giovedì 29 novembre 2018

Enzo Bianchi: Ascoltare i giovani

 Articolo pubblicato su Vita Pastorale – Ottobre 2018

Questo mese di ottobre nella chiesa cattolica è vissuto quasi interamente (dal 3 al 28) come “sinodo”, un camminare insieme sotto la guida del papa, convergendo a Roma, interrogandosi e riflettendo su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. È un evento che potrebbe essere significativo e forse anche decisivo per la presenza dei giovani nella chiesa, una porzione di popolo di Dio che si sta assottigliando, soprattutto in occidente, e che rischia di mancare alla chiesa di domani.

In questi anni di preparazione e di attesa ho sentito più volte la domanda: “Ma è possibile un sinodo che non sia solo sui giovani ma anche dei giovani?”. Infatti, l’assemblea sinodale è composta da circa duecento vescovi, da alcuni esperti e auditores, ma non è certo un’assemblea di giovani: alcuni di questi ultimi saranno presenti, ma il sinodo è un’istituzione episcopale, non un’assemblea ecclesiale: i padri sinodali sono appunto “padri” e non possono essere i giovani.

Ma ho colto anche un’altra perplessità, riguardante lo stesso soggetto “giovani”: quali giovani? I giovani sono presenti in tutto il pianeta, in tutte le chiese sparse per il mondo, ma cosa li unisce, al di là della loro età, della comune giovinezza? Un giovane di Milano non credo abbia molto in comune con un giovane della Nigeria, così come un giovane di New York è altro rispetto a un giovane dell’Eritrea. Queste evidenze potrebbero portarci a giudicare il sinodo come un’impresa impossibile, perché troppo grande è la differenza e troppo articolata è la complessità della vita nelle diverse aree continentali e regionali.

Va tuttavia riconosciuto che, essendoci stata una consultazione dei giovani in molte chiese locali, il loro ascolto sarebbe possibile se i lavori del sinodo avverranno in modo ordinato, così da giungere a individuare come le chiese regionali possono rispondere alle attese dei giovani e aprire loro delle vie che li rendano soggetti ecclesiali, protagonisti nella vita cristiana. Avendo già partecipato come esperto a due sinodi dei vescovi e avendo quindi acquisito una certa esperienza nell’ordo laboris, mi auguro che questa volta nell’ordinare gli interventi si tenga conto dell’Instrumentum laboris e della “regionalità” delle proposte, delle suggestioni e degli interrogativi sottoposti all’attenzione dell’assemblea sinodale.

Da parte mia, quale auditor invitato da papa Francesco al sinodo, vorrei dare un umile apporto proveniente dall’ascolto dei giovani in varie chiese locali dell’Europa occidentale neolatina e nella mia comunità. Sovente ho posto ai giovani che ho incontrato la domanda: “Che cosa vorreste che la chiesa dicesse di voi e a voi giovani? Come voi giovani vi sentite e vorreste sentirvi soggetti protagonisti nelle vostre chiese locali? Le risposte raccolte, soprattutto in quest’ultimo anno, sono state moltissime e, nel leggerle con attenzione, ho trovato conferma alla mia speranza: le nuove generazioni che si affacciano all’inizio del terzo millennio non sono perdute per la fede cristiana, ma sono molto esigenti nella loro ricerca e, pur sorprendendoci, non sono tuttavia divenute estranee a Gesù Cristo e al Vangelo. Da questo ascolto dei giovani – esercitato, meditato e nutrito anche da successivi confronti con loro – vorrei porre semplicemente alcune urgenze che il sinodo potrebbe recepire.

Innanzitutto i giovani temono una certa retorica della chiesa nei loro confronti: chiamarli in modo ossessivo “futuro della chiesa” o “sentinelle dell’avvenire”, non è sufficiente per intrigarli. Essi vogliono essere riconosciuti chiesa già oggi, presente della chiesa, porzione del popolo di Dio: vogliono sentirsi soggetti ecclesiali oggi, nella loro condizione giovanile, certo, ma senza sentirsi chiamati solo al domani della chiesa.
Ma occorre anche dire che i giovani non vogliono essere adulati, vezzeggiati dai cristiani adulti: vogliono semplicemente essere presi sul serio, chiedono che sia accolta la loro differenza accettando anche il fatto di non poter sempre essere capiti, anelano che si mostri fiducia in loro, sostenendo la loro ricerca senza avere la pretesa di dirigerla.

Quanto poi a questa loro ricerca, sarà bene tener conto di alcune realtà ormai assodate nella lettura sociologica e nella cosiddetta pastorale giovanile, realtà che non vanno edulcorate o addirittura deformate perché risultano faticose e dolorose. Anche ciò che è critico, che fa male agli adulti nella chiesa, va ascoltato, assunto e non rimosso, in modo da poter essere “pensato” alla ricerca di possibili risposte.
Altre volte ho scritto che ormai per le nuove generazioni “Dio” è una parola indifferente e, in alcuni casi, troppo ambigua. Non solo le immagini di Dio ricevute dalla tradizione sono contestate e appaiono incapaci di interessare i giovani, ma questi pensano di poter vivere bene senza la ricerca di Dio. Sono dunque perse le “antenne della fede”, secondo l’espressione di Armando Matteo? Indubbiamente la ricerca dei giovani è innanzitutto ricerca di sé, ricerca di diventare se stessi, cammino di umanizzazione per vivere una vita sensata e avere un’esistenza “salvata”.

Come rispondere a questa ricerca che forse è l’unica che oggi accomuna i giovani dell’occidente? La tentazione – diffusa, mi rincresce dirlo, anche all’interno della chiesa – è quella di rispondere con un “teismo etico terapeutico”, cioè con un’affermazione nebulosa di Dio dalla quale discende la possibilità di una vita eticamente buona che porta allo star bene con se stessi. Questa purtroppo è la spiritualità dominante anche nella chiesa, e gli occhi accecati non riescono a discernere che così avviene lo svuotamento della fede cristiana. Oggi si cerca di parlare di Dio ai giovani e, per essere efficaci, si ricorre all’immagine di un Dio “energia primordiale” che è a nostra disposizione per una vita segnata da benessere interiore e psichico.

Occorre allora essere vigilanti e consapevoli che per i giovani la parola “Dio” sia diventata ormai estranea e non sostituibile con un “sacro” o un “divino” forgiato da noi e dalle nostre angosce. Sono convinto che questa estraneità del termine Dio sia in realtà una chiamata a essere veramente cristiani, nella pratica di andare a Dio solo attraverso Gesù Cristo: “Nessuno può andare al Padre, Dio, se non attraverso di me!” (cf. Gv 14,6). Urge allora “far vedere” Gesù Cristo ai giovani: così sarà aperta la strada per andare al Padre, a Dio. Oggi o si fa vedere Gesù con azioni, comportamenti, stile, parole oppure si è condannati a rendere la speranza del Vangelo estranea alle nuove generazioni.

I giovani – e posso affermarlo grazie alla mia lunga esperienza – sono sempre sensibili a Gesù Cristo, sono intrigati dalla sua umanità, sono sempre toccati dall’ascolto attento del Vangelo
. Questa è oggi la via da percorrere senza paura: Gesù Cristo è colui che con il Vangelo dà pienezza alla vita umana, è colui che dà la possibilità a un giovane di sentirsi gratificato di esistere come esiste. Gesù Cristo è colui che mette vita nella vita perché è lui il Vangelo, la buona notizia che dà senso alla vita! Gesù Cristo è la “via” per andare a Dio: in questo cammino è dato di riconoscere anche il suo corpo che è la chiesa.
L’auspicio e la preghiera è che al sinodo si abbia la parresia di mettere al centro del confronto sui giovani Gesù Cristo, colui che ci ha tracciato la via perché ci ha insegnato a vivere in questo mondo (cf. Tt 2,12) come esseri umani degni di tale nome e ci ha donato con la sua resurrezione la speranza dell’amore che vince la morte.

mercoledì 28 novembre 2018

SERMIG, Flaminia Morandi: Al posto tuo

 Prega per me! Ti ricordo nelle mie preghiere!, dicono i cristiani gli uni agli altri e a chi non crede, per cercare di toccarli con l’amore che ha toccato loro. Non è una frase indifferente: al contrario, è carica di una potenza soprannaturale di cui forse non è del tutto consapevole chi la pronuncia. 

Pregare per qualcuno è una forma di identificazione, un far proprie le sofferenze degli altri, una sorta di solidarietà nella sofferenza che ha per effetto quasi uno “scambio” mistico. Nei Detti dei Padri del deserto abbondano storie di questo tipo: un monaco pecca, l’altro finge di avere commesso anche lui lo stesso peccato. Fa penitenza per l’altro, fino a liberarlo dal suo peccato ricorrente. Lo scrittore Martin Buber racconta di rabbi Sussja, che sentiva come propri i peccati di chi incontrava: «Sono disceso da tutti i gradini, ho legato la radice della mia anima alla radice della sua», diceva. Prendeva la colpa dell’altro su di sé fino a condannare se stesso. Nel III secolo Niceforo aveva avuto una lunga amicizia con il presbitero Sapricio, che poi era naufragata per un motivo meschino. Nonostante tutti gli sforzi di Niceforo, Sapricio si era sempre rifiutato di far pace. Quando era scoppiata la persecuzione, Sapricio aveva fatto apostasia: Niceforo, l’amico rifiutato, aveva dato la vita al suo posto ed era morto martire per la sua salvezza. 

