siamo creature come tutti e l’attesa di una vita lunga e bella non può essere un privilegio gelosamente custodito, ma un tesoro da condividere come si fa nei giorni di festa nei quali oltre che gioiosi ci sentiamo tutti più buoni.

La sofferenza non lascia mai uguali a se stessi: o ci rende migliori o ci rende peggiori. La morte di alcuni, la sofferenza di tanti e la paura di tutti sono un segno che ci richiama ad un sussulto di dignità: siamo tutti malati di umanità! E qui la preghiera – nel senso più ampio e variegato – è un’àncora sicura: rivolgendoci all’Altissimo, come creature tra creature, ritroviamo la nostra giusta dimensione. Così potremo maturare la capacità di assumere persino la morte senza smettere di amare la vita e di lottare, appassionatamente, perché tutti l’abbiano in abbondanza.

Una domanda rimane in sospeso: “Come uomini e donne sapremo riannodare e rafforzare quella “social catena” per far fronte all’”empia natura” di cui parlava, con il suo pessimismo illuminato, Giacomo Leopardi nella sua Ginestra? E ancora: “Come credenti sapremo distinguere l’illusione dell’immortalità dal desiderio della vita eterna verso cui ci volgiamo serenamente mettendo in conto la morte nostra e delle persone che amiamo?”.

Tutto ciò non è certo facile, ma è all’altezza del nostro essere creati “ad immagine e somiglianza” (Gen. 1, 26) di Dio. La coscienza del nostro limite di creature va onorato, accolto e amato.

Teniamoci tutti per mano… pur a distanza di almeno un metro… per il momento!

Fr. Michael Davide Semeraro, osb

della Comunità Koinonia de la Visitation, Rhĕmes-Notre-Dame (Valle d’Aosta)

[1] E. Hillesum, Diario, Adelphi 2013, p. 797 e p. 155.

[2] G. LAFONT, Un cattolicesimo diverso, EDB 2019, p. 48.

[3] Ibidem, p. 34.

[4] Ibidem, p. 55.

[5] Ibidem, p. 54.

[6] G. Gonella, Nel deserto il profumo del vento, Il Margine, Trento 2010, p. 19.

[7] IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, PG 7, 806.

[8] C.G. JUNG, La dinamica dell’inconscio, Boringhieri 1976, p. 441.

[9] P. CAPRIOLO, Rilke. Biografia di uno sguardo, Ananke 2006, p. 104.

[10] PLATONE, Fedone, IX.

[11] R. GUARDINI, La morte di Socrate nei Dialoghi di Platone, Morcelliana, Brescia, 1981, p. 318.

[12] E. HILLESUM, Diario, cit., p. 787.

martedì 3 marzo 2020

E. Bianchi "Che speranza diamo agli uomini d’oggi?"

Vita Pastorale -
 Dove va la chiesa - Marzo 2020

Il precedente articolo di questa rubrica ha destato molte reazioni, peraltro positive, al mio grido sull’urgenza di una nuova forma del “vivere la chiesa”. Mi è parso dunque doveroso continuare quel discorso, con alcune proposizioni o proposte per l’evangelizzazione oggi.

Grazie alla rivelazione di Dio fatta da Gesù Cristo (cf. Gv 1,18), la nostra fede è arrivata a dire, attraverso l’apostolo Giovanni, che “Dio è amore, carità” (1Gv 4,8.16). Dunque, la fede cristiana ha sempre come volto la carità, l’amore che i cristiani devono vivere nel mondo in mezzo agli altri uomini e donne, e la chiesa deve essere il sito della carità visibile di Dio tra gli umani. È significativo che Gesù non abbia mai cercato il riconoscimento della sua missione e di conseguenza della missione dei discepoli, ma ha offerto un criterio molto semplice e fondamentale: “Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). L’unico segno, l’unico sigillo dell’essere discepoli e discepole di Gesù è dato non da atteggiamenti religiosi e cultuali, liturgici – e questo lo dice un monaco che pratica abbondantemente la liturgia –, non da dichiarazioni di fede, ma semplicemente dal “comandamento nuovo” dell’amore verso gli altri. Questo è il comandamento ultimo e definitivo: “Che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13,43; 15,12), dice Gesù. La logica di queste parole è paradossale. Gesù non dice: “Come io ho amato voi, voi amate me”. No, dice: “Amatevi tra di voi perché, così facendo, amerete me”. Non basta invocare il Signore, non basta invocare la sua parola, non basta mangiare e bere con lui nell’Eucarestia per essere cristiani (cf. Lc 13,26); occorre vivere la carità come l‘ha vissuta Gesù, fino all’estremo (cf. Gv 13,1), fino al dono della propria vita nel servizio degli altri. Una carità praticata mai in modo ripetitivo e schematico, ma sempre reinventata e rinnovata nei gesti e nelle azioni.

