domenica 29 aprile 2018

La società che ha condannato Alfie Evans ha vita breve. Bisogna continuare a preparare il futuro.

L'Arcivescovo Giampaolo  Crepaldi, fondatore e  presidente dell'Osservatorio internazionale "Cardinale Van Thuán" sulla dottrina sociale della Chiesa, scrive un prezioso articolo sulla questione del piccolo Alfie Evans.
Questo tema è di grande attualità, vale la pena leggere questo contributo.

sabato 28 aprile 2018

L'Osservatore Romano: "Frutti"

"Frutti" è il titolo del terzo seminario internazionale pensato per elaborare «una teologia intrinsecamente femminile» che si tiene dal 27 al 29 aprile a Roma nella sede della Pontificia università Urbaniana
Qualche riflessione da parte di alcune partecipanti

Assisi OFM: Desiderio di Dio

C'è un sentimento importante che possiamo coltivare nei confronti di Dio ed è il desiderio.

Sappiamo che fede, speranza e carità sono i tre modi essenziali con cui ci si rapporta a Dio e si stabilisce con lui una specie di "contatto spirituale".

Ma la bellezza del desiderio consiste nel fatto che esso è il risultato e la sintesi di tutte e tre queste cose: fede, speranza e carità.

Per sapere cos'è il desiderio di Dio, bisogna sapere anzitutto cos'è il desiderio.

Nel desiderio vi sono due componenti distinte: una negativa e una positiva. La parola latina, da cui deriva il termine italiano, mette in evidenza la componente negativa; quella greca, la componente positiva. Nel linguaggio dei latini, desiderare significava notare la mancanza delle stelle (sidera) necessarie per trarre auspici.

Da qui, nel linguaggio ordinario, il termine passò a significare "sentire la mancanza di qualcosa". Il termine greco corrispondente, potheo, indica, all'origine, il movimento di protendersi verso qualcosa, sospirare, bramare. Accentua l'aspetto positivo del desiderio. L'anima, mediante il desiderio, per così dire, si allunga, si distende nel tempo, impaziente di attingere ciò che brama. 

Entrambi questi significati sono presenti nella Bibbia quando si parla del desiderio di Dio, a volte l'una di seguito all'altra: "Come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio" (Sal 42, 2). Qui il desiderio è espresso in positivo, con l'immagine della cerva che, udendo il rumore di una sorgente, si slancia a precipizio, giù per i dirupi, per raggiungerlo.

Ma, a quel versetto, seguono subito queste altre parole: "L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente", che esprimono lo stesso desiderio in negativo, come un sentire la sete, cioè la mancanza, di Dio.

Con queste poche nozioni sul desiderio, eleviamoci ora alla considerazione del desiderio di Dio, che è il più profondo tra quelli del cuore umano.

Come la notte - dice una bella poesia di Tagore - nasconde nella sua oscurità il desiderio che ha della luce e come la tempesta cerca segretamente la pace nella calma che seguirà alla sua furia, così nelle profondità inconsce del cuore umano risuona il grido: "Io desidero Te, soltanto Te!". Viene però da chiedersi: esiste ancora questo desiderio di Dio nell'uomo di oggi?

A me pare che in una certa parte della cultura moderna è scomparso l'elemento positivo del desiderio, ma ne è rimasto l'elemento negativo. Caduto l'anelito verso Dio, con la fede e la preghiera, è rimasto solo il vuoto lasciato dalla sua scomparsa. È rimasto il sentimento della sua mancanza, cioè la nostalgia di Dio.

Sant'Agostino è stato talvolta definito il dottore del desiderio di Dio, per l'importanza che accorda a questo tema. "Il desiderio – dice - è il recesso più intimo del cuore.

Quanto più il desiderio dilata il nostro cuore, tanto più diventeremo capaci di accogliere Dio. La vita di un buon cristiano è tutta un santo desiderio... Dio, con l'attesa, allarga il nostro desiderio, con il desiderio allarga l'animo e dilatandolo lo rende più capace. Viviamo dunque, fratelli, di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti".

La stessa preghiera è viva quanto è vivo il desiderio che vi scorre dentro: "Il tuo desiderio è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua è la preghiera... Se non vuoi interrompere la preghiera, non cessare mai di desiderare".

"Pregare a lungo consiste nel suscitare un continuo impulso del cuore verso colui che invochiamo".

Come, dunque, il mare non si stanca di spingere, notte e giorno, le sue onde, ora potenti ora calme, verso la riva, così noi non dovremmo stancarci mai di spingere verso Dio questi impulsi silenziosi del cuore. E se, durante questo lavoro, la tua mente petulante vuole intromettersi con domande, come: "Ma che cosa è Dio e come faccio a pensare a lui?", rispondi: "Non ne so niente, e, in questo momento, non ne voglio sapere niente. Dio lo si deve amare, più che pensare".

Il desiderio di Dio e l'insegnamento dei Padri della Chiesa

Dal libro di Hazael-Massieux Marie-Christin, "36 domande su Dio. Con i Padri della Chiesa", un interessantissimo contributo esplorativo e conoscitivo.

venerdì 27 aprile 2018

Walter Kasper: Comprensione teologica dell'uomo

Un saggio di grande levatura quello che ci viene suggerito da una lettrice del nostro blog. Prendetevi del tempo, leggete con calma ed "assaporate" il contenuto.

Prospettive di antropologia biblica
“Che cos’è l’uomo?” si chiede il Salmista (Sal 8,5; 144,3), e da Socrate in poi se lo chiedono i pensatori greci che hanno gettato le basi della nostra cultura occidentale. Si può dire, a giusto titolo, che nel quesito “Che cos’è l’uomo?” emerge ciò che caratterizza la nostra civiltà occidentale. La cultura occidentale, più di ogni altra cultura, pone l’uomo al centro del proprio pensiero.
Nella Bibbia troviamo, in concreto, che nel suddetto Salmo 8, la domanda sorge a proposito della grandezza e dello splendore del creato. Ovunque, in terra come nel firmamento, il Salmista ravvisa qualche cosa della maestà e della gloria di Dio. Lo colpisce in modo particolare la contemplazione della volta del cielo. L’uomo si rende conto di essere infimo nei confronti dell’universo, come un verme, minuscolo come una cavalletta (Is 40,22). Eppure – ed è questa la novità dell’esperienza sia biblica che greca della verità – egli non è una nullità, non un semplice granello di sabbia né un soffio subito svanito. Al contrario, proprio al cospetto della grandezza dell’universo risalta la grandezza, il miracolo e il mistero della sua esistenza. Egli sa di essere il coronamento delle opere di Dio...

giovedì 26 aprile 2018

Don Pablo d'Ors, L'Osservatore Romano: Una domanda per vivere

"...Oggi nessuno può mettere in dubbio che il Cristianesimo in occidente sia in declino. Non si tratta solo di ammettere che le chiese sono sempre meno frequentate perché c’è quasi un senso di sospetto nei confronti delle istituzioni. Non è solo una reazione ai molti abusi ecclesiastici e statali che l’uomo di oggi — noi — sia diventato allergico a qualunque tipo di istituzione. La cosa va molto oltre. Teorici riconosciuti hanno dichiarato l’ambiguità delle religioni, causa di innumerevoli disordini e ingiustizie: ideologie fanatiche, manipolazioni della coscienza, guerre di religione... Lo scetticismo generalizzato, perciò, non influisce solo su ciò che è ecclesiale, ma anche su ciò che è religioso e di fatto considerato superato e irrazionale. "
Ecco il testo completo