Questa storia aveva profondamente segnato Mat’ Marija, al secolo Elizaveta Jur’evna Scobkova, un’intellettuale russa fuggita dalla Russia bolscevica. A Parigi, al tempo della furia nazista, aveva fondato un centro di accoglienza salvando numerosi ebrei, fornendo loro documenti falsi, soprattutto certificati di battesimo falsi. Era stata arrestata e deportata a Ravensbruck e lì, il venerdì santo del 1945, si era offerta al posto di una donna a morire nella camera a gas. Senza arrivare al sacrificio estremo della vita per l’altro, come Cristo, il primo martirio di scambio è quello del padre spirituale. San Ioannikos il Grande, IX secolo, aveva tra i figli spirituali una monaca tormentata dal pensiero della lussuria. Un giorno le disse di stendere una mano sul suo collo e pregò fortemente che la tentazione della monaca ricadesse su di lui. E così fu. Noi oggi intendiamo il padre spirituale come uno che elargisce consigli personali da una distanza di sicurezza, ma nella tradizione cristiana non è così: davanti a Dio egli è un anadochos, un garante, uno che prende sulle proprie spalle il carico dell’angoscia e della colpa dei suoi figli spirituali. Uno che si offre a rispondere per loro nel giudizio, uno che li ama come se stesso. Anche noi comuni cristiani, quando diciamo «prego per te», inconsapevolmente ci offriamo a prendere su di noi il dramma dell’altro. Se non lo facessimo, non ci sarebbe Chiesa. 

martedì 27 novembre 2018

La Stampa.it, Vatican insider: Etty Hillesum, la ragazza che trovò Dio durante la Shoah

La storia della giovane ebrea olandese, morta ad Auschwitz 75 anni fa, che scriveva: «una volta che si comincia a camminare con Dio si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata»



«Si vorrebbe esser un balsamo per molte ferite». Con queste parole si conclude il Diario scritto da Etty Hillesum, giovane ebrea olandese che il 7 settembre 1943 fu deportata ad Auschwitz dove morì, secondo un rapporto della Croce Rossa, il 30 novembre 1943, 75 anni fa. Di lei Benedetto XVI, ricordando a tutti che «la grazia di Dio è al lavoro e opera meraviglie nella vita di tante persone», disse: «Inizialmente lontana da Dio […], nella sua vita dispersa e inquieta Etty Hillesum Lo ritrova proprio in mezzo alla grande tragedia del Novecento, la Shoah. Trasfigurata dalla fede, si trasforma in una donna piena di amore e di pace interiore, capace di affermare: “Vivo costantemente in intimità con Dio”».  



Parole per il nostro tempo  

Non ancora conosciuto come meriterebbe, il “Diario” (pubblicato in edizione ridotta e integrale da Adelphi, insieme al volume delle “Lettere”), consente di scoprire un seme di agape che, insieme ad altri, fu impiantato nel grembo insanguinato della storia del Novecento; un seme buono che può accompagnare e sostenere in modo speciale gli uomini e le donne del nostro tempo.  



Come una pattumiera  

Etty Hillesum era nata nel 1914 in Olanda, a Middelburg, in una famiglia ebrea non praticante. Trasferitasi ad Amsterdam, si era laureata in Legge e cominciava a studiare lingue slave e a dare lezioni di russo (la lingua della madre). Era una giovane donna colta, vivace, curiosa. E molto irrequieta. Dotata di grande capacità introspettiva, all’inizio del Diario (nel 1941), si descriveva con queste parole: «Io voglio qualcosa e non so che cosa. Di nuovo mi sento presa da una grandissima irrequietezza e ansia di ricerca, tutto è in tensione nella mia testa. […] Nel profondo di me stessa, io sono come prigioniera di un gomitolo aggrovigliato, e con tutta chiarezza di pensiero, a volte non sono altro che un povero diavolo impaurito. […] A volte mi sento proprio come una pattumiera; sono così torbida, piena di vanità, irrisolutezza, senso di inferiorità. Ma in me c’è anche onestà, e un desiderio appassionato, quasi elementare di chiarezza e di armonia tra esterno e interno».  



La gratitudine  

Intenzionata a mettere ordine nel suo caos interiore, Etty si rivolse a un allievo di Jung – Julius Spier – ebreo, fondatore della psicochirologia (scienza che analizzando le mani studia la persona), con il quale poi visse una relazione sentimentale. Alla morte di quest’uomo, da lei battezzato «l’ostetrico della sua anima», gli dedicò queste parole: «Tu mi hai insegnato a pronunciare con naturalezza il nome di Dio. Sei stato l’intermediario tra Dio e me […]. Ora sarò io l’intermediaria per tutti quelli che potrò raggiungere». La limpida gratitudine verso Spier, espressa in molti passi del Diario, contrasta l’odierna pressione culturale a “farsi da sé senza vincoli né debiti con alcuno” e invita a onorare e ringraziare quanti, ad ogni generazione, insegnano “a pronunciare il nome di Dio” consegnando un tesoro del quale poi ciascuno, a propria volta, ha la responsabilità nei confronti di altri.  



Purché tu mi tenga per mano  

Mentre la guerra infuriava e le condizioni di vita si facevano sempre più drammatiche per gli ebrei olandesi, le pagine del Diario restituiscono il percorso interiore di Etty, il suo volgersi a Dio e la fiducia con cui si abbandona a Lui: «Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi tenga per mano andrò dappertutto allora, e cercherò di non avere paura. E dovunque mi troverò, io cercherò di irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. […] Una volta che si comincia a camminare con Dio si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata». 



L’agape di Dio  

La preghiera, per Etty (lettrice attenta della Bibbia), non si configura come un ripiegamento narcisistico su di sé né come ricerca di una appagante relazione con Dio in cui immergersi ignorando il patire altrui. Sotto questo aspetto la sua esperienza aiuta a individuare la distorsione in cui oggi può incorrere la preghiera: nella nostra epoca, minata da un dilagante narcisismo, la preghiera è esposta al rischio di trasformarsi in una tecnica di autorassicurazione psicologica, una pratica da mettere in atto per raggiungere il benessere, per “stare bene con se stessi” (ormai diventato il diktat ossessionante delle società occidentali). Pregare significava, per Etty, coinvolgersi nella dinamica dell’agape di Dio per tutti i Suoi figli: «Dobbiamo abbandonare le nostre preoccupazioni per pensare agli altri, che amiamo. Voglio dir questo: si deve tenere a disposizione di chiunque si incontri per caso sul nostro sentiero, e che ne abbia bisogno, tutta la forza e l’amore e la fiducia in Dio che abbiamo in noi stessi e che ultimamente stanno crescendo meravigliosamente in me. O l’uno o l’altro: o si pensa solo a se stessi e alla propria conservazione, senza riguardi, o si prendono le distanze da tutti i desideri personali e ci si arrende. Per me, questa resa non si fonda sulla rassegnazione che è un morire, ma si indirizza là dove Dio per avventura mi manda ad aiutare come posso».  



La vita ricca di significato  

Intanto la repressione per gli ebrei olandesi era diventata durissima: i nazisti cominciarono a condurli nel campo di smistamento di Westerbork, ultima tappa prima di Auschwitz. Nel luglio del 1942 Etty iniziò a lavorare in una sezione del Consiglio Ebraico, organizzazione che faceva da cuscinetto tra i nazisti e gli ebrei: poco tempo dopo domandò di essere trasferita a Westerbork per prestare assistenza alle persone in transito, tornando alcune volte ad Amsterdam anche per ragioni di salute. Era chiara in lei la consapevolezza del destino che attendeva il suo popolo: «Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Non darò più fastidio con le mie paure, non sarò amareggiata se altri non capiranno cos’è in gioco per noi ebrei. Continuo a lavorare con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato». Le pagine del Diario ripetutamente restituiscono la celebrazione della vita: «Di minuto in minuto desideri, necessità, legami si staccano da me, sono pronta a tutto, a ogni luogo di questa terra nel quale Dio mi manderà. Sono pronta a ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella». 



Aprire la via a Dio  

Nel luglio del 1943 i nazisti stabilirono che la metà dei membri del Consiglio Ebraico presenti nel campo rientrasse ad Amsterdam, mentre l’altra metà avrebbe dovuto restare senza poter più uscire. Etty, che pure avrebbe potuto cercare salvezza nascondendosi, scelse di restare. Voleva prendersi cura di quella umanità dolente e spaventata: «Quanto sono grandi le necessità delle tue creature terrestri, Dio mio. Ti ringrazio perché lasci che tante persone vengano a me con le loro pene: parlano tranquille e senza sospetti e d’un tratto vien fuori tutta la loro pena e si scopre una povera creatura disperata che non sa come vivere. E a quel punto cominciano i miei problemi. Non basta predicarti, mio Dio, non basta disseppellirti dai cuori altrui. Bisogna aprirti la via, mio Dio, e per far questo bisogna essere un gran conoscitore dell’animo umano. I miei strumenti per aprirti la strada negli altri sono ancora ben limitati. Ma esistono già, in qualche misura: li migliorerò pian piano e con molta pazienza».  



Ogni atomo di odio  

In un tempo come il nostro – nel quale toni ringhiosi e parole di odio paiono diffondersi come un virus malefico – Etty sostiene e incoraggia quella moltitudine immensa di uomini e donne che anche oggi – ovunque sulla terra – con letizia, e non senza molti sacrifici, seminano quotidiane opere di agape: quelle infinite forme della custodia, dell’accudimento, della dedizione che tengono in piedi il mondo e che sono incanti quotidiani: mediaticamente invisibili, esistenzialmente decisivi. Annotava Etty: «L’assenza di odio non significa di per sé assenza di un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più corta e a buon mercato? Laggiù (a Westerbork) ho potuto toccare con mano come a ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo si renda ancora più inospitale. E credo anche, forse ingenuamente ma ostinatamente, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto».  