Proprio per questo il giudizio del Figlio dell’uomo sull’umanità di ogni tempo sarà fondato sulle azioni che ogni essere umano avrà vissuto nei confronti degli altri. Gesù non ci ammonisce con un giudizio che riguarda le nostre debolezze di uomini e donne fragili nella loro condizione carnale, ma sulle nostre omissioni, quando incontriamo (o non incontriamo) l’altro, il bisognoso, l’affamato, l’assetato, lo straniero, il povero, il malato, il carcerato (cf. Mt 25,31-46). Ciò che ci viene chiesto è incontrare l’altro in quanto essere umano, fratello o sorella in umanità, uguale in dignità. Si tratta di andare incontro all’altro cercando di discernere il suo bisogno, ascoltando la sua sofferenza, la sua invocazione, fino a prendercene cura in una relazione ospitale all’insegna della gratuità. Questa carità vissuta decide la verità dell’appartenenza a Cristo.

Certo, i cristiani sono chiamati a dare una forma pratica, concreta alla solidarietà, all’uguaglianza, alla giustizia. La carità cristiana esige sempre un’opzione per l’umanizzazione in assoluta gratuità, senza ansie di evangelizzazione o di autoconservazione della chiesa. La concezione cristiana della carità è eversiva e può essere “anormale” (parole di Paul Valadier, gesuita ex direttore della rivista Études), nelsenso che resta sorda alle voci mondane, al miraggio dell’audience, e si distacca da ciò che nella storia è vincente e più facilmente attestato. Non dunque dei cristiani fuori del mondo, ma nel mondo altrimenti, nel mondo senza essere del mondo (cf. Gv 17,11-16); senza paure e senza esigere di essere vincitori. La Buona notizia che i cristiani sono chiamati a dare all’umanità è solo quella dell’amore offerto in modo incondizionato, un amore che non va mai meritato. In estrema sintesi, è questo annuncio, fatto con autorevolezza: “Hai visto un uomo, hai visto un fratello? Hai visto Dio” (parole di Gesù tramandate da Clemente Alessandrino).

Ma nella missione, quale speranza? Forse questa è la cosa più difficile oggi per il cristianesimo e per la missione. Tutta la storia della chiesa, infatti, è segnata dalla testimonianza della carità, in particolare verso i poveri e i malati. Mai nessuno ha dubitato di questa capacità della carità, anche oggi e anche nelle nostre chiese. Ma quale speranza diamo agli uomini e alle donne di oggi? Viviamo in un tempo segnato da molte paure, un tempo in cui si sono spente e anestetizzate le grandi speranze delle ideologie e delle utopie secolarizzate. Il nostro tempo è spesso posto sotto il segno della crisi, o addirittura della fine. La precarietà del presente e l’incertezza del futuro alimentano paure che abitano la nostra convivenza – “nuove paure”, come ha scritto sociologo Marc Augé – indeboliscono la fiducia, paralizzano l’insurrezione delle coscienze. Papa Francesco chiede con insistenza di combattere e di vincere le paure come decisivo antidoto al rinchiudersi in un orizzonte individualistico, asfittico, ripiegato su di sé, e quindi assorbito in un vortice di egoismo.