Enzo Bianchi: La differenza cristiana

"...A marzo i giovani hanno vissuto una riunione presinodale nella quale è stato elaborato un documento da offrire alle istituzioni del prossimo sinodo su «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», affinché da esso si sentano ispirate nell’elaborazione dell’Instrumentum laboris, la traccia per il confronto e la discussione comune."
Solo chi ha a che fare con i giovani riuscirà a comprendere bene quanto fratel Enzo suggerisce nel suo articolo dopo una disamina della situazione attuale. Spesso a chi, come, me è dedito all'ascolto dei giovani si palesa chiaramente la situazione che le ultime generazioni siano smarrite e disorientate. Non hanno davanti a sé punti di riferimento stabili, che diano certezze, che sappiano indirizzare, ascoltare e accompagnare. Poniamoci accanto a loro e non contro. Tutte le agenzie educative devono avere questo compito, questa urgenza: tornare ad essere guide sagge e generose, non con parole vuote e prive di significato ma con esempi validi e concreti. 
Qui l'articolo completo

martedì 24 aprile 2018

La salvezza di Dio può giungere anche a chi è fuori dalla Chiesa?

Il cristianesimo è l'unica vera religione? La salvezza è possibile solo nella Chiesa? Queste le domande di un nostro lettore. Risponde padre Athos Turchi, docente di filosofia alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale.
Ecco l'articolo, tratto da "Toscana oggi".

Rowan Williams, L'Osservatore Romano: Una terra in prestito

Una bellissima testimonianza su Oscar Romero di Rowan Williams

Placuit Deo: attenzione alle errate interpretazioni della salvezza

"...Ancor oggi ci sono cristiani che pretendono di meritarsi la salvezza da se stessi, esclusivamente in virtù della propria dirittura etica o del proprio sforzo ascetico, più che per l’offerta che Cristo Gesù, nella sua Pasqua, ha fatto di sé a Dio Padre in favore di tutti gli esseri umani e del cosmo intero. E ce ne sono altri che presumono di raggiungere la salvezza grazie al loro pio sentimento religioso, di cui si sentono del tutto appagati ed entro cui si arroccano, astraendosi dall’umile e paziente comunione con gli altri e rinunciando al servizio della carità e alla testimonianza del vangelo nel mondo e nella storia..."
Di seguito l'articolo completo

lunedì 23 aprile 2018

Il Cammino Delle Scritture: Dalla Storia Alla Parola E Al Testo. Lectio Di S.Em. Card. G.Betori

"...Nel titolo di questo mio intervento ho posto alcune parole che incontriamo sul finire della seconda lettera dell’apostolo Paolo a Timoteo e che appartengono alla vita quotidiana di un annunciatore del Vangelo del primo secolo: «Venendo, portami il mantello, che ho lasciato a Tròade in casa di Carpo, e i libri, soprattutto le pergamene» (2Tm 4,13)..."



José Maria Castillo "Incarnazione e Vangelo"

Come tradurre l’Incarnazione in un concreto vivere di Vangelo ed essere Vangelo? Ovvero come passare dalla consapevolezza dell'Incarnazione ad una vera Vita Incarnata, vissuta in piena umanità con gli altri?
Sempre partendo dall'Incarnazione, che avvicina il divino all’umano e restituisce valore, dignità e sacralità alla nostra ben evidente finitudine, vorremmo affrontare, per l'oggi e per il domani, – alla luce del Vangelo, la “Buona Notizia” di Gesù di Nazareth – il tema di come condividere e significare il nostro comune riferimento a Gesù per essere "comunità" alla sua sequela, con particolare attenzione al modo di essere, vivere, relazionarsi, ed alle modalità creative per costruire insieme, qui ed ora e nel futuro, – anche al di fuori dei recinti tradizionali della "Chiesa" e della/e religione/i – qualcosa di quel “Regno di Dio” che il Figlio annuncia nei Vangeli.
Guardando all’esperienza ed al vissuto di Gesù, cerchiamo di leggere l’intera realtà da nuovi e più autentici punti di vista, senza ricadere negli schemi culturali tradizionalmente consolidati di cui siamo prigionieri, per riscoprire l’archetipo e i fondamenti concreti di uno stile di vita e di società centrati e modellati sui valori di umanità, in cui ciascuno possa sentirsi accolto e partecipe.



sabato 21 aprile 2018

La bellezza che salva. Centralità della bellezza nel cristianesimo secondo Balthasar

sintesi della relazione di Elio Guerriero Verbania Pallanza, 10 febbraio 2001

Gianfranco Ravasi: Beatitudine

19 Aprile 2018

Incontro di spiritualità a Firenze con il Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente Pontificio Consiglio della cultura su Beatitudine: “Sperimentiamo la felicità solo quando siamo poveri nello spirito”.


Incontro promosso dall'Ufficio catechistico dell’Arcidiocesi di Firenze nell’ambito del consueto annuale ciclo per sacerdoti e laici che quest'anno hanno avuto come tema il discorso che Papa Francesco ha tenuto nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore nel 2015 in occasione del quinto Convegno Ecclesiale che aveva come titolo "In Cristo il nuovo umanesimo".

venerdì 20 aprile 2018

In cosa crede chi crede?

Sette serate per riscoprire i fondamenti della fede cattolica

Un percorso proposto dalla Facoltà Teologica di Torino all'Arsenale della Pace per approfondire alcuni concetti del nostro Credo.

L'Espresso: siamo gay e Dio ci ama!

Vi propongo la lettura di questo interessante reportage che può aiutare tutti ad approfondire una riflessione iniziata nella Chiesa da tempo.
Vincere le discriminazione, di qualsiasi genere, e accogliere è il mandato che Gesù ci ha lasciato. Le modalità devono essere guidate dal comandamento dell'amore.
In tutto comunque ci deve essere d'aiuto questo sano principio: est modus in rebus. – Nota sentenza di Orazio, cui fa seguito (Satire I, 1, vv. 106-107) sunt certi denique fines, Quos ultra citraque nequit consistere rectum «v’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto». È spesso ripetuta per esprimere la necessità di una saggia moderazione e per richiamare al senso della misura. (Vocabolario Treccani)


Divo Barsotti, Avvenire, Agorà: Ungaretti l'unico poeta religioso


Per chi volesse un arricchimento culturale-letterale, questo contributo è "pane per i suoi denti". Poesia, autori e sentimento religioso, un prezioso argomento per scoprire nelle poesie italiane il rimando al Dio del poeta. 
Inevitabilmente chi incontra Dio non può che far vibrare le corde del suo cuore con il proprio che lo contraddistingue: musica, pittura, poesia, arte in genere.
Prego che tutto questo torni a nascere nella nostra vita di fede.

giovedì 19 aprile 2018

Luciano Manicardi: commento alla IV domenica del tempo pasquale

La quarta domenica di Pasqua, domenica del buon Pastore, ha il suo centro nella pagina evangelica che, con l’immagine di Gesù pastore, presenta una visione sintetica dell’evento pasquale, culmine della storia di salvezza. Nel suo ministero Gesù è stato pastore del “piccolo gregge” (Lc 12,32) esponendo la sua vita fino a donarla per amore dei suoi (cf. Gv 10,11-15: riferimento alla morte di Cristo); la sua morte poi sfocia nella resurrezione che prolunga ed estende il suo ministero di pastore a livello universale che crea comunione e unità (Gv 10,16-18: riferimento alla resurrezione).

