giovedì 27 giugno 2019

L'Osservatore Romano: Quando l’io diventa sovrano

L’urlo si è imposto come affermazione della propria identità

Il dibattito intorno ad alcuni temi si è fatto recentemente molto acceso. Le posizioni tradizionali — Dio e Cesare, diritti e doveri, conservatori e progressisti — si trovano sempre più polarizzate l’una contro l’altra. Il conflitto si radicalizza e soffoca gli spazi di dialogo. Che i conflitti possano estremizzarsi non deve certo sorprendere; leggendo la contemporaneità secondo le categorie consuete rischiamo però di trascurare alcuni elementi nuovi.

Da un lato sono venute meno le grandi impalcature ideologiche che davano una forma coesa, orientata, condivisa anche al disagio sociale e al dissenso. Dall’altro, l’influenza dei nuovi media ha dato al singolo individuo uno straordinario (ma totalmente deresponsabilizzato) strumento di amplificazione della propria voce. Oggi si può interloquire (o, meglio, sentire di star interloquendo) direttamente con alti funzionari, celebrità, personalità di ogni genere. Ogni tweet, ogni status, ogni post, in virtù di una possibile viralità, assurge alla dimensione fantastica di un annuncio Urbi et Orbi.

In questo panorama sembra emergere una sorta di insurrezione in tre grandi aree: l’area della politica, ovvero il mondo del fare; l’area della scienza, ovvero il mondo del sapere; l’area della religione, ovvero il mondo del credere. Le popolazioni di queste tre aree di dissenso — non è un caso — presentano larghe sovrapposizioni.

I punti di riferimento di una volta (il rappresentante delle istituzioni, lo scienziato, lo stesso Pontefice) vengono aggrediti con sorprendente virulenza; non già per ciò che sostengono, bensì per ciò che rappresentano: l’esistenza stessa di un’autorevolezza, di un’istanza altra che pone limiti all’espansione sempre più autoreferenziale di un “io” individuale. La cifra inquietante di questo conflitto non è quindi la sua intensità né ha a che fare con le posizioni sostenute. La dialettica non è più fra due collettività: è piuttosto fra l’individuale e il collettivo.

In questa nuova dicotomia vengono favorite alcune dinamiche perverse. Innanzitutto, il linguaggio dell’individuo diventa quello dell’urlo: l’atto identitario, autodeterminativo non è più rappresentato dal messaggio (che serve al massimo per épater le bourgeois) ma è l’urlo stesso come mera affermazione di sé. Il contenuto, se mai ve n’è uno, è quindi un embrionale “io esisto e sono rilevante” senza ulteriori connotazioni, spiegazioni o ipotesi di sviluppo.

In secondo luogo, l’unica forma aggregativa di un io che non tollera limite, confine, conflitto, è la folla selvaggia: una moltiplicazione di urla tutte uguali in cui amplificarsi ulteriormente e allo stesso tempo nascondersi, omogenea, estemporanea e sussistente solo finché, appunto, canta il medesimo coro.

In questa dimensione primitiva di un io molto bambino, arretrano anche le modalità di ragionamento; la lettura più adulta del reale perde terreno di fronte al pensiero magico e prelogico; l’io (su cui a questo punto influiscono più le pulsioni che l’esame di realtà) si pone al centro dell’universo, diventa sola misura delle cose, giudice supremo di ciò che è buono, vero o giusto. Questa condizione presta facilmente il fianco a manipolazioni, soprattutto quelle che solleticano gli istinti più profondi (prima fra tutti la paura) e che presentano spiegazioni riduzioniste, semplificate, facilmente digeribili; soprattutto, che non compromettano questa posizione privilegiata di un io fin troppo disorientato da un mondo complesso e confuso.

Il capovolgimento più paradossale attiene però all’esperienza della fede. Il problema è: se l’io è al centro dell’universo, che posto occupa Dio? Inevitabilmente, Dio diventa oggetto, funzionale al mantenimento di quella fragile omeostasi di cui si è già parlato.

Il nemico contro cui insorgere sembra essere chi lo rappresenta indegnamente ed ereticamente, ma si tratta in realtà di una guerra per procura contro un Dio che sovverte, interroga, turba la quiete, porta e a volte anche dà la croce. Il Dio-oggetto da difendere è invece quello che giustifica, lascia tranquilli, permette di ripararsi dietro le forme esteriori della fede che sono però forme vuote perché non allarmanti, non significanti.