Sino all’ultimo respiro  

Mostrando la convinzione che l’umanità formi una catena i cui anelli sono saldati gli uni agli altri, Etty pensava anche a quanti sarebbero venuti dopo di lei e scriveva: «Ho il dovere di vivere nel modo migliore e con la massima convinzione, sino all’ultimo respiro: allora il mio successore non dovrà più ricominciare tutto da capo, e con tanta fatica». Tutti gli esseri umani nascono “in debito” con altri e sono destinati a vivere “in favore” di altri: nel Diario di Etty questa verità granitica dell’umano risplende.  

giovedì 22 novembre 2018

Il Libraio.it; Alberto Maggi: L’ingordigia dei ricchi e i peccati commessi in nome del denaro

"Chi, per manovre economiche, per fare negoziati non del tutto chiari, chiude fabbriche, chiude imprese e toglie il lavoro agli uomini, fa un peccato gravissimo". Parte da queste parole di Papa Francesco la riflessione di frate Alberto Maggi su ilLibraio.it: "La sapienza biblica ha individuato nell’ingordigia, la bramosia di possedere, l’origine e la causa di ogni ingiustizia e di ogni male..."

SEPOLCRI D’INGORDIGIA

La sapienza biblica ha individuato nell’ingordigia, la bramosia di possedere, l’origine e la causa di ogni ingiustizia e di ogni male. Alla base di ogni inganno, di ogni ruberia, di ogni sopruso e violenza, di ogni tragedia e di ogni lutto, c’è sempre e soltanto il dèmone della cupidigia. Vera e propria malattia dell’animo, l’avidità trasforma l’uomo in un essere bulimico, insaziabile, insoddisfatto, che più ha e più vuol avere, rendendolo un pericolo per sé e per gli altri, perché la ricerca senza freni di possedere sempre più, porta all’assassinio e i popoli alla guerra, come denuncia Giacomo nella sua lettera: “Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!” (Gc 4,2).

Già nei libri dell’Antico Testamento si manifesta l’avversione del Dio d’Israele verso la cupidigia che deturpa l’essere umano e la stessa creazione. L’uomo, che il Creatore ha voluto come sua immagine (Gen 1,27), abbandonandosi a ogni bramosia, ha sfigurato se stesso. Chiamato a essere il custode del giardino di Eden (Gen 2,16), lo ha devastato a causa della sua avidità, trasformando quel che doveva essere un giardino in un cimitero (“Quel luogo fu chiamato Kibrot Taavà [sepolcri dell’ingordigia], perché là seppellirono il popolo che si era abbandonato all’ingordigia”, Nm 11,34).

Secondo il Libro del Siracide, “Per amore del denaro molti peccano” (Sir 27,1). Il peccato non è un’offesa a Dio, ma l’inganno al prossimo. Chi accumula beni pensa di trovare nei suoi averi la tranquillità, la sicurezza, e di dormire sonni tranquilli. In realtà più si ha e più cresce l’ansia, più si possiede e meno si è sicuri, come tratteggia, in modo efficace, l’autore del Siracide: “L’insonnia del ricco consuma il corpo, i suoi affanni gli tolgono il sonno. Le preoccupazioni dell’insonnia non lasciano dormire, come una grave malattia bandiscono il sonno” (Sir 31,1-2)

Quest’ansia di possedere sempre più, che porta alla distruzione dell’individuo, fu personificata nel mondo ebraico in una sorta di divinità, mamona, termine la cui radice significa quel che è certo e stabile, e indica la ricchezza, il patrimonio. Mamona è l’idolo che inganna e poi distrugge quanti lo adorano (“Niente è più empio dell’uomo che ama il denaro, perché egli si vende anche l’anima… Molti sono andati in rovina a causa dell’oro, e la loro rovina era davanti a loro. È una trappola per quanti ne sono infatuati, e ogni insensato vi resta preso”, Sir 10,8; 31, 6-7).

Mentre i rabbini distinguevano tra la mamona menzognera e quella verace, per Gesù la ricchezza è sempre disonesta, acquisita in maniera ingiusta. È significativo a questo riguardo che Gesù, rispondendo al ricco, che gli chiedeva quali comandamenti osservare per ottenere la vita eterna, omette i primi tre, gli obblighi verso Dio, che erano i più importanti, ed esclusivi di Israele, e gli elenca cinque comandamenti che sono validi per ogni uomo, ebreo o pagano, credente o no, e che riguardano basilari atteggiamenti di giustizia nei confronti del prossimo (“Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora tuo padre e tua madre”, Mc 10,25). Ma tra i cinque comandamenti elencati, Gesù, con abile mossa, inserisce anche “Non frodare”, richiamandosi a un precetto contenuto nel Libro del Deuteronomio: “Non defrauderai il salariato povero e bisognoso… Gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e a quello aspira” (Dt 24,14-15; Lv 19,13). Gesù è esplicito: il suo interlocutore è ricco e, se è ricco, certamente alla base delle sue ricchezze c’è stato l’inganno, la frode a scapito dei poveri, da sempre “pascolo dei ricchi” (Sir 13,19). In tutta la Bibbia emerge il severo rimprovero del Signore verso quanti si arricchiscono sfruttando i lavoratori: “Guai a chi costruisce la sua casa senza giustizia e i suoi piani superiori senza equità, fa lavorare il prossimo per niente, senza dargli il salario” (Ger 22,13). “Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente” (Gc 5,4).

Il Nuovo Testamento mette in guardia da “quella cupidigia che è idolatria” (Col 3,5; Ef 5,5), perché i beni accumulati sono sporchi, non trasmettono vita, ma intossicano, chiudono il cuore al prossimo e quindi a Dio stesso, e Gesù avverte: “Badate di tenervi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni” (Lc 12,15). Questo di Gesù non è un invito, ma un comando imperativo. Chi accumula beni per sé mostra di non avere nulla a che fare con il Signore; non Dio è la sua divinità ma mamona: “Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3,17). E Gesù ridicolizza il ricco, che pianificava il suo futuro basando la sua tranquillità sull’accumulo dei beni, e pensava “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni, riposati, mangia, bevi e divertiti”. Il Signore non solo non loda il ricco per la sua accortezza, ma lo biasima: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio” (Lc 12,19-21; Sal 39,7). L’avido ricco credeva di essere accorto, astuto, era soltanto uno stupido, perché è “come una pernice che cova uova altrui, chi accumula ricchezze in modo disonesto. A metà dei suoi giorni dovrò lasciarle e alla fine apparirà uno stolto” (Ger 17,11).

Per Gesù la serenità non viene da quanto si possiede, ma da quanto si è capaci di donare, quando si fa, scompare ogni forma di ansia e di preoccupazione, perché si sperimenta che, se si vive per il bene e il benessere altrui, si permette al Padre di occuparsi dei suoi figli in misura molto più grande del bisogno (Lc 12,22-31).

domenica 18 novembre 2018

Enzo Bianchi: perché cambia il Padre nostro

Perché cambia il Padre nostro
di Enzo Bianchi
in “la Repubblica”
del 16 novembre 2018

Sono ormai passati quasi cinquant’anni dalla traduzione ufficiale in italiano del Messale romano, riformato da Paolo VI in obbedienza al concilio Vaticano II: un tempo molto lungo per una lingua viva come l’italiano.
Occorreva dunque una nuova traduzione, una revisione dei testi liturgici e la Conferenza episcopale italiana ha approvato ieri il lungo lavoro svolto da vescovi ed esperti a partire dal 2002.
In realtà non ci sono grandi novità: più che "nuova" potremmo definire questa edizione come "riveduta"; eppure, di fronte a questo aggiornamento si sono subito levate voci pretestuose: "Ci cambiano la messa, ci cambiano il Padre nostro, ci cambiano il Gloria...". Infatti, per i cattolici che frequentano la messa domenicale, risulteranno evidenti solo due espressioni, il cui cambiamento si è reso necessario per facilitare una comprensione più aderente al testo del Vangelo che contengono.
Era certo bella e piena di significato l’espressione "pace in terra agli uomini di buona volontà", che traduceva letteralmente il latino della Vulgata, ma non l’originale greco del Vangelo di Luca. A molti questa locuzione indicava che Dio ama gli uomini oltre le frontiere cristiane, ama anche quelli che, pur senza la fede, hanno la bontà nel loro cuore e cercano di realizzarla. In questo senso la usò pure papa Giovanni XXIII, indirizzando alcuni suoi scritti, a cominciare dalla Pacem in terris, non solo alle persone di chiesa ma anche, appunto, "a tutti gli uomini di buona volontà". Tuttavia l’espressione ora adottata — "pace agli uomini amati dal Signore" — ( nel greco "pace agli uomini che egli ama") non esclude nessuno, ma afferma che Dio ama tutta l’umanità. La nuova traduzione della Bibbia pubblicata dalla Cei nel 2008 l’aveva già adottata, così come nella versione di Matteo del Padre nostro era apparsa allora l’altra espressione innovativa: "non abbandonarci alla tentazione".
Questa traduzione è una delle possibili, non la sola: tradurre a volte può sconfinare nel tradire, ma è un rischio che va assunto con consapevolezza. Infatti, la traduzione che tutti i cristiani usavano da decenni, molto fedele al testo latino, suonava "non ci indurre in tentazione" e rischiava di dare un’immagine perversa di Dio, quasi che Dio possa essere l’autore della tentazione. Dio invece non ci tenta e non può tentare nessuno al male, come afferma l’apostolo Giacomo nella sua lettera (Gc 1,13-15). Come comprendere allora questa richiesta rivolta al Padre? Non è facile tradurre un’espressione greca che forse trova ispirazione in un salmo in aramaico ritrovato a Qumran, dove il fedele prega: "Fa’ che non entri in situazioni troppo difficili per me!". Il termine greco (peirasmos) indica "prova" oppure "tentazione"? E il verbo "non farci entrare" ( nella prova o nella tentazione), essendo in forma causativa, non significa forse "fa’ che non entriamo in tentazione"? I vescovi francesi, nella traduzione adottata alcuni anni or sono, hanno scelto di cambiare il precedente "non sottometterci alla tentazione" con " non lasciarci entrare in tentazione". La scelta per la nostra lingua poteva essere: "non abbandonarci nella tentazione", oppure "non abbandonarci alla tentazione", ma anche "non lasciarci cadere in tentazione" (come scelto dalla traduzione spagnola).
In ogni caso, questo nuovo tentativo di traduzione era necessario affinché nessuno oggi fosse indotto a pensare che Dio ci tenta al male, al peccato: sarebbe una bestemmia! Dio ci può sottoporre alla prova per saggiare e discernere il nostro cuore, ma mai alla tentazione. D’altronde già sant’Ambrogio di Milano nel IV secolo commentava così: "Non permettere che siamo condotti nella tentazione da colui che tenta più di quanto possiamo sopportare; non si dica quindi non ci indurre in tentazione", vietando così di attribuire a Dio la responsabilità delle nostre tentazioni.
Va comunque ricordato che la comprensione della liturgia e del suo linguaggio è una sfida incessante: si tratta di veicolare un messaggio in modo fedele all’intento originale e, al contempo, comprensibile dal destinatario concreto.