E in forza dell’evento pasquale egli è il “pastore buono”, cioè il pastore che dà salvezza, l’unico a cui spetti questo titolo che nel Primo Testamento designa Dio nel rapporto con il popolo d’Israele nel suo insieme (Sal 80: “Tu, pastore d’Israele”) e con ciascun figlio d’Israele singolarmente (Sal 23: “Il Signore è il mio pastore”).

La prima lettura, tratta come sempre nel tempo pasquale (secondo un’antica tradizione liturgica) dagli Atti degli apostoli, presenta l’annuncio della resurrezione di Cristo nel discorso di Pietro al sinedrio: le energie della resurrezione agiscono nella chiesa e, grazie alla fede, il nome del Signore opera guarigioni di malati. La seconda lettura presenta il cristiano quale rigenerato a figlio di Dio dal dono di amore del Padre.

Il paradosso cristiano emerge dalla rivelazione di Gesù quale “buon pastore”, cioè quale autentico e unico pastore: egli “offre (lett. “depone”) la vita per le pecore”, cioè rischia la vita, la espone ai pericoli dei briganti e degli animali feroci, pur di salvare le sue pecore. E arriva anche a dare la vita, a morire per i suoi. Egli non è un mercenario, un salariato, ma il pastore unito alle pecore da un legame personale e di amore.

Niente di funzionale nella qualità di pastore che Cristo vive: egli è in legame di obbedienza e di amore con il Padre (“il Padre conosce me e io conosco il Padre”) e vive un legame di conoscenza, amore e appartenenza con le pecore: “Conosco le mie (pecore) e le mie (pecore) conoscono me”. Tutto si gioca sul piano della relazione, non del ruolo, né della funzione, sul piano dell’amore, non del dovere: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

La rivelazione del pastore diviene anche rivelazione della qualità della pecora, ovvero, fuor di metafora, del credente che segue il pastore Gesù Cristo. Il credente è colui che conosce il Signore e ne ascolta la voce (vv. 14.16). Ascolto e conoscenza del Signore sono azioni anzitutto personali che introducono nella vita spirituale e conducono verso l’unità interiore. Ma sono anche azioni ecclesiali che consentono al Signore di governare la sua comunità e di condurla verso l’unità: “Diventeranno un solo gregge e un solo pastore”.

Il testo intravede il formarsi di un popolo composto da persone provenienti non solo da Israele, ma anche dalle genti (“ho altre pecore che non sono di questo ovile”), evento che sarà frutto della Pasqua (“quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”: Gv 12,32) e si compirà nell’eschaton (“l’Agnello sarà il loro pastore”: Ap 7,17). Giovanni presenta Gesù come pastore universale: a lui solo spetta questo titolo.

È Gesù Cristo il “Pastore della chiesa universale sparsa su tutta la terra”, come recita il Martirio di Policarpo (XIX,2). Giovanni inoltre parla dell’unicità del pastore, che è Cristo, non dell’ovile, come intese erroneamente la traduzione latina di Gerolamo (et fiet unum ovile) suscitando interpretazioni che vi vedevano un riferimento alla sede petrina: “Giovanni non avrebbe mai detto che Pietro era l’unico pastore!” (Ignace de la Potterie).

Il legame tra Cristo “buon pastore” e la resurrezione emerge anche dall’arte funeraria cristiana antica che rappresenta Cristo con una pecora sulle spalle già nelle antiche catacombe e nelle zone cimiteriali: egli è il pastore che conduce l’uomo attraverso la morte alla vita eterna in Dio.

G. Ravasi, Avvenire, Agorà: Civiltà, non muri ma ponti

In questo articolo Ravasi propone una rilettura della situazione socio-politica odierna alla luce di temi di interesse comune. Un modo per poter vivere con l'altro e non contro l'altro. 

mercoledì 18 aprile 2018

Siria: p. Karakach (parroco Damasco) al Sir, «pregare per la pace ora più che mai»

Leggete questo articolo, il frate in questione è un mio amico, una persona seria e ben equilibrata. Non racconta frottole sicuramente

IL FILOSOFO. Hadjadj, Avvenire, Agorà: ho scoperto Dio E al fratello ateo ora dico...

Prima della mia conversione, devo confessarlo, odiavo questa parola. Quando qualcuno diceva «Dio», mi sembrava che mettesse fine a qualsiasi discussione. Aveva introdotto con l’imbroglio un altro jolly nel mazzo di carte. Era un abracadabra, una formula magica e mi verrebbe da dire addirittura una «soluzione finale», con tutto ciò che può comportare di terrorizzante un’espressione del genere. Una soluzione finale all’interno di una discussione che, d’un tratto, veniva soffocata da questa parola grossa e massiccia. La mia conversione consistette dapprima in una conversione di vocabolario. All’epoca del mio ateismo ero obbligato a confessare un mistero dell’esistenza. Pensavo tuttavia che la parola «Dio» non avesse nulla a che vedere con tale mistero, che fosse addirittura un modo per evitarlo. Avevo la pretesa di spiegarne l’esistenza nel lessico, sforzandomi di svicolare così: negazione della morte, volontà di potenza, fuga nell’aldilà, sublimazione nevrotica del «papà/ mamma, aiuto!»…Cos’è accaduto oggi? Sono stato corretto riguardo a tale controsenso. Questa parola non suona più ai miei orecchi come un "tappabuchi", ma come un "apri-abisso". È probabile che alcuni la usino come "tappabuchi" (credenti o meno, d’altronde). Non la capiscono affatto, allora. Non ne sentono, per così dire, la musica. Perché il significante «Dio» non discende da un desiderio di soluzione finale: viene dal riconoscimento di un’assenza irrecuperabile. Non sorge tanto come risposta quanto come chiamata. Dà il nome all’evidenza di ciò che mi sfugge, all’esigenza di ciò che mi supera.Lo ricordo spesso ai seminaristi: «Quando siete in missione di evangelizzazione e una persona vi dichiara: “Io non credo in Dio”, state attenti, non saltategli addosso dicendo: “Ma sì, bisogna credere in Dio!”, perché magari non ci credete neppure voi al “Dio” di cui sta parlando lui! Chiedetegli prima cosa intende con quella parola. E chiedetevi se vi siete mai accorti della vertigine che porta con sé». (...)Non si tratta di parlare di Dio amando il proprio prossimo, come se potessimo in verità separare l’uno dall’altro (separare la parola dall’amore e Dio dal prossimo). Parlare di Dio vuol dire anche amare, in maniera indissociabile, colui a cui ne parliamo, perché vuol dire riverberare su di lui la Parola che gli dà l’esistenza e che quindi desidera infinitamente che lui esista. Capite la difficoltà? Sono missionario e un bel giorno mi trovo davanti a qualcuno che mi è ostile. Vengo ad annunciargli la Parola di Dio, ma visto che tale Parola mi dice che Dio è provvidenza, mi tocca ammettere che, questo tipaccio, me lo piazza in mezzo alla strada Dio stesso. Di conseguenza, devo innanzi tutto onorarlo questo tipaccio, devo riconoscere che, anche se mi sta parecchio antipatico, anche se è tremendamente contrario ai cristiani, come persona è eternamente voluto dall’alto e ha sempre qualcosa da insegnarmi.Basta adottare questa giusta prospettiva e ogni fanfarone si rivela essere parola di Dio. Certo, non tanto per via delle intenzioni ostili, quanto per la sua presenza. È la Parola di Dio a conferirgli l’essere. È l’amore di Dio che lo trae fuori dal nulla. Magari l’ignora, ma se sono un apostolo del Creatore, io non posso ignorarlo. Devo andare oltre l’antipatia. Meravigliarmi prima di tutto del fatto che esiste. E non è una strategia di comunicazione, in questo caso: non mi sforzo di essere gentile, di rendermi affabile, di far finta di stare attento per rivendere la mia mercanzia. In gioco qui c’è la verità della mia identità cristiana. Se non sono capace di meravigliarmi sinceramente, di fronte all’esistenza, per esempio di Michel Onfray (prendo un ateo in Francia, ma avrei potuto scegliere allo stesso modo un fondamentalista in Iran), non sono cristiano, perché Michel Onfray, anche se con la bocca pronuncia idiozie sulla Bibbia, con il suo essere rimane ugualmente una parola di Dio, certo imbavagliata, ma comunque divina nella sua apparizione: «Ben Zoma diceva: “Chiè il sapiente?”. Colui che trova qualcosa da imparare da ogni uomo».Dio perciò è già presente nel più anticristiano degli uomini, forse non con la presenza di grazia, ma per lo meno con la presenza di creazione, con la presenza d’immensità, tanto che, nel momento in cui parlo di Dio con il mio nemico, devo aver coscienza che Dio è impegnato interamente a creare il mio nemico con amore. Una posizione decisamente destabilizzante, devo dire: mi tocca parlargli di Dio lasciandomi prima interpellare da lui, rifiutarne l’ignoranza accogliendone la presenza, contestarne l’inimicizia attestandone la bontà originaria. Ed è proprio lo stupore davanti alla sua bontà originaria, al di là della nostra antipatia iniziale, che può permettermi di dominare fino al cuore del nemico.
Fabrice Hadjadj venerdì 3 maggio 2013