Il mito fin qui rappresentato sembra essere quello di Prometeo, che da solo ruba eroicamente il fuoco per liberare gli uomini dall’oppressione degli dei. È più corretto ricorrere però a Faust, il cui Mefistofele seduce non con le tentazioni ma, proprio, con le giusticazioni («È affatto naturale che un fastidio mortale avveleni la tua vita. Chi lo potrebbe negare? A qualunque orecchio delicato, il rintocco delle campane è noioso e ripugnante»). E il Male diventa l’Altro, il suo essere limite, spina nel fianco, il suo abitare (come i due anziani del finale del Faust) nella vigna di Nabot. Di fronte a tutto questo, chi è, in fondo, Dio per dirmi cosa è giusto?

di Cristiano Maria Gaston

lunedì 24 giugno 2019

Youtube: Il banchetto messianico, don Gianmario Pagano


Il vangelo di Luca racconta una volta sola il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Lc 9, 11-17). Nel suo racconto l'evento ha una funzione precisa: siamo di fronte all'ultima grande azione di Gesù in Galilea prima della decisione di dirigersi "a viso duro" verso Gerusalemme, dove si compiranno i fatti drammatici che lo porteranno alla sua ascensione in cielo. Luca è un sapiente autore che struttura il suo racconto con grande attenzione ai dettagli narrativi, che in questo video cerchiamo di analizzare attentamente. Il miracolo è in realtà l'anticipazione del grande banchetto messianico escatologico e il suo significato è riferito direttamente all'ultima cena e, in seguito, alla cena di Emmaus e infine all'Eucaristia della Chiesa.


L'Osservatore Romano: La teologia che verrà

Nella lezione del “professore” Bergoglio 

21 giugno 2019
Lezione di teologia a Posillipo. O meglio: lezione sulla teologia che verrà. Con il “professore” capace di annotare i suoi appunti su una lavagna del tutto singolare: il Mar Mediterraneo.

Poche ore, lo spazio di una mattinata, sono bastate a Papa Francesco per lasciare il segno sul convegno che il 20 e il 21 giugno a Napoli, nella Sezione San Luigi della Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale (Pftim), ha riunito docenti e studenti a confronto sul tema: «La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo». Una visita privata che, nel giorno conclusivo dell’incontro, lo ha avuto prima attento ascoltatore dei relatori alternatisi sul palco, e poi atteso “maestro” che ha tirato le fila dell’intera discussione.



Ai partecipanti, quasi come “traccia” per i loro lavori, gli organizzatori avevano consegnato tre fotografie: una con la porta santa simbolicamente piantata nella sabbia dell’isola di Lampedusa; un’altra con Papa Francesco che nel viaggio di ritorno da Lesbo, il 16 aprile 2016, mostra ai giornalisti il disegno di un bambino del campo profughi; e, infine, quella con il Pontefice che, insieme al grande imam di Al-Azhar, firma ad Abu Dhabi, lo scorso 4 febbraio, il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Tre immagini che raccontano gli anni di un pontificato, quello di Francesco, che ha mantenuto tra le sue direttrici fondamentali quelle del dialogo, dell’accoglienza e dell’apertura all’altro.

E seguendo queste direttrici, il Papa è arrivato di persona per spiegare a docenti e studenti la sua idea di una teologia che parta dal basso, dall’ascolto della vita e delle sofferenze delle persone, di una teologia che miri ad abbattere muri e a costruire ponti nell’unica famiglia umana, che non rimanga isolata nelle altezze della speculazione, ma si cali nella realtà e promuova concretamente «processi di liberazione, di pace, di fratellanza e di giustizia». Una teologia che, avendo sempre al centro «la lieta notizia del Vangelo di Gesù», abbia come metodo portante quello del dialogo e dell’incontro.

Il Pontefice ha raggiunto Napoli venerdì 21 di prima mattina in elicottero, accompagnato dagli arcivescovi Edgar Peña Parra, sostituto della Segreteria di Stato, e Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia, con il reggente della Prefettura, monsignor Leonardo Sapienza, e con l’aiutante di camera Sandro Mariotti. Atterrato nell’impianto sportivo del Parco Virgiliano, ha raggiunto in auto la vicina Posillipo alle 8.50. Ad attenderlo all’ingresso della facoltà c’erano il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli e gran cancelliere dell’ateneo, il vescovo di Nola, Francesco Marino, in rappresentanza dei presuli della Campania, il gesuita Joaquín Barrero Díaz, assistente regionale per l’Europa del Sud, padre Gianfranco Matarazzo, vice gran cancelliere e superiore provinciale dei gesuiti, don Gaetano Castello e padre Giuseppe Di Luccio, rispettivamente preside e decano della facoltà, padre Domenico Marafioti, superiore della comunità dei gesuiti, e padre Francesco Beneduce, rettore del Pontificio seminario campano.

Il Papa, quindi, ha attraversato l’assolatissimo piazzale dove si è svolta la seduta finale del convegno. Dopo essersi fermato un paio di volte per regalare una carezza a dei bambini, sotto il palco ha salutato il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, il prefetto Carmela Pagano e il presidente della regione Campania, Vincenzo De Luca. Il Pontefice è quindi salito sul palco dove ad attenderlo c’era il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana. La grande struttura bianca, allestita all’estremità dello splendido spazio che si affaccia sul Golfo di Napoli, è stata concepita come una sorta di cornice che inquadra il Mediterraneo, crocevia di storie e di popoli, e oggi pericolosamente in bilico fra l’essere luogo di incontro e di fraternità, o luogo di scontro e di divisioni.