Prof. Luigi Santopaolo: settimana biblica parrocchia San Giacomo Ap. in Calvizzano

Settimana biblica sul Vg. di Luca, presso la parrocchia S. Giacomo Apostolo in Calvizzano Napoli.

Relatore Prof. Luigi Santopaolo

Giorno 5


https://www.facebook.com/ParrocchiaSanGiacomoApostoloCalvizzanoNa/videos/351621138945440/

Prof Luigi Santopaolo: settimana biblica parrocchia San Giacomo Ap. in Calvizzano

Settimana biblica sul Vg. di Luca, presso la parrocchia S. Giacomo Apostolo in Calvizzano Napoli.

Relatore Prof. Luigi Santopaolo

Giorno 4

https://www.facebook.com/ParrocchiaSanGiacomoApostoloCalvizzanoNa/videos/471252103398323/

Prof Luigi Santopaolo: settimana biblica parrocchia San Giacomo Ap in Calvizzano

Settimana biblica sul Vg. di Luca, presso la parrocchia S. Giacomo Apostolo in Calvizzano Napoli.

Relatore Prof. Luigi Santopaolo

Giorno 3

https://www.facebook.com/ParrocchiaSanGiacomoApostoloCalvizzanoNa/videos/542321122906603/

Prof. Luigi Santopaolo: settimana biblica parrocchia San Giacomo Ap. Calvizzano

Settimana biblica sul Vg. di Luca, presso la parrocchia S. Giacomo Apostolo in Calvizzano Napoli.

Relatore Prof. Luigi Santopaolo

Giorno 2

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Prof. Luigi Santopaolo: settimana biblica parrocchia S. Giacomo in Calvizzano (NA)

Settimana biblica sul Vg. di Luca, presso la parrocchia S. Giacomo Apostolo in Calvizzano Napoli.
Relatore Prof. Luigi Santopaolo
Giorno 1

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giovedì 15 novembre 2018

Vivere la corporeità e la sessualità – Luciano Manicardi

CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA – UFFICIO CATECHISTICO NAZIONALE
Convegno nazionale dei Direttori degli Uffici Catechistici Diocesani
“LA GLORIA DI DIO È L’UOMO VIVENTE”
VIVERE LA CORPOREITÀ E LA SESSUALITÀ

Luciano Manicardi, monaco di Bose

Ho scelto di articolare il mio intervento che abbraccia un tema così delicato e vasto in dodici punti. I primi cinque sono generali e fondativi, riguardano cioè la visione del corpo e della sessualità, mentre gli altri sette trattano più direttamente del “vivere la corporeità e la sessualità”.

1. Maschile e femminile
Vivere corporeità e sessualità: sì, ma, quale corpo? Quale sessualità? Corpo maschile o femminile? Sessualità maschile o femminile? Il discorso su corpo e sessualità, in ambito ecclesiale, è pressoché esclusivamente un discorso al maschile. E pure in questa sede lo è, dove a parlare di questo tema vi è un maschio, per di più celibe, che parla a una maggioranza di maschi, per lo più anch’essi celibi, perché preti e religiosi. Eppure il corpo e la sessualità femminile rappresentano la metà dell’umanità. Sarebbe necessario quindi, almeno un discorso a due voci, anche sul piano catechetico. Al tempo stesso, la differenza di genere è seconda rispetto al primato e all’unità dell’umano. Umano che si esprime nella relazionalità e che trova nell’espressione sessuale uomo- donna un momento di vertice. L’immagine e somiglianza di Dio che l’uomo è si manifesta nell’umano inteso come dono (immagine) e responsabilità (somiglianza) e si realizza nella relazionalità, che sta a fondamento della struttura più profonda dell’umano. Quindi, dire corporeità e sessualità è dire primato dell’umano e della relazionalità.

2. Il corpo come compito
Vivere la condizione umana è vivere la corporeità1. Nell’economia cristiana, a prescindere dai retaggi dualistici provenienti da platonismo e neoplatonismo, dallo gnosticismo e dal manicheismo, e che hanno segnato l’immagine del corpo e della sessualità e anche il discorso su queste realtà, il corpo non è un fastidioso fardello, ma responsabilità che personalizza. Goivanni Paolo II ha affermato con forza: “Il Creatore ha assegnato all’uomo come compito il corpo”. Al cristiano è chiesto di divenire il proprio volto, che è l’elemento più personalizzante del corpo, realizzando quell’unicità personale voluta e creata da Dio, e tutto ciò in riferimento all’uomo compiuto, Gesù di Nazaret. Quel Gesù che ha rivelato Dio in un corpo. L’autore della Lettera agli Ebrei pone in bocca a Cristo che entra neo mondo queste parole rivolte a Dio: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: ‘Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà'” (Eb 10,5-7). Da queste parole emerge che dietro al corpo di Cristo c’è il “tu” di Dio: “Tu mi hai preparato un corpo” (Sal 40,7LXX; Eb 10,5). Non solo il corpo, in questa prospettiva, non opacizza lo spirituale e il divino, ma è esso stesso rimando di trascendenza, trasparenza del “tu” di Dio. Penso che si possa esprimere questa verità fondamentale nei termini seguenti: il corpo che noi siamo, ma che non viene da noi, è la nostra in-scrizione originaria nel senso della vita. Ovvero: ciò che è più inalienabilmente mio non viene da me e mi rinvia ad altri da me. Cogliere il corpo come dono significa interpretare la vita come dono, dunque predisporsi a dare senso alla vita facendone a nostra volta un dono. Andando oltre ogni economia sacrificale Cristo ha operato la salvezza facendo del suo corpo un’offerta, un dono: questa salvezza non rinvia a una logica della prestazione ma a quella della gratuità. In breve, nel corpo che mi accomuna a ogni uomo e al tempo stesso mi personalizza, proprio lì è incisa la mia unicità, la mia irripetibilità, ma anche la mia chiamata a esistere con gli altri, grazie agli altri e per gli altri: il corpo è appello e memoriale della vocazione di ogni uomo alla libertà e alla responsabilità. Il volto, in greco prósopon, è ciò che davanti allo sguardo di un altro. Ciò che è più inalienabilmente mio è anche ciò che mi rinvia ad altri da me. Io sono visto da altro. Così come il mio nome, che è chiamato da altri, anch’esso rinvia ad altri da me. Io non sono senza gli altri. Il volto, afferma Paul Ricoeur, è l’unica e vera icona della trascendenza nel mondo.