martedì 17 aprile 2018

Bruno Forte, L'Osservatore Romano: Sullo sfondo degli Esercizi spirituali

Intervento di Bruno Forte sul convegno sul Card. Carlo Maria Martini

Luciano Manicardi, L'Osservatore Romano: Il legame tra la pagina biblica e la vita

Di seguito un articolo sul convegno che si è aperto a Lugano sul Card. Carlo Maria Martini
Si è aperto il 16 aprile a Lugano, presso la facoltà di teologia, il convegno internazionale «Carlo Maria Martini, la Scrittura e la città» che si concluderà il 18 aprile. Pubblichiamo l’inizio della relazione introduttiva dell’arcivescovo di Chieti-Vasto e stralci di quella del priore di Bose.

domenica 15 aprile 2018

Sr Catherine Aubin, L'Osservatore Romano: I santi che si possono incontrare

«Da qualche parte ho letto: “Dio c’è, io l’ho incontrato!”. Questa poi! La cosa mi sorprende! Che Dio esista, è fuori discussione! Ma che qualcuno l’abbia incontrato prima di me, questo sì che mi sorprende! Perché io ho avuto il privilegio d’incontrare Dio proprio nel momento in cui dubitavo di lui! In un paesino della Lozère, abbandonato dagli uomini. Passavo davanti alla vecchia chiesa e sono entrato... E lì sono rimasto abbagliato... da una luce intensa... insostenibile! Era Dio... Dio in persona... Dio che pregava! Mi sono detto: Chi prega? Mica pregherà se stesso? No! Pregava l’uomo. Pregava me! Diceva: “O uomo! Se ci sei, dammi un segno!”. Ho detto: “Dio mio, eccomi qui!”. Lui ha detto: “Miracolo! Un’umana apparizione!”. Gli ho detto: “Ma Dio mio... come puoi dubitare dell’esistenza dell’uomo, visto che sei tu che l’hai creato?”. Mi ha detto: “Sì... ma era da così tanto tempo che non ne vedevo uno nella mia chiesa... che mi sono chiesto se non fosse una fantasia!”. Gli ho detto: “Eccoti rassicurato, mio Dio!”. Mi ha detto: “Sì! Ora potrò dire a loro lassù: l’uomo c’è, l’ho incontrato”» (Raymond Devos).

L’esortazione apostolica di Papa Francesco c’invita a parafrasare o a completare questo grande umorista francese, aggiungendo: «Un uomo, un sant’uomo, c’è, io l’ho incontrato». Gaudete et exsultate ci offre chiarimenti su ciò che fa santo questa o quella persona, uomo o donna che sia. Ma nulla sostituisce il contatto diretto con un testimone, un missionario o una persona umile e gioiosa. Sia essa sposata, celibe, divorziata, disabile, vedova, risposata, omosessuale, donna d’affari o senza fissa dimora, o ancora vittima di abusi. Come si manifesta la loro santità specifica e unica? Corre, si dilata e si diffonde nelle loro anime semplici e sopraffatte (Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici). Come se, in ogni momento, le loro vite fossero ispirate e ispiratrici, come se le loro decisioni fossero sempre prese in funzione di un Altro o degli altri, come se fossero possedute dall’umiltà, dalla gioia, dalla compassione, dalla misericordia, e come se nulla più avesse importanza.

Questi santi ignorati, passati inosservati, quasi invisibili, vivono con gioia e forza interiore, una beatitudine, la loro propria beatitudine, che non hanno necessariamente scelto, ma che si è imposta loro attraverso la forza della loro vita. Per esempio, quella madre di famiglia che conosco, vedova da qualche mese, con sette figli, nonna di una ventina di nipoti e bisnonna di pronipoti di cui ormai si è perso il conto. La sua beatitudine è semplice: «Beato chi, come il padre del figliol prodigo, sa attendere, vegliare e pregare, e correre per abbracciare chi ritorna mortificato, abbattuto e confuso» (cfr. Luca 15, 20). L’ho vista agire così con qualcuno. Dalla sua bocca non esce mai una parola cattiva, ma solo parole di gratitudine, di comprensione, di scusa e di apertura. Non c’è da parte sua alcun giudizio, ma la scelta rinnovata ogni giorno di cercare di capire quella situazione negativa o distruttiva. La sua casa sperduta tra i campi della Champagne è aperta, nel vero senso della parola. Non chiude a chiave la porta, neppure quella del suo cuore. Avendo vissuto con loro diversi giorni, ho potuto condividere il semplice momento mattutino: insieme abbiamo letto i testi della messa del giorno, così, senza commenti, poi abbiamo recitato una decina di rosari inframezzati da nomi di persone in difficoltà vicine o lontane, ancora senza commenti. Era lì il segreto della sua santità, in quella ricerca continua e quotidiana di coerenza tra ciò che era annunciato la mattina nella Parola e il vissuto della giornata. Nulla di complicato, solo una semplicità gioiosa sempre in fase di adattamento e di apertura.