Immerso in questa situazione, il cristiano subisce oggi la tentazione di rifugiarsi innanzitutto in una spiritualità seducente, accattivante ed efficace, una spiritualità che consiste nel presentare la salvezza come benessere individuale. Siamo di fronte a un teismo etico, terapeutico, che cerca armonia e benessere quotidiano e aspira al conforto interiore. Il primato viene accordato a un Dio “Energia”, all’offerta di un moralismo dettato dall’antropologia, alla salvezza come pace e calma interiore. Ed è così che la speranza, proprio perché è rinchiusa in dimensioni individuali, non è più speranza, tanto meno quella cristiana: o si spera per tutti, o non si spera! Ma allora quale speranza annunciare nella missione cristiana?

Sono sempre più convinto che dobbiamo partire dalla narrazione cristiana per eccellenza: l’amore vince la morte. Nelle diverse culture umane si è sempre giunti a pensare, in varie forme, a un duello tra amore e morte, eros e thanatos, i due nemici per eccellenza. Non è un caso che l’Antico Testamento nel Cantico dei cantici arrivi ad affermare che l’amore può combattere la morte, anche se non si spinge fino a dire che ne è vincitore. Si ferma all’espressione: “Forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6). Ma l’annuncio cristiano testimonia esattamente a questo proposito l’inaudita novità di Gesù Cristo: avendo amato fino all’estremo, fino alla fine (cf. Gv 13,1), essendo vissuto operando il bene e spendendo la vita per i poveri, i sofferenti, gli oppressi, gli esclusi, gli scarti della società e i peccatori, non è restato preda della morte. Dio lo ha resuscitato perché non era possibile che quell’amore vissuto andasse perduto. Così possiamo intendere le parole dette da Pietro a Gerusalemme, nel primo discorso dopo Pentecoste: “Non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere” (At 2,24).

Forte come la morte è l’amore, più forte della morte è stato l’amore vissuto da Gesù. Questo è l’annuncio cristiano, che possiamo rivolgere anche ai non cristiani, ai non credenti, facendo loro capire che la resurrezione è davvero il nucleo incandescente di tutta la nostra fede in Gesù Cristo. La morte non è l’ultima parola, è questo che noi dobbiamo saper comunicare all’interno del nostro annuncio evangelizzatore. Solo così rendiamo ancora Cristo non un maestro di umanità o di spiritualità, ma colui che è capace di salvare realmente le nostre vite.

Ecco alcuni tratti radicali di cosa dovrebbero essere la nostra fede, la nostra carità e la nostra speranza, affinché possa germinare lo slancio missionario. Sono convinto che, soltanto andando alla radice e vedendo bene ciò che manca oggi alla chiesa, potremo uscire da questa situazione di sterilità e di crisi di fede. E se la fede è debole, lo è anche la missione. Ammettiamolo, i problemi sono molti: la città è sempre più post-cristiana, noi siamo una minoranza nella società, avvolti dal regno dell’indifferenza nei confronti di Dio e della chiesa, ma non per questo viene meno la speranza, la quale potrà far germinare in futuro dei segni che possano davvero essere all’insegna della fede, della speranza e della carità.

Noi abitiamo “la Galilea delle genti” (Mt 4,15), quelle genti che ormai sono qui tra di noi. Il mondo è cambiato. E la mia speranza è che il Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia dello scorso ottobre, unitamente a quello che si sta celebrando in Germania, possa fornire delle tracce per tutte le chiese. Il problema, infatti, non riguarda solo quelle chiese, peraltro così diverse, ma riguarda noi: come inculturare la fede in questo mondo globalizzato e post-cristiano? Rispondere a questa domanda richiede di compiere passi nuovi, richiede nuovi modi di far vivere la liturgia, richiede un altro linguaggio, richiede di mettere a fuoco gli elementi essenziali del cristianesimo, senza timori né paure. Ci è chiesta una grande conversione, forse simile a quella che il cristianesimo del primo secolo dovette compiere per aprirsi dal giudaismo a tutte le genti della terra.