3. Il corpo, soggetto della vita spirituale
Un difetto della spiritualità cristiana è stato quello di avere troppo spesso opposto ascolto e visione, e più radicalmente ancora, sensi e spirito. La vita spirituale si è troppo nutrita di polarità presto divenute antitesi inconciliabili: interiore – esteriore, io interiore – io esteriore, sensibilità – interiorità, spirito – materia, ascolto – visione, corpo – anima, ecc. Il rischio è quello di contrapporre e separare ciò che Dio ha unito, di non cogliere la complementarietà, l’intrinsecità, la fondamentale unità di quelle dimensioni, e di pervenire così a formulare spiritualità infedeli alla rivelazione biblica e anche nevrotiche e nevrotizzanti. Biblicamente, l’ascolto, che è il senso privilegiato della fede, tende a inscrivere nel corpo, cioè nell’uomo intero e in tutte le sue relazioni, la parola divina. Questa è la logica dello shemac Israel (cf. Dt 6,4-9) per cui i comandi di Dio devono stare non solo fissi nel cuore, ma anche legati alla mano, appesi come pendaglio fra gli occhi, scritti sugli stipiti delle porte, ripetuti ai figli, proclamati in casa e lungo la strada, al momento di coricarsi e al momento di alzarsi … Questa logica si oppone a ogni separazione fra interiorità e sensibilità e cerca di raggiungere l’uomo in quanto tale, nella sua corporeità come in tutti gli ambiti del suo vivere: famigliare, sociale, politico. Il cristianesimo poi, con l’incarnazione, rivela che il corpo umano è il luogo più degno di dimora di Dio nel mondo e afferma di fatto la connivenza profonda tra il sensibile e lo spirituale, tra i sensi e lo spirito, tra il corpo dell’uomo e lo Spirito di Dio. Dio è narrato dall’umanità di Gesù di Nazaret. Così la rivelazione biblica non mette in contrapposizione i sensi e lo spirito, ma afferma l’essenzialità dei sensi per l’esperienza spirituale. Di contro a questo troviamo nella tradizione cristiana, soprattutto nelle sue espressioni “mistiche”, una spiritualità dell’interiorità che si oppone radicalmente al piano della sensibilità. Perché invece non prendere sul serio quell’affermazione dell'”antropologia biblica unitaria” che rischia di ridursi a slogan tanto ripetuto quanto disatteso? Perché non pensare che fra interiorità e sensibilità non vi è opposizione, ma scambio e interazione in cui l’una dimensione prega l’altra di donarle ciò che non è capace di darsi da sé? È attraverso i sensi che il mondo fa esperienza di noi ed è attraverso i sensi che noi facciamo esperienza del mondo. Possiamo dire che vi è un infinito mistero in ogni senso nella sua materialità: nella vista, nel tatto, nell’olfatto, nel gusto, nell’udito. Mistero afferente all’alterità che dall’esteriorità e tramite i sensi giunge a noi, ci ferisce, ci inabita. I sensi hanno dunque a che fare con il senso: lì si cela la loro attitudine intrinsecamente spirituale. Noi entriamo nel senso della vita attraverso i sensi. Il senso del mondo non è estraneo ai sensi attraverso cui il mondo stesso viene colto ed esperito da noi: il significato di un fenomeno – ci dicono i fenomenologi – è inseparabile dall’accesso che vi conduce. Il corpo ci ricorda l’evento e la realtà “spiritualissima” per cui ciò che noi siamo sta nello spazio di una relazione, è dono. Noi siamo dialogo, ci dice il nostro corpo. Il corpo è la nostra obbedienza originaria e il nostro compito fondamentale. Il corpo è appello e chiamata, in esso è insita una parola, una vocazione. Il corpo è apertura allo spirito: nulla di ciò che è spirituale avviene se non nel corpo. I Salmi sono la migliore espressione della preghiera della sensibilità. “Il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il Salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario, perché l’anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di ‘mormorio’, ‘sussurro’. Il corpo è il luogo dell’anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: ‘Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore?’ (Sal 35,10)” (Paul Beauchamp). Pregare, per il Salmista, è anche dire il proprio corpo davanti a Dio. Pregare i Salmi, per noi, è anche fare memoria che la vita spirituale non è un’altra vita, ma questa vita, questa unica vita che è la nostra, questa vita del corpo che noi siamo, questa vita vissuta sulle tracce dell’umanità di Gesù che ci umanizza, che ci insegna a vivere (Tt 2,12). Certo, i sensi devono essere risvegliati, destati, purificati, perché sono sempre a rischio di idolatria: la vista dovrà sempre restare aperta all’invisibile, l’ascolto dovrà sempre stare al cospetto del non detto e dell’ineffabile … Ma i sensi nella loro materialità sono ciò che ci mantiene aperti all’alterità mantenendoci aperti all’esteriorità. È attraverso l’esteriorità e l’alterità cui i sensi ci danno accesso che noi non ci rinchiudiamo in una spiritualità intimista, individualista e di mera interiorità. I sensi sono la via sensibile all’alterità. Certo, essi possono chiudersi e intontirsi: la Bibbia (e Gesù stesso) parla di occhi che guardano ma non vedono, di orecchi che non ascoltano, di cuore indurito, ecc. Per svolgere la loro funzione spirituale, i sensi devono essere tenuti vivi attraverso l’attenzione e la vigilanza. Allora essi saranno la memoria del carattere spirituale del corpo e della santità della carne. Come scrive Ildegarda di Bingen: “L’anima sostiene la carne e la carne sostiene l’anima. Così ogni opera è compiuta per mezzo dell’anima e della carne”.

4. La pratica corporea di Gesù
Un utile esercizio è quello di leggere i vangeli cercando di cogliere la pratica sensoriale e corporea di Gesù. Come Gesù vive la corporeità?Anzitutto i vangeli ci pongono di fronte alla storia del corpo di Gesù, al suo divenire umano che è anche un divenire corporeo. Il suo crescere “in sapienza, età e grazia” (Lc 2,52) è anche un crescere fisicamente e un divenire, un mutare nel proprio corpo. Gesù è anzitutto feto nel grembo materno, poi carne di neonato, di bambino, quindi corpo che segue tutte le tappe della crescita corporea e psichica e diviene il corpo adulto di Gesù relazionato con amici e discepoli, con uomini e donne, con folle e avversari, fino a divenire il corpo vilipeso, torturato e messo a morte, quindi corpo cadaverico sepolto, nell’attesa della vivificazione dello Spirito che lo risusciterà quale corpo del Risorto vivente per sempre. La corporeità di Gesù è anzitutto movimento di chi molto cammina e si sposta a piedi sulle contrade della Galilea e non solo. È la sensibilità tattile che lo porta a toccare con le sue mani persone lebbrose e malate, a compiere gesti terapeutici ponendo le dita negli orecchi e toccando con la saliva la lingua di un sordomuto (cf. Mc 7,33), a imporre le mani a persone per benedirle. È la tenerezza con cui abbraccia dei piccoli, dei bambini. È l’ascolto corporeo che egli sa mettere in atto quando sente, in mezzo a una folla che lo preme da ogni parte, il tocco intenzionale e supplice di una donna e recepisce nel suo corpo il messaggio corporeo di tale donna: se “la donna conobbe nel suo corpo che era stata guarita”, Gesù “conobbe in se stesso” che da lui era uscita un’energia, una forza (Mc 5,29.30): da parte della donna un’intelligenza corporea, da parte di Gesù una percezione interiore. Cogliamo qui la dimensione conoscitiva del corpo, l’intelligenza corporea, e, in particolare, della pelle, del toccare. È la libertà con cui Gesù lascia che una prostituta, dunque una donna socialmente reprensibile per un comportamento sessuale, lo avvicini, lo tocchi, manifesti una intimità sentita come scandalosa e inaccettabile da Simone il fariseo, colui che l’aveva invitato a mangiare a casa sua (Lc 7,36-50). E, in quella circostanza, Gesù sa vedere l’amore là dove gli uomini religiosi che sedevano a tavola con lui sapevano vedere solo il peccato. È il gusto e la capacità di parola e di conversazione con cui vive i tanti momenti di convivialità con peccatori e pubblicani: la comunione di tavola è più che mai corporea. E, proprio perché corporea, è anche particolarmente intensa e vitale. Attraverso la convivialità di corpi che mangiano insieme, Gesù narra la comunione di Dio con gli uomini. È ancora l’intensità comunicativa del suo sguardo che comunica simpatia e amore, che giudica e rimprovera. Insomma, la narrazione che Gesù compie di Dio è una narrazione corporea. Mentre Gesù non dice praticamente nulla, nella sua predicazione, circa la sessualità. Ricorda certo di guardarsi e stare lontano della concupiscenza, dalla brama di possesso, ma non dice nulla, per esempio, sulla masturbazione o sull’omosessualità. E anche questo silenzio dovrebbe interrogare noi e la nostra catechesi.

5. Il corpo e il cristianesimo
Nell’antichità cristiana un grande critico del cristianesimo, Celso, poteva definire con disprezzo i cristiani ghenos philosomaton, “gente che ama il corpo”, “genìa amante del corpo”2; oggi i critici del cristianesimo usano argomenti contrari e parlano piuttosto di disprezzo del corpo, di mortificazione del corpo da parte della tradizione cristiana: si può pensare alle critiche rivolte da Nietzsche a quello che lui chiamava l’ideale ascetico, o, alle più recenti (e grossolane) critiche di Michel Onfray da cui cito questo passaggio tratto dal suo libro Teoria del corpo amoroso. “(Nel cristianesimo) si teologizza la questione dell’amore per spostarla su un terreno spiritualistico, religioso, si condanna Eros a vantaggio di Agape, si fustigano i corpi, li si maltratta, li si detesta, li si punisce, li si ferisce e martirizza con il cilicio, si infligge loro la disciplina, la mortificazione e la penitenza. Si inventa la castità, la verginità e, in mancanza di queste, li matrimonio, sinistra macchina per fabbricare angeli”3. Le critiche, beninteso, non nascono dal niente, ma è anche vero che per intendere con onestà l’intento fondamentale del cristianesimo sul corpo occorre riandare ai testi fondatori, dunque essenzialmente alla Scrittura, e poi, eventualmente vedere ciò che ha portato a distorsioni così clamorose della bontà e santità del corpo da dar adito a critiche così impietose. A me sembra che, in estrema sintesi, si possa dire che il cristianesimo non sia colpevole di aver rifiutato la sessualità, ma forse di aver cercato con tutti i mezzi, anche repressivi, di dirne il senso etico. In ogni caso, sempre vi sono stati uomini che all’interno del cristianesimo hanno saputo affermare il valore relazionale e non meramente riproduttivo dell’unione carnale: “Quelli che si uniscono carnalmente costruiscono un’anima e un cuore solo e accrescono la loro pietà mediante la loro reciproca donazione amorosa”4.