L’altra testimone che mi fa venir voglia di camminare in questa santità è una religiosa anziana, la cui beatitudine s’iscrive in ogni poro del suo cuore, del suo corpo e del suo sguardo. La sua beatitudine è: «Beate le prostitute e i pubblicani perché ci precederanno nel Regno dei cieli» (cfr. Matteo 21, 31). Di nuovo, nulla la differenzia esteriormente dagli altri: questa dimensione di misericordia e di compassione la esprime con atteggiamenti e gesti quasi invisibili e pervasi da grande dolcezza. Non rinchiude mai questa o quella in un giudizio, in un’accusa o una decisione definitiva. Ogni giorno il suo sguardo vede al di là delle apparenze, come se i suoi occhi fossero diventati quelli di Cristo sulla croce quando dice al ladrone: «Oggi sarai con me in paradiso». Nella sua vita, questa donna ha avuto molte responsabilità ed è sempre andata incontro a situazioni o persone difficili, tendendo la mano, mettendo a rischio la sua reputazione e riuscendo spesso e quasi sempre a far guadagnare la carità (o il paradiso…).

Concludo con Jean Vanier. Ecco un uomo che sarebbe potuto diventare un politico, un filosofo o anche un eminente docente universitario. La beatitudine che mi fa vedere attraverso il suo impegno è: «Beato chi riceve lo Spirito Santo e si lascia inviare» (cfr. Giovanni 20, 22). Vanier è la dolcezza, la gioia profonda, l’ascolto, l’impegno senza millanteria tra i più piccoli, è il senso dell’umorismo, è la comprensione profonda delle situazioni, è l’audacia ispirata che ha ispirato tante e tante persone tra i più bisognosi. In lui non c’è alcuna ostentazione, nessuna lezione di morale, né grandi discorsi, ma gesti e parole che vengono da un cuore abitato dalla Forza dello Spirito santo e da atteggiamenti che sarebbero potuti sembrare quasi ridicoli agli occhi del mondo, ma che sono diventati profetici per tutta l’umanità.

Nell’ultima esortazione apostolica si legge: «ogni santo è una missione» (cfr. Gaudete et exsultate, 19), ogni uomo è una missione; è anche un missionario. In effetti una missione senza missionario rischia di essere un ramerisonante. A rendere il missionario «attraente» sono la beatitudine, il volto, lo sguardo o una parola di Cristo che lui incarna fino in fondo, ogni giorno, senza far rumore e con gioia. Quando abbiamo la fortuna d’incontrare uno di questi uomini o una di queste donne, essi producono in noi una sorta di scossa della terra o del cuore. Di fatto ci lavorano e ci smuovono, ci affascinano e ci attirano, ci illuminano e ci sconvolgono. È allora che ci è dato vivere un sano dispiacere: «C’è una sola tristezza nella vita, quella di non essere santi».

venerdì 13 aprile 2018

Francesco Occhetta: Il prossimo lontano-L'umano nella città

Francesco Occhetta, giornalista, pubblica sul suo blog una "fotografia" della realtà che emerge da piccoli ma, significativi, segnali.
"In molte parti d’Europa stanno gradualmente affiorando simboli nazisti e sentimenti di intolleranza profonda che, come piccole fiammelle, potrebbero incendiare e devastare tutto ciò che di buono è stato costruito dopo la Seconda guerra mondiale.
Lo scorso agosto è bastato un post (falso) su Facebook per far emergere ciò che rimane occulto e nascosto. Due uomini di colore, ritratti in foto a Forte dei Marmi, in Versilia, vengono definiti online «immigrati che bivaccano sulle panchine». I due sono Samuel Jackson e Magic Johnson: il primo una star del cinema, il secondo un personaggio famoso del basket. Sono stati fotografati dai fan mentre si stavano riposando su una panchina dopo aver fatto spese. In molti, nel racconto dei social, non li hanno guardati in volto, e così i due sono stati coperti di insulti..."

mercoledì 11 aprile 2018

Jacques Servais, Osservatore Romano: La verità totale del Vangelo

Interessantissimo articolo su "L'Osservatore Romano"
«Solo chi ha la gioia può essere un ambasciatore di Cristo» (Hans Urs von Balthasar). Dopo l’Evangelii gaudium e l’Amoris laetitia, la nuova esortazione apostolica ci fa vedere nel Papa un messaggero di lieti annunzi. Gaudete et exsultate: le parole evangeliche da cui è tratto il titolo esprimono certamente i sentimenti profondi del suo cuore. In mezzo alle critiche, aperte o serpeggianti, strumentalizzate o alimentate dai media, di cui è il bersaglio in certi ambienti ecclesiastici, Francesco attesta che la nostra vita non è un’«esistenza per la morte», ma per la vita eterna che è già iniziata. Ed è giusto, quindi, rallegrarsi sempre come comanda l’apostolo. Tutto ciò che è cattivo umore, chiusura, tetraggine, melancolia, sta in diretta contraddizione con la nostra fede ed è dunque semplicemente peccato.

Milano. Gomorra, tra Bibbia e fiction: sulla rivista dei gesuiti un confronto critico

Lascio a voi la lettura di questo articolo  con le dovute e inevitabili considerazioni.

lunedì 9 aprile 2018

Enzo Bianchi: "La vera essenza del perdono"

I cristiani che vogliono vivere quotidianamente e concretamente il Vangelo di Gesù sanno che una delle difficoltà più grandi che incontrano è la pratica del perdono. Gesù è stato molto chiaro al riguardo: “Amate i vostri nemici, perdonate a chi vi ha fatto del male, pregate per i vostri persecutori” (cf. Mc 11,25; Mt 5,44-45; Lc 6,27-28.35-37).


Il perdono richiesto da Gesù settanta volte sette (cf. Mt 18,22), cioè sempre rinnovato nei confronti di chi fa il male, è l’apice della legge dell’amore del prossimo, e dobbiamo essere grati agli ebrei i quali, fondandosi sulle Scritture dell’Antico Testamento, giudicano questo perdono a volte impossibile per noi uomini e donne, impossibile come l’amore verso il nemico. Oggi assistiamo addirittura a una mancanza di rispetto e di pudore, quando soprattutto i giornalisti chiedono alle vittime se perdonano quanti hanno fatto loro del male. Come se il perdono coincidesse con una dichiarazione verbale fatta pubblicamente e carpita come una confessione di bontà o una risposta dura, in entrambi i casi a favore di telecamera…

Mi pare però che i cristiani non sempre comprendano cosa sia il vero perdono umano, conforme alla richiesta di Gesù. Innanzitutto il perdono non può essere dimenticanza del male che ci è stato fatto, perché il male è male, va riconosciuto e giudicato come tale, quindi non va rimosso. Ma il perdono non significa neanche scusare chi ha compiuto il male: la scusa è richiesta quando il male è involontario; quando invece il male scaturisce da atti responsabili, da parole pronunciate da parte di chi è pienamente padrone della propria lingua, allora le scuse non valgono. Scusare significherebbe in questo caso fare del malfattore un irresponsabile, uno che ha compiuto il male senza saperlo. No, ci sono atti malvagi che sono inescusabili e non devono essere coperti con spiegazioni psicologiche o con parole che non riconoscono l’altro quale soggetto responsabile. Agendo in questo modo, si coprirebbe il male, lo si manipolerebbe, rendendo la vittima addirittura complice. Questa dunque non è la via del perdono, anche se appare come la via più facile e breve. Vladimir Jankélévitch ha scritto pagine penetranti e convincenti sull’“imperdonabile”, che sono essenziali per comprendere la grazia e il perdono a caro prezzo.