Nel cristianesimo il corpo non è solo redento, ma soprattutto “soggetto” della redenzione, come ricorda la celebre affermazione di Tertulliano per cui il cardine della salvezza è la carne: caro cardo salutis. Sempre sul corpo si gioca la novità cristiana rispetto al mondo pagano: “Non ci accorgiamo che ci volgiamo indietro quando sentiamo che l’anima è immortale, ma il corpo è corruttibile e non può rivivere più? Questo le sentivamo anche da Pitagora e da Platone” (Pseudo- Giustino, Sulla resurrezione, II sec. d. C.). Il corpo è la cifra che da sola è capace di dare intelligibilità all’intero messaggio cristiano. Possiamo ripetere le parole di Adolphe Gesché: “Nel cristianesimo tutto ruota attorno al corpo. Dal Verbo che si fece carne del prologo del IV vangelo all’eucaristia; dalle guarigioni di Gesù al corpo che è la chiesa; dalla creazione alla resurrezione e all’escatologia. Il tema della corporeità, come interpretata dalle scritture cristiane, potrebbe bastare a dare intelligibilità a tutto il messaggio cristiano. Il cristianesimo sarebbe un trattato e una pratica del corpo. Dopo il Nuovo Testamento non è possibile parlare di Dio né dell’uomo né di morale né di vita eterna senza parlare ogni volta del corpo. Così, tutto si dice e avviene, per così dire, sub ductu corporis, sotto la guida del corpo”.

Ora, desacralizzazione (il corpo non idolatrato, non assolutizzato), valorizzazione (il corpo è il soggetto della vita spirituale, è spirituale nella sua stessa materialità), personalizzazione (il corpo è la persona e le relazioni che la persona vive), questi gli elementi che la tradizione biblica e cristiana in specie hanno dato al corpo. Non stupirà, alla luce di tutto ciò l’affermazione della divino umanità di Gesù Cristo, il fatto che in lui abita corporalmente la pienezza della divinità.

6. Accettare il proprio corpo
Vivere la corporeità implica il movimento di fondo di dire di sì al proprio corpo, di accettarlo. Si tratta di una obbedienza creaturale: accettare un corpo sgraziato, brutto, che non piace, o un corpo con malformazioni, un corpo malato … Le immagini del corpo diffuse nella società soprattutto attraverso la pubblicità e l’imperativo della moda non solo non aiutano il lavoro già faticoso di accettazione del proprio corpo, ma anzi creano una cultura dello scarto anche sul piano del corpo. Si pensi a quanti drammi vengono vissuti soprattutto da ragazzine nel periodo adolescenziale. Ora, l’esperienza del corpo è esperienza di una ambivalenza. Noi abbiamo un corpo, ma spesso la nostra sensazione è che sia il corpo che ha noi, che ci tiene in ostaggio. Il corpo a volte le percepiamo come li luogo da cui non riusciamo a fuggire, il nostro irrimediabile compagno, il piccolo frammento di spazio con cui, letteralmente, facciamo corpo, senza scampo. Un bel passaggio di uno scritto di Michel Foucault esprime bene questa sensazione. “Ogni mattina stessa presenza, stessa ferita, davanti ai miei occhi si disegna l’inevitabile immagine imposta dallo specchio: viso magro, spalle curve, sguardo miope, niente capelli, decisamente non bello. Ed è in questo brutto guscio, in questa gabbia che non mi piace, che dovrò uscire e andare in giro: attraverso questa griglia bisognerà parlare, guardare, essere guardato: sotto questa pelle, marcire. Il mio corpo è il luogo senza appello a cui sono condannato”5. Al tempo stesso però, in realtà, noi siamo anche il nostro corpo. E il nostro corpo è il luogo del sogno e del desiderio. Dunque, certo, esso è luogo a cui non si sfugge, ma grazie a esso noi ci spostiamo in ogni luogo, possiamo andare ovunque, raggiungere ogni altrove. Se esso è luogo, topía, irrimediabile, esso è anche nucleo originario di ogni utopia. Il corpo è il punto zero del mondo, dove i percorsi e gli spazi si incrociano. In profondità, il corpo non è da nessuna parte, o meglio, è nel cuore del mondo e costituisce il piccolo nocciolo utopico a partire dal quale ciascuno di noi sogna e immagine, desidera e crea, percepisce la cose al loro posto e insieme le nega con il potere indefinito delle utopie che immagina. Ora, l’ambivalenza del corpo, la sua bellezza, la sua maestà e la sua bruttezza, la sua miseria, sono anche l’ambivalenza della sessualità: luogo di gioia e di esultanza, di godimento dei sensi e di gaudio dell’anima, ma anche luogo di angoscia e di paure, di fatica e di pena, di sofferenza e di pianto. Se ci volgiamo alle immagini che oggi la società veicola a proposito del corpo, ci troviamo stretti tra, da un lato, esaltazione, idolatria, sublimazione, esibizione e, dall’altro lato, disprezzo e rimozione: esaltazione dell’immagine di un corpo giovanile, sempre sano, desiderabile, seducente, e rimozione del corpo sofferente, malato, morente. Oggi si privilegia l’immagine del corpo, ma dobbiamo chiederci se siamo ancora capaci di coglierne la simbolicità. L’impressione è che il corpo oggi invadentemente esibito nella sua bellezza patinata, sia in realtà un corpo zittito, non eloquente, senza profondità, omologato a canoni estetici alla moda, parcellizzato, anatomizzato, un corpo che è pura esteriorità, in fin dei conti neutralizzato e banalizzato. Ma soprattutto è nei nostri vissuti personali che emergono i segni della difficoltà ad accettare e a vivere il corpo, delle patologie e delle deviazioni nel rapporto con il corpo nostro e degli altri, delle difficoltà a entrare in consonanza con il corpo, difficoltà che si riverberano anche sui piani della relazione con gli altri, dell’assunzione della realtà, del rapporto con Dio. Se il corpo (come sottolinea la concezione biblica) è il crocevia delle relazioni del singolo con gli altri, con la società, con il creato e con Dio stesso, ciò ha una ricaduta precisa sull’esistenza di ciascun uomo: dovremmo cioè ricordare che noi siamo anche la storia del nostro corpo, a partire dalla sua origine, la condizione fetale. La nostra storia personale non data semplicemente dal giorno in cui siamo “venuti alla luce”, in cui siamo stati partoriti, ma risale al concepimento e ai mesi di vita intrauterina. Il corpo è portatore di una sua memoria profonda: esso conserva tracce invisibili ma realissime di ciò che l’uomo ha vissuto, provato e sofferto. Per accettare questa eredità che il nostro corpo ha in servo per noi, occorre però ascoltare il nostro corpo.

7. Ascoltare il proprio corpo, ascoltare le emozioni
La nostra memoria corporea viene fatta emergere e “portata a superficie” dalle esperienze che ciascuno vive: il corpo, infatti, è il libro del tempo, il libro su cui restano registrate emozioni, sofferenze ed esperienze di un passato che non è tanto dietro a noi, quanto piuttosto dentro di noi. Per esempio, le posture del nostro corpo non sono innocenti, ma sono il frutto di una storia, sono rivelazione ed eloquenza del nostro passato, di chi noi siamo, di ciò che abbiamo vissuto e, eventualmente, subito. Il nostro corpo porta inscritte in sé la memoria della nostra origine, del grembo da cui proveniamo. Posture e gestualità del nostro corpo, il modo con cui lo trasciniamo o lo portiamo ben eretto, il nostro essere incurvati o ciondolanti, il modo di camminare, le rigidità, sono un linguaggio che riflette il nostro psichismo e i nostri vissuti e che attende interpretazione. Il corpo parla, e parla un linguaggio che anticipa e trascende l’espressione verbale. Merleau-Ponty sostiene che noi impariamo la nostra lingua materna attraverso il corpo, non mentalmente, e Nietzsche giunge ad affermare: “Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza”6. Freud, poi, mostrando che i problemi affettivi e relazionali, psicologici e sessuali delle persone trovano il loro luogo di epifania nel corpo, giunge ad affermare che “l’Io è innanzitutto un Io corporeo”. Dunque, il corpo parla. E normalmente, non mente, a differenza delle nostre parole, che possono dire la verità e rivelare la realtà, ma spesso la offuscano, la traviano, la pervertono. Occorre dunque imparare ad ascoltare il linguaggio del corpo. E il corpo parla anzitutto con le sue emozioni. Le nostre emozioni, come paura o tristezza o ira, le possiamo leggere in senso morale e farne occasioni di autocondanna, oppure, con maggiore intelligenza e utilità spirituale, possiamo interrogarle e ascoltare ciò che ci dicono di noi stessi. Scrive Agostino: “Nella nostra dottrina si chiede all’anima credente non se va in collera, ma perché; non se è triste, ma da dove viene la sua tristezza; non se ha paura, ma qual è l’oggetto della sua paura“7.

Non si dimentichi che “un’attività diviene conscia quando urta contro la superficie del corpo, perché solo così può entrare in rapporto col mondo esterno”8, con l’alterità; il super-io è ciò che ci consente di astrarre dal nostro corpo, di nutrire illusioni tanto seducenti quanto false, proprio perché non passano attraverso il vaglio del corpo. Si pensi alle persone dominate dalla paura del corpo o a chi rimuove la dimensione sessuale o a quanti non “abitano” il proprio corpo … Il corpo è il nostro modo di essere al mondo, di prendervi parte, di rispondere ai suoi molteplici richiami e alle sue sollecitazioni di gioia o di dolore, cose tutte che plasmano il nostro corpo, fino a renderlo immagine fedele del nostro carattere, di chi noi siamo. Il corpo viene costruito da noi, dagli altri, dagli eventi, e il credente lo costruisce anche con Dio e nella fede cerca di fare in modo che l’umanità di Gesù plasmi la sua umanità. La parola facies, “faccia”, deriva dal verbo facere, che indica un’attività, e visus, “viso”, deriva dal verbo videre, “vedere”, e indica il fatto che “altri” ci vedono: noi siamo costruiti dalle relazioni che viviamo; lo sguardo dell’altro, a partire da quello dei genitori fino a quello di Dio, dà forma alla nostra persona. Può darsi che lo sguardo di giudizio della madre o lo sguardo severo e di rimprovero del padre plasmino un corpo titubante, timoroso ed esitante, che, ancora in età adulta, con i suoi gesti incerti e imbarazzati traduce la paura dello sguardo e del giudizio altrui e l’angoscia di chi cerca esternamente a sé conferme al suo diritto ad esistere e di essere ciò che è.

8. Parlare la sessualità
L’umano deve “dire” la sessualità per socializzarla. Senza parola, senza linguaggio, la sessualità apparterrebbe solo al pulsionale, all’istintuale, all’indifferenziato. Per questo, antropologicamente, la sessualità è il campo delle regole per eccellenza, il campo in cui la cultura si articola con la natura. A differenza degli animali, gli uomini non dispongono di alcuna regolamentazione naturale per incanalare l’istinto sessuale. La parola ha una funzione anche normante (divieto dell’incesto; divieto dell’adulterio) per proteggere la società dal pericolo costituito dal disordine sessuale. Ma la parola è essenziale anche per inserire l’esercizio sessuale all’interno di un dialogo personale. Il Cantico dei Cantici è emblematico al riguardo. Al centro del Ct vi è l’amore di un uomo e di una donna, di un ragazzo e di una ragazza. Vi è un amore umano, umanissimo, che solo quando è colto nella sua “letteralità” e “materialità”, può anche rivelarci la sua valenza simbolica e la sua portata eminentemente spirituale. Ha scritto Franz Rosenzweig:

“La metafora dell’amore attraversa, come metafora, l’intera rivelazione. Presso i profeti è la metafora sempre ricorrente. Ma dev’essere ben più che una metafora. E tale è solo quando compare senza un rinvio a ciò di cui dev’essere metafora. Non è sufficiente, dunque, che il rapporto di Dio con l’uomo venga raffigurato con la metafora del rapporto tra l’amante e l’amata; nella parola di Dio dev’esserci immediatamente il rapporto dell’amante con l’amata, cioè il significante senz’alcun rimando al significato. E così lo troviamo nel Cantico dei cantici. In questa metafora non è più possibile vedere ‘soltanto una metafora’. Qui il lettore è posto, a quanto pare, di fronte all’alternativa tra l’accogliere il senso ‘puramente umano’, puramente sensuale (e certo allora finirà col chiedersi per quale bizzarro errore queste pagine siano finite in mezzo alla parola di Dio) ed il riconoscere che qui, proprio in questo senso puramente sensibile, direttamente e non ‘solo’ metaforicamente si cela il significato più profondo”9.

Non si tratta quindi di intendere il Ct come un’allegoria ritenendo che solo rimuovendo l’accezione umana, carnale, corporea dell’amore esso possa avere dignità di cittadinanza nella Bibbia. Non è neppure importante dare un nome ai due amanti: si tratta del re Salomone e della “regale” figlia del faraone, come propone un’interpretazione assai nota? Di quale re si tratta? In verità dobbiamo riconoscere che l’amore rende re gli amanti: le immagini regali del Ct si possono spiegare anche così. E comunque facendo l’elogio del corpo dell’amato, la donna lo paragona a una statua di un dio (5,14-15); descrivendo l’amata il ragazzo la pone al di sopra delle regine (6,9) e le accorda titoli degni di una dea (6,10). Quale amante non vuole adorare la persona amata? Non è nemmeno particolarmente grave che nel Ct manchi ogni esplicito riferimento religioso, a parte il rimando all’amore come “fiamma del Signore” (8,6): nel Ct non si deve cercare di sostituire Dio all’amante o pensare che il partner maschile sia divinizzato; ciò che è divino, nel Ct, è ciò che intercorre fra gli amanti, è la loro relazione. È in quel fuoco in cui si situano gli amanti che abita il Dio che è un fuoco divorante (cf. Dt 4,24).

E ciò che degli amanti ci è presentato nel Ct è il corpo e la parola. Il corpo appare il luogo dell’alleanza e la parola, che dice il corpo, che canta e proclama la bellezza del corpo della persona amata, fa sì che la donna sia il luogo in cui il mondo prende forma per l’uomo e l’uomo per la donna. In Ct 4,1-5 il corpo dell’amata è un microcosmo in cui si concentrano tutte le bellezze della natura (colombe, pendici del Galaad, spicchio di melagrana, cerbiatti, gigli, ecc.) e della cultura (monili, opera di mani di artista, torre di avorio, ecc.). Nell’esperienza dell’amore si esperisce il tutto nel frammento. Attraverso il corpo dell’amata l’amante riceve il mondo e viceversa. Nell’esperienza dell’amore il corpo diviene rivelazione del mondo. Nel Ct vi è quella totale mutualità, reciprocità, che attraverso il linguaggio anche più sensuale ed erotico, dice la donazione dell’uno all’altra e viceversa: “Il mio amato è mio e io sono sua” (2,16; 6,3). E colpisce che nel Ct sia la donna che parla più del suo compagno: vi è una dimensione accentuata di femminilità nel Ct che sembra far emergere la donna come vera protagonista. E se è vero che il Ct conosce la dimensione sessuale dell’incontro fra gli amanti (si pensi, fra gli altri passi, a un testo come 5,4-5)10 è vero che il Ct fa abitare la parola nella differenza sessuale degli amanti. La sessualità umana è parlata: senza parola non vi è sessualità e neppure desiderio. Ora, il Ct presenta sia l’incontro dei corpi che lo scambio delle parole, e la bocca che dona baci è la stessa che pronuncia parole. L’”io” e il “tu” del Ct sono traversati dalla differenza sessuale che diviene differenza di pronomi personali maschili e femminili nel testo ebraico. Il Ct diviene così un dialogo che si offre al lettore come “paradigma del discorso differenziato”11. Questo dialogo, suscitato dall’amore e che sostiene l’amore, diviene il santuario della libertà e della creatività. Il linguaggio degli amanti del Ct crea metafore inedite, porta la lingua su sentieri prima ignoti, si concentra sul corpo come sul luogo dello scambio fra uomo e mondo, fra universalità del mondo e singolarità delle persone. Come è proprio di tutti gli innamorati, anche gli amanti del Ct creano metafore, creano un linguaggio condiviso e da loro compreso, un linguaggio attraverso il quale possono riconoscersi reciprocamente: l’amore, infatti, è intelligente e creativo. Con queste metafore, con queste espressioni simboliche, il desiderio degli amanti diviene parola scambiata e il loro incontro, incontro di libertà dialoganti.

9. Ordinare la sessualità
Compito umano particolarmente difficile, da riprendere e ricominciare nelle varie età della vita, è quello di purificare e ordinare le pulsioni sessuali per incanalarle all’interno di una storia di amore. Una storia guidata e governata da una promessa, cioè da quella parola della promessa che reciprocamente i partner, parola che crea un futuro alla relazione, parola che impegna il presente e il futuro dei partner. Così la genitalità viene inserita in una storia che le rende significativa. In questa storia di appartenenza reciproca e aperta al futuro, ha la pienezza del suo senso quel fare l’amore che di per sé è aperto anche al terzo, al figlio, al frutto dell’amore. Ora, se la sessualità umana non è tanto questione di carne, ma di desiderio, ecco che essa si profila come un lavoro, una fatica. Se li desiderio e l’attrazione spingono a gettarsi senza riserve nelle braccia l’uno dell’altra, il primato della relazione e l’esigenza dell’umanizzazione fanno sì che l’amore e l’incontro sessuale esigano un’ascesi, un esercizio, un apprendimento dell’altro, una conoscenza sempre più raffinata dell’altro. L’intesa sessuale può essere un capolavoro, ma certamente non è così frequente ed è frutto di ascolto dell’altro, di intelligenza del suo corpo, di attesa e di rispetto dei suo tempi … Insomma, è un lavoro. Per amare bene l’altro occorre anche lavorare su di sé, apprendere l’arte della mitezza, che consiste nel mettere freni alla propria forza e dunque arginare la possibile violenza che è comunque insita nell’esercizio sessuale, nella penetrazione, e soprattutto nella sessualità maschile che si caratterizza per una certa aggressività, una certa violenza per ottenere soddisfazione immediata. La sessualità maschile è più puntuale, espressa da pulsioni limitate nel tempo, brevi e intense. La sessualità femminile, invece, è legata al ciclo regolare dell’ovulazione che non dipende dalla volontà della donna, e poi è connessa alla prospettiva e alla possibilità della gravidanza, dunque della maternità. Così, nella donna vi è un legame più stretto tra sessualità e tempo, tra sessualità e durata, tra sessualità e progetto. Appare evidente come la sessualità sia una maniera di essere presenti al mondo, di abitare il mondo. Ora, ordinare la sessualità al primato dell’altro, del suo volto, della sua unicità, è far entrare l’esercizio sessuale nella mitezza. Per Lévinas la circoncisione è l’atto con cui l’uomo accetta di porre un limite alla sua onnipotenza virile e si pone in ascolto della donna. Così, l’unione sessuale è orientata all’incontro dei corpi, delle persone, in un colloquio intimo, erotico ed etico al tempo stesso. Questo inserire la sessualità nello spazio dell’amore istruisce i gesti dell’amore, li rende creativi e intelligenti, porta l’amante a conoscere come l’altro vuole essere amato. Lì davvero eros e agape mostrano di essere consanguinei. In ogni gesto sessuale profondo c’è uno spasmo di morte, una perdita dell’io, ma c’è anche il ritrovarsi nell’altro, per l’altro, con l’altro. C’è una dinamica pasquale nell’atto erotico: come nell’agape, così anche nell’eros la dinamica è quella di perdersi per ritrovarsi, di perdere sé nell’estasi del piacere per ritrovarsi come “noi” nell’altro e grazie all’altro. Ordinare la sessualità al primato dell’altro porta a differenziare i gesti, a sapere che c’è un tempo di tenerezza, per esempio, segnato dalla carezza, che è gesto di desiderio che sfiora ma non possiede, che tocca ma non violenta, che rispetta il confine del corpo dell’altro, che l’altro è (“la carezza è risveglio di te a te, e a me; è chiamata a essere noi, fra noi”: Luce Irigaray). Ma anche il momento di un gesto più forte e totale, perfino più violento, come la penetrazione, può divenire espressione di dono e di accoglienza, di amore pieno, dove pieno designa la totalità di donazione che nell’orgasmo trova l’apice del piacere, il piacere più intenso che l’uomo conosca, piacere sopportabile perché di pochi istanti, piacere spesso chiamato “piccola morte”.