Il perdono deve invece sempre affermare la verità e non deve arrestarsi in una regione nebbiosa in cui non si discerne ciò che è male. Proprio per questo il perdono abbisogna di un lungo cammino e di molto tempo. Ci vogliono mesi e anche anni affinché il perdono diventi un atto veramente umano e dunque cristiano. Se qualcuno mi fa del male che mi ferisce profondamente, prima di dirgli: “Ti perdono”, devo imparare a non rispondere con il male, a non volere una rivalsa o una vendetta. A volte per disarmarsi è necessaria una distanza, uno stare lontano da chi è armato; a volte occorre un lungo silenzio, perché si è troppo fragili per rispondere; a volte occorre confessare a se stessi che per ora, non per sempre, è impossibile perdonare. Non si dimentichi che nella tradizione cristiana, anche nel matrimonio e ancor più nel contesto familiare allargato o nell’amicizia, prendere le distanze e separarsi è augurabile al fine di non entrare in spirali infernali. Una persona ha sempre il diritto e anche il dovere di difendersi non con la violenza, non rispondendo con le armi della lingua, ma con il silenzio e la distanza, lasciando che il tempo operi ciò che nell’immediato resta impossibile.

Perdonare sempre e subito può anche essere una tentazione di orgoglio e di protagonismo spirituale: sono talmente buono che perdono! Non si dimentichi che Gesù in croce, rivolto ai carnefici, non ha detto: “Io vi perdono”, ma ha invocato Dio: “Padre, perdona loro!” (Lc 23,34). Con umiltà ha chiesto al Padre di perdonare, affidando a lui l’atto radicale del perdono di cui solo Dio può essere soggetto. Il perdono è faticoso, difficile, e quando avviene è un vero e proprio miracolo, un’azione dello Spirito di Dio, sigillo della misericordia

Lisa Cremaschi: il perdono ricevuto e condiviso


Propongo uno studio scientificamente completo sul tema della misericordia secondo la tradizione dei padri della chiesa, fatto dalla prof. Cremaschi.
Avrete bisogno di tempo per poterlo leggere tutto ma, vi assicuro, ne vale la pena. Davvero uno studio illuminante e arricchente. 

"...Come si attua il cammino di conversione? Ricorro a un’immagine che ricavo dagli scritti di Ireneo di Lione. 
Dice Ireneo che quando Dio crea l’uomo, lo crea con le sue due sante mani, il Verbo e lo Spirito. Padre, Figlio e Spirito santo cooperano nel creare l’uomo a immagine della santa Trinità. Ma Adamo sfugge dalle mani di Dio prima che egli abbia potuto completare la sua opera. É questo per Ireneo il peccato di Adamo, il peccato di ogni uomo, di ciascuno di noi: siamo sfuggiti alle mani di Dio e ce ne andiamo per le nostre strade. Che cos’è la conversione? É il cammino inverso, è ritornare sotto le mani di Dio perché sia lui a plasmarci, a portare a compimento l’opera iniziata in noi, a portare a pienezza quell’immagine che è in ciascuno di noi. Dio è come un artista al lavoro, vuol fare di noi un’opera d’arte, ma c’è sempre qualcosa da correggere, da aggiungere, da consolidare, da togliere. Cosa facciamo quando leggiamo un passo dell’evangelo, quando andiamo in chiesa a pregare, ad ascoltare la messa? Ci mettiamo sotto le mani di Dio presenti nella sua Parola, lasciamo che le mani di Dio ci lavorino, ci richiamino, ci correggano, ci sostengano. A volte questo lavoro provoca sofferenza: le mani di Dio limano tutto ciò che è superfluo, che disturba la bellezza dell’opera d’arte. A volte questo lavoro desta gioia e consolazione, perché le mani di Dio consolidano, rafforzano, consolano." 

domenica 8 aprile 2018

Roberto Fontana, Note di Pastorale Giovanile: Dare del Tu a Dio

Per chi volesse approfondire la preghiera del Padre nostro, troverà molto interessante questo contributo

Salvatore Mazza, Avvenire: La fraternità che scaturisce dal messaggio pasquale vero motore del bene comune

Vale la pena leggere questo articolo, per comprendere quanto il Papa ha detto di recente circa il tema del bene comune.
Un tema del quale si parla poco, in modo approssimativo e, quando lo si fa, non si è mai liberi da preconcetti o discorsi di parte.

Robert Cheiaib: Non potevi amarmi senza morire?

Vale la pena leggere questa storia di Robert.
"...Ho scritto questa storia per rispondere alla domanda di una bambino di 9 anni che chiedeva: Capisco che Gesù mi ama, ma non capisco perché è dovuto morire per dire questo amore...." 

Don Nazareno Galullo: Ho poca fede come Tommaso, oppure ho paura come Pietro?

Se non vedo non credo! Eh si, chissà quante volte, magari senza troppo dirlo in giro, lo abbiamo pensato anche noi. Magari quando abbiamo pensato che in quella situazione ci avrebbe aiutato Dio...e invece nulla.
Se vedessi qualche miracolo, probabilmente crederei. In molti la pensano così. Forse anche tu. Vorresti vedere il pane dell'Eucaristia (l'Ostia) trasformarsi in carne...e il vino trasformarsi in sangue. Oppure un paralitico che di colpo cammina. Oppure un cieco che inizia a vedere.
Eppure, ti garantisco che non sarebbe quello a darti la fede. Anche quelli che hanno visto "risuscitare" Lazzaro (tornare in vita, a dire il vero!) non solo non hanno creduto, hanno pure ucciso Lazzaro.

No, carissimi, la fede non è propriamente un vedere per credere. Piuttosto è un Credere per Vedere. Sì, perché si crede non sulla base di ciò che si è visto, ma sull'esempio di una vita.
Cioè, Pietro, tanto per prendere un esempio dagli apostoli, sicuramente dopo la morte di Gesù (un codardo, perché dopo averlo rinnegato non ha nemmeno la faccia di stare sotto la croce con Maria Santissima) si è rifugiato nel cenacolo per paura. La paura è proprio il contrario della fede. Se hai fede ti fidi, se hai paura ti nascondi, oppure denigri quelli che credono. Diciamo che Pietro per paura sta lì. Poi Gesù gli appare....entra nel Cenacolo e anziché dire: "brutti disgraziati, che non avete creduto a tutte le mie parole, che non credevate che io ero il Figlio di Dio il Cristo, che non avete nemmeno pregato un'ora per me, che sotto la croce non c'eravate perché eravate fifoni...brutti cattivoni e mentitori...che siete fuggiti nel momento in cui un amico aveva più bisogno...proprio voi....ECCOMI QUA ed ora vi darò tante tante botte, così sentirete che io sono risorto davvero e che le botte vi faranno un male fisico e vero (e non spirituale :-))".
Gesù non ha nemmeno pensato queste parole...piuttosto si è presentato nella pace. Sì, perché di quella pace avevano bisogno.
Torniamo a Pietro. Pietro, dopo l'esperienza di essere stato "graziato" da Gesù (è questa la misericordia di Dio) va a predicare senza paura, esce da quel Cenacolo di tristezza e di paura e va verso le folle giudaiche senza la paura di dire apertamente e di puntare il dito: "...voi avete ucciso Gesù il Cristo, che è Risorto e io l'ho visto". Pietro andrà in giro a predicare senza paura...e quando sarà minacciato di morte (avrebbe dovuto cioè ammettere sotto pena di morte di dire il falso nel predicare che Gesù era veramente Risorto,) non avrà assolutamente paura di questa minaccia. Ebbene, Pietro davvero morirà...e questa morte atroce dirà più cose delle parole predicate: che veramente Cristo era risorto e che niente e nessuno, neppure la morte, avrebbe potuto fargli rinnegare Gesù.
Cosa pensate abbiano fatto quelli che hanno ascoltato Pietro predicare il Cristo Risorto? Vedendo la sua vita e le sue sofferenze, e il suo atteggiamento di fronte a quelli che lo minacciavano di morte...e non avendo avuto paura di morire....quelli che lo hanno ascoltato, pur senza aver visto le cose che sicuramente Pietro raccontava, gli hanno creduto.
Quindi, deduzione: si crede non per aver visto miracoli, ma per aver visto dei testimoni.
Amici, questa è l'evangelizzazione: un raccontare cose non viste ma di cui si ha una certezza unica, per il fatto di averle ascoltate da testimoni senza paura di morire.