Ciò che abbiamo detto riguarda l’amore che regola, ordina il desiderio e quindi l’incontro sessuale. Al lato opposto c’è quella che la tradizione cristiana chiama lussuria, caratterizzata da assenza di tenerezza e spersonalizzazione dell’altro. Che rapporto esiste tra amore e lussuria? “L’amore autentico tra due persone è espresso e rafforzato dall’atto sessuale. Ma la lussuria, che guarda l’altro come oggetto piuttosto che come persona, non trova più nessun uso per quell’oggetto una volta che la gratificazione cui mirava è stata ottenuta. Uno dei migliori test di amore autentico è quanto uno si senta affezionato verso l’altro partner dopo il rapporto e prima che sia tornata la passione sessuale. Un test ancora migliore è se l’amore rimane forte anche quando il rapporto sessuale è impossibile per un lungo periodo di tempo, come quando il coniuge è ammalato […]. Come la stella polare, cui il navigatore fa costantemente riferimento, l’amore è fermo di fronte agli ostacoli. Questo perché è unione di persone, non di corpi. L’invecchiamento, la mancanza di bellezza esteriore, la malattia o le calamità non diminuiscono l’amore quando le barriere emotive sopra cui è basato rimangono intatte. La lussuria è egocentrica, capricciosa, instabile. L’amore è permanente, stabile e altruistico. La lussuria usa il corpo di altri per soddisfare il suo appetito per il piacere. L’amore dà tutto se stesso, corpo e anima, per rendere l’altro felice”12.

10. Discernere la sessualità oggi
Che ne è della sessualità oggi nelle nostre società occidentali? In un interessante libretto, il sociologo Zygmunt Bauman parla della forma fisica, dell'”essere in forma” quale imperativo odierno che ha sostituito il sorpassato “essere di sana e robusta costituzione” come elemento di integrazione sociale13. Con la differenza non trascurabile che l'”essere in forma” è lasciato all’individuo, ha confini incerti, non è regolato e normato da una fabbrica o dall’esercito come avveniva per il vecchio “essere di sana e robusta costituzione”. Questo è richiesto anche in ambito sessuale a quello che Bauman ha chiamato l’odierno “collezionista di esperienze o di sensazioni”. La tecnicizzazione del sesso, la sua virtualizzazione mediante Internet, la sua regolamentazione da parte del mercato e dell’industria, fanno sì che il sesso postmoderno concerna essenzialmente l’orgasmo. “Sciolto da lacci, briglie e catene, l’erotismo postmoderno è libero di contrarre e sciogliere qualsiasi rapporto di convenienza, ma è anche facile preda di forze pronte a sfruttarne i poteri di seduzione […] Il suo (dell’attività sessuale) compito supremo consiste nel regalare esperienze sempre più forti, infinitamente variabili, preferibilmente nuove e senza precedenti; in questo campo tuttavia c’è poco da inventare e dunque l’esperienza sessuale definitiva non può che rimanere un compito irrealizzato, e nessuna esperienza sessuale è veramente così gratificante da rendere superflue quantità ulteriori di addestramento, istruzioni, consigli, ricette, rimedi o accessori”14. Come rendere variabile infinitamente ciò che è finito e limitato come la sessualità? Certo, la sessualità postmoderna vede l’erotismo troncare i legami con il sesso (la riproduzione) e con l’amore e cerca di aprire all’immaginazione e alla pratica erotica una libertà di sperimentazione mai prima conosciuta. L’ideale, in tempi di identità duttile, instabile, cangiante, è un erotismo senza vincoli, senza legami sia nei confronti della riproduzione, sia nei confronti del rapporto con un partner e tende, come dice George Steiner, ad avere il massimo impatto e obsolescenza istantanea. L’indebolimento dei legami aiuta la produzione di collezionisti di esperienze che sono anche efficienti consumatori. L’ampio ricorso a Internet per consumi sessuali, fino alla porno-dipendenza, dice di persone ancora abitate da grande paura dell’ambito affettivo, relazionale e sessuale, che preferiscono il disimpegno della fantasia alla fatica della realtà, il nitore delle immagini all’opacità del simbolico, l’immediatezza del piacere alla lunghezza di una storia quotidiana e dilatata nel tempo. Da queste sommarie linee di lettura dell’oggi, possiamo dedurre un’indicazione finale. La sessualità si gioca sul piano del desiderio. Ciò a cui tende non è l’orgasmo ma l’incontro con l’altro, perché solo desiderando l’altro o sentendomi oggetto di desiderio altrui io mi scopro come essere sessuato e come persona desiderabile.

11. Una sessualità matura
Una sessualità matura si esprime all’interno di una relazione amorosa di coppia e si manifesta con questi quattro connotati: è libera, adulta, creatrice, integrata15. Libera, perché non si dà relazione sessuale senza libertà di entrambi i partner. Adulta perché liberata dalle dipendenze e dalle ossessioni infantili. Creatrice, cioè aperta a una novità da creare e a un futuro da costruire. Integrata, perché la sessualità non può restare scissa dal resto della persona e perché segno più forte dell’unità della coppia stessa e della loro dedizione reciproca.

12. Umanità, relazionalità, intelligenza
Amare con umanità, amare con intelligenza, amare nello spazio di una relazione. Quest’ultimo punto vuole indicare tre criteri per cercare di vivere la corporeità e la sessualità e anche per vagliare situazioni che possono apparire problematiche. Forse che persone con comportamento o con tendenza omosessuale non possono vivere storie d’amore e relazioni di vera dedizione? L’umano e il relazionale precedono la differenza sessuale ed è la relazione, come già abbiamo detto, che sta a fondamento della struttura più profonda dell’umano16. La masturbazione, fenomeno naturale in età pre-adolescenziale e adolescenziale, va colta nella vasta gamma di significati sintomatici che può assumere quando permane in età adulta. Veramente problematico è l’atteggiamento masturbatorio, l’autoerotismo come atteggiamento psicologico, che rischia di condurre all’edificazione di una personalità autocentrata. Se l’apostolo Paolo condanna l’unione con una prostituta, e se noi vi vediamo lo scambio di ciò che è più intimo e personale con ciò che è più impersonale (i soldi), è anche vero che pure una situazione di per sé così squallida, ma in cui ci sono due corpi che si incontrano, può conoscere tenerezza e umanità. Si potrebbe continuare a lungo. Mi limito a ricordare il testo evangelico di Lc 7,36-50 in cui Gesù, di fronte alla prostituta, vede l’amore là dove scribi e farisei vedono il peccato. Spesso anche noi vediamo solo il peccato nelle ricerche di amore forse maldestre, spesso angosciate, che sono le nostre. La sessualità è l’ambito della nostra più grande vulnerabilità, è spazio di profondo mistero, ma anche di grandi enigmi. Vi si addice il linguaggio della compassione e della misericordia, molto più che quello del giudizio e della condanna.

1 L. Manicardi, Il corpo: via di Dio verso l’uomo, via dell’uomo verso Dio, Qiqajon, Bose 2005.

2 Origene, Contro Celso VII,36.39.

3 M. Onfray, Teoria del corpo amoroso, Fazi, Roma 2006, p. 47.

4 Gregorio di Nazianzo, Elogio della verginità.

5 M. Foucault, Il corpo, luogo di utopia, Nottetempo, Roma 2008, p. 6.

6 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 19864, p. 35.

7 Agostino, La Città di Dio IX,5.

8 A. Lowen, Il linguaggio del corpo. Feltrinelli, Milano 2003, pp. 29-30.

9 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 212-213.

10 “L’amato mio ha introdotto la mano nella fessura e le mie viscere fremettero per lui. Mi sono alzata per aprire al mio amato e le mie mani stillavano mirra; fluiva mirra dalle mie dita sulla maniglia del chiavistello” (Ct 5,4-5).

11 J.–P. Sonnet, «Le “Cantique”, entre érotique et mystique: sanctuaire de la parole échangée», in Nouvelle Revue Théologique 4 (1997), p. 489.

12 S. Schimmel, The Seven Deadly Sins: Jewish, Christian, and Classical Reflections on Human Psychology, cit. in G. Cucci, Il fascino del male: i vizi capitali, ADP, Roma 2012, pp. 274-275.

13 Z. Bauman, Gli usi postmoderni del sesso, Il Mulino, Bologna 2013.

14 Ivi, pp. 33.47.

15 E. Fuchs, Desiderio e tenerezza. Una teologia della sessualità, Claudiana, Torino1984 (in particolare p. 29).

16 G. Piana, La sessualità umana. Una proposta etica, Pazzini, Villa Verrucchio (Rimini) 2007.