Altro che il vedere..., il toccare...e il sentire.
Tommaso allora chi è? E' proprio la persona qualunque che, non avendo visto, vuol vedere per credere. In fondo non si fida degli altri apostoli. E' un po come noi, quando non ci fidiamo del Papa che ci parla, di un credente che ci racconta della sua esperienza di conversione, di una persona che ha in un qualche modo incontrato Cristo nella sua vita e ce ne fa parte raccontandoci di come era diversa la sua vita prima di incontrare Gesù e di cambiare vita.

Tommaso, Tommaso....metti qua le tue mani e tocca. Mamma mia che schiaffone morale a Tommaso da parte di Gesù. Sì, perché Gesù era (è) veramente Risorto e non ha timore di farsi toccare, di farsi vedere. Rafforza così anche la fede di quel poverino che, forse per impegni, non era presente in quel momento.
Gesù non disprezza chi ha il desiderio di vedere per credere. Non dice: poveri voi che volete vedere per credere. Ma dice: beati quelli che pur non avendo visto crederanno. Cioè beati noi se la nostra fede non si fonderà sulle cose viste, ma sulle esperienze fatte anche se non fisicamente parlando.
Quanti di voi potrebbero raccontare la propria esperienza di fede...senza aver visto? Sicuramente tutti noi dovremmo essere tra quelli che non hanno visto (a meno di non aver tra voi che leggete qualche immortale...presente ai fatti di Gesù :-) ma non è possibile!!!).

Abbiamo bisogno, cari amici ed amiche, di ascoltare il più possibile i Testimoni di quei fatti, la loro storia, la loro storia anche di martirio vissuto senza paura. Questa è la fede che si trasmette, una sorta di contagio.
Eppure, quanti martiri non hanno visto, ma hanno creduto fino alla fine. Perché? Perché erano in contatto con la propria persona, con il profondo della propria persona, con il loro spirito, la loro anima. Sì, perché è lì che si gioca la nostra fede. Una fede ovviamente non sulle nuvole, ma con i piedi per terra.
Perché per fede si fanno cose che non si farebbero per nulla al mondo. Per fede si ama con tutta la propria vita. Per fede due persone si prendono come sposi e vanno avanti finché morte non li separi. Per fede si può lasciare tutto per dare il proprio tempo ai poveri; per fede si possono lasciare le proprie comodità per andare in missione laddove non ci sta nulla...ma ci sono persone che hanno bisogno di ascoltare un testimone di Cristo

Pensaci un po: anche tu potresti essere un testimone di Cristo. Pur non avendolo visto, hai però un cuore...e nel tuo cuore (anima, spirito...interiorità) hai potuto fare una esperienza di Cristo. Un giorno hai sentito che quella Parola di Dio annunciata durante la Santa Messa o durante un incontro di catechesi, o durante uno strano incontro con qualcuno che ti parlava della sua conversione, o durante un incontro di preghiera, o...durante un momento di strana solitudine...hai percepito che Gesù era davvero presente vicino a te, molto vicino. Hai fatto una esperienza di Cristo vivo, e non di Cristo morto e sepolto. E Cristo, siccome è Risorto, è vivo, vivo, vivo.

Anche tu, allora, pur non avendo visto, puoi essere un testimone per tanti altri. Forse nemmeno per quelli lontani in terre sperdute, ma per la tua famiglia, per quegli amici che incontri sui viali, al bar, in disco, al pub, a scuola, a lavoro. Un testimone non ha paura di non essere creduto: ha fede, e nella fede trova la forza di dire quello che gli altri magari non si aspettano.
Magari ci fossero più giovani coraggiosi nel dire e testimoniare la fede! Sarebbe davvero un mondo esplosivo di fede, dove tanti giovani, anziché perdere tempo nelle cose di questo mondo che passano e finiscono, magari farebbero scelte più belle e più significative. Ma, anche in questo, la libertà della coscienza resta il più grande dono di Dio misericordioso. Speriamo però che in tanti si sappia vincere le paure, si sappia fare scelte coraggiose e controcorrente....facendo "toccare" con mano la propria fede ai tanti tommasi...sparsi qua e là dappertutto.

mercoledì 4 aprile 2018

C. Molari, Filosofia attiva: Otto non definizioni di Dio

Cito testualmente la presentazione di questo articolo di Molari, per gli amanti della speculazione filosofico-teologica...comunque apprezzabile da tutti.
"...Con molto piacere pubblico questo testo di Carlo Molari, teologo vivente, in cui si rispecchia anche la mia visione di Dio. Quest’articolo chiarisce molto bene la definizione del Dio che ha questo teologo cristiano, e che chiaramente fa anche parte della dottrina della Chiesa, una definizione che avviene tramite un processo di negazione, la negazione di quelli che sono i principali luoghi comuni sulla figura divina comune a molti non credenti. Solo chiarendo il significato comune di quello che si intende dibattere si può dialogare tra due opposte visioni, se così non fosse sarebbe solo un inutile dialogo tra sordi, sterile ed improduttivo per entrambe..."

Rosanna Virgili, Avvenire: Il corpo di Cristo, le donne, l'attesa. Il giardino del Sabato Santo

Ancora spunti di riflessione circa il tema del sabato santo
Grazie a chi come prof. Virgili ci aiuta a comprendere il testo sacro.

Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo, come era prescritto» (Luca 23,55-56).

martedì 3 aprile 2018

Enzo Bianchi: "Pasqua una notte diversa"

Per chi volesse riflettere ancora sulla celebrazione della notte di Pasqua, Enzo Bianchi ne spiega, in parte, il senso. Qui la sua spiegazione.

“Perché questa notte è diversa dalle altre notti?”. È la domanda che risuona più volte nella celebrazione della Pasqua ebraica, che quest’anno cade in coincidenza con il sabato santo cristiano.
Oggi la prima, amara e brutale risposta è che la diversità sta nel tragico fatto che, proprio mentre un popolo celebra l’avvenuta liberazione dall’oppressione e l’incamminarsi verso la terra promessa, un analogo anelito di terra e libertà viene fermato nel sangue..."

Lisa Cremaschi: Convertire lo sguardo del cuore

Carissimi un validissimo, corposo e completo contributo sul tema della conversione, pubblicato sul sito "alzo gli occhi verso il cielo" da Lisa Cremaschi.

"...Oggi interrogheremo i primi monaci, i padri del deserto sul tema del peccato e della lotta contro il peccato, contro tutto ciò che tenta di distoglierci dalla via del vangelo..."
E' un preziosissimo studio che, per chi ha il "palato sottile", può aiutare il nostro cammino di fede.

Manuel Nin, Osservatore Romano: E' risorto il Cristo e i demoni sono caduti

 La catechesi pasquale di san Giovanni Crisostomo

La tradizione liturgica bizantina, nella celebrazione pasquale della risurrezione del Signore, alla fine dell’ufficiatura del mattutino legge una catechesi, che diventa una vera e propria mistagogia, attribuita a san Giovanni Crisostomo. È un testo breve e molto bello e profondo in cui troviamo riassunto in qualche modo tutto quello che come cristiani celebriamo e viviamo nella Pasqua del Signore: la misericordia, l’amore, il desiderio, potremo dire l’ansia con cui il Signore vuole accogliere tutti nel banchetto della sua Pasqua, quasi a disegnare le braccia aperte del padre della parabola del figliol prodigo con cui si è iniziato il cammino quaresimale. Dopo i quaranta giorni, segnati dalla preghiera, dal digiuno, dallo «sforzo e lavoro» come lo chiama la tradizione monastica, la breve catechesi crisostomiana diventa quasi un balsamo di misericordia e di consolazione per tutti i cristiani.

«Se uno è pio e amico di Dio, goda di questa solennità bella e luminosa. Il servo d’animo buono entri gioioso nella gioia del suo Signore. Chi ha faticato nel digiuno, goda ora il suo denaro. Chi ha lavorato sin dalla prima ora, riceva oggi il giusto salario. Se uno è arrivato dopo la terza ora, celebri grato la festa. Se uno è giunto dopo la sesta ora, non dubiti perché non ne avrà alcun danno. Se uno ha tardato sino all’ora nona, si avvicini senza esitare. Se uno è arrivato solo all’undicesima ora, non tema per la sua lentezza: perché il Sovrano è generoso e accoglie l’ultimo come il primo. Egli concede il riposo a quello dell’undicesima ora, come a chi ha lavorato sin dalla prima. Dell’ultimo ha misericordia, e onora il primo. Dà all’uno e si mostra benevolo con l’altro. Accoglie le opere e gradisce la volontà. Onora l’azione e loda l’intenzione». Il testo inizia con un invito indirizzato a tutti gli uomini a partecipare alla festa, alla Pasqua del Signore. Come una sorta di captatio benevolentiae, l’autore commenta la parabola di Matteo (20, 1-16) del padrone che esce a contrattare i lavoratori, e mette in luce come il digiuno, l’ascesi, la fatica quaresimale sono un «lavoro», uno «sforzo» accolto sempre dal Signore; un’accoglienza la sua però, che va oltre alla prontezza, alla sollecitudine e magari alla lentezza di coloro che lo hanno portato a termine: «Perché il Sovrano è generoso e accoglie l’ultimo come il primo. Dell’ultimo ha misericordia, e onora il primo».

La redenzione di Cristo, il suo amore smisurato per gli uomini va dall’accoglienza dell’opera adempiuta, fino alla magnanimità verso il solo desiderio di portarla a termine. Guardiamo le forme verbali presenti nel testo: Lui «accoglie», «gradisce», «onora», «loda». La generosità di Dio va al di sopra del calcolo e dell’impegno umano. «Entrate dunque tutti nella gioia del nostro Signore: primi e secondi, godete la mercede. Ricchi e poveri, danzate in coro insieme. Continenti e indolenti, onorate questo giorno. Quanti avete digiunato e quanti non l’avete fatto, oggi siate lieti. La mensa è ricolma, deliziatevene tutti. Il vitello è abbondante, nessuno se ne vada con la fame. Tutti godete il banchetto della fede. Tutti godete la ricchezza della bontà. Nessuno lamenti la propria miseria, perché è apparso il nostro comune regno. Nessuno pianga le proprie colpe, perché il perdono è sorto dalla tomba. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati». Il testo sottolinea ancora come tutti siamo chiamati al banchetto del Regno, all’abbondanza della sua mensa, al dono del vitello grasso, simbolo della misericordia e dell’amore sconfinato del Signore verso l’uomo, santo o peccatore, ricco o povero esso sia. Un banchetto che sazia la nostra fame, perdona le nostre colpe, ci risuscita e ci libera dalla morte. Il testo della catechesi mette in evidenza l’accoglienza divina a cui tutti siamo chiamati: continenti e indolenti, digiunanti e non digiunanti, ricchi e poveri. Il Signore non disdegna l’impegno, neppure rifiuta la povertà dello sforzo anche se meschino. Il perdono sorto dalla tomba, sgorgato dalla risurrezione stessa del Signore è elargito a tutti.

«Stretto da essa, egli l’ha spenta. Ha spogliato l’ade, colui che nell’ade è disceso. Lo ha amareggiato, dopo che quello aveva gustato la sua carne. Ciò Isaia lo aveva previsto e aveva gridato: L’ade è stato amareggiato, incontrandoti nelle profondità. Amareggiato, perché distrutto. Amareggiato, perché giocato. Amareggiato, perché ucciso. Amareggiato, perché annientato. Amareggiato, perché incatenato. Aveva preso un corpo, e si è trovato davanti Dio. Aveva preso terra e ha incontrato il cielo. Aveva preso ciò che vedeva, ed è caduto per quel che non vedeva. Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Dov’è, o ade, la tua vittoria? È risorto il Cristo, e tu sei stato precipitato. È risorto il Cristo, e i demoni sono caduti. È risorto il Cristo, e gioiscono gli angeli. È risorto il Cristo, e regna la vita. È risorto il Cristo, e non c’è piú nessun morto nei sepolcri. Perché il Cristo risorto dai morti è divenuto primizia dei dormienti. A lui la gloria e il potere per i secoli dei secoli. Amen». La terza parte della catechesi presenta il tema della discesa di Cristo all’ade, servendosi di immagini contrastanti che riescono quasi a dare vita al testo stesso: Cristo accettando la morte, lasciandosi prendere e afferrare da essa, la estingue; entrando nell’ade, lo spoglia di tutto il suo potere; lasciandosi «mangiare/inghiottire» dall’ade, per esso diventa cibo amaro, diventa sconfitta, gioco, beffa, annientamento, catena, disfatta. La vera incarnazione del Verbo di Dio è diventata la causa della sconfitta dell’ade e quindi l’origine della nostra liberazione: «Aveva preso un corpo, e si è trovato davanti Dio. Aveva preso terra e ha incontrato il cielo. Aveva preso ciò che vedeva, ed è caduto per quel che non vedeva».

Il testo si conclude con il canto alla vittoria, alla redenzione che Cristo porta a termine con la sua gloriosa risurrezione: «È risorto il Cristo, e i demoni sono caduti. È risorto il Cristo, e gioiscono gli angeli. È risorto il Cristo, e regna la vita. È risorto il Cristo, e non c’è più nessun morto nei sepolcri. Perché il Cristo risorto dai morti è divenuto primizia dei dormienti». La conclusione della catechesi ci riporta al tropario pasquale della tradizione bizantina: «Cristo è risorto dai morti. Con la sua morte ha ucciso la morte. E a coloro che sono nei sepolcri ha fatto dono della vita».