È idealmente su questo mare che è stato scritto il copione del convegno, perché è qui che nei secoli si sono incontrate persone di religioni e culture diverse, ed è qui che oggi si può ripartire per «costruire una società fondata sull’accoglienza, soprattutto quella delle persone emarginate e deboli, e sul rispetto delle differenze». Lo spiegano gli organizzatori dell’incontro che rientra nella serie di iniziative poste in atto dal 2016 dalla Sezione San Luigi della Pftim per «elaborare una teologia che, nell’interculturalità generata dalle migrazioni, sia capace di discernere i segni dei tempi nei quali si rivela l’attualità della Parola di Dio».

Giunto al palco, Francesco con un semplice gesto ha subito tenuto la sua prima lezione: si è seduto e, innanzitutto, ha ascoltato. Ha messo così, lui per primo, in pratica quello che anche in questa occasione ha indicato come uno dei capisaldi del dialogo e dell’accoglienza: l’ascolto, l’attenzione all’altro.

Tra gli oltre seicento presenti, nel piazzale, insieme a docenti e studenti della facoltà e degli istituti di scienze religiose a esse collegate, c’erano gli arcivescovi Francesco Cacucci, Corrado Lorefice e Ignazio Sanna, e i vescovi Nunzio Galantino e Stefano Russo. Significative le presenze, nel segno dell’incontro e del confronto, dell’imam di Napoli Amar Abdallah, del rabbino della città Ariel Finzi, e del rappresentante della Chiesa ortodossa locale, l’archimandrita Georgios Antonopoulos. E il mondo ortodosso è stato rappresentato soprattutto, sia pure non fisicamente, dal patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, il quale ha inviato un lungo messaggio agli organizzatori, felice, tra l’altro, di accompagnare così la presenza dell’“amato fratello” Francesco. «Ci unisce — ha scritto — il profondo impegno per la salvaguardia dell’essere umano e di tutto ciò che lo circonda, impegno fondato sulla propria della relazione Trinitaria».

Altre cinquecento persone hanno potuto seguire la sessione in diretta dai maxischermi posti all’interno della facoltà. Aperti dal saluto introduttivo di padre Di Luccio e dedicati alle proposte, ai suggerimenti per la soluzione delle tensioni, i lavori sono stati seguiti con attenzione dal Papa, che ha spesso preso appunti e annotato pensieri. È poi giunta la sua riflessione finale. Dopo l’ascolto, Francesco ha parlato, quasi sostenuto alle spalle da quel Mediterraneo che fin dall’inizio del pontificato ha accompagnato il suo magistero del dialogo.

Al termine, impartita la benedizione, ha ricevuto il saluto del cardinale Sepe con l’augurio oramai familiare «Ch’a Maronna v’accumpagni!» ed è entrato in facoltà, dove ha incontrato una rappresentanza del corpo docente, la comunità dei gesuiti e alcuni preti della diocesi che in quest’anno hanno celebrato il ventesimo e il trentesimo anniversario di ordinazione.

Tra i molti doni offerti al Papa — che poi è ripartito in elicottero poco prima delle 13 per fare rientro in Vaticano — oltre a una medaglia commemorativa spiccava il cofanetto con gli otto volumi finora pubblicati della collana “Sponde”, inaugurata dalla sezione San Luigi della Pftim proprio per contribuire all’avvio del rinnovamento degli studi ecclesiastici richiesto dalla Veritatis gaudium.

dal nostro inviato
Maurizio Fontana

L'Osservatore Romano: Un dovere evangelico e umano

Il messaggio del patriarca Bartolomeo

21 giugno 2019
Pubblichiamo di seguito il messaggio che il patriarca ecumenico Bartolomeo ha inviato al vice-preside della facoltà in occasione del convegno.



Al Reverendissimo p. Pino Di Luccio, Vice-Preside della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sezione San Luigi a Napoli, figlio amato della nostra Modestia, grazia e pace dal Signore nostro Gesù Cristo e da noi benevolenza

Abbiamo ricevuto la Vostra cortese Lettera del 3 giugno u.s., con la quale avete avuto la bontà di informare la nostra Modestia del prossimo Convegno su «La Teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo», che avrà luogo a Napoli nei giorni 20 e 21 giugno prossimi, per elaborare una teologia della accoglienza, adatta al nuovo contesto del Mediterraneo. Abbiamo altresì accolto con gioia che al Convegno parteciperà anche il nostro amato Fratello Vescovo della Antica Roma, Papa Francesco, col quale ci unisce il profondo impegno per la salvaguardia dell’essere umano e di tutto ciò che lo circonda, impegno fondato sulla κοινωνία propria della relazione Trinitaria. Lo salutiamo coll’adagio evangelico: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo, sia con tutti noi»!

Salutiamo inoltre l’amato Arcivescovo Metropolita di Napoli, Cardinale Crescenzio Sepe, gli Organizzatori e Relatori del Convegno, come tutti i partecipanti.

Nell’ambito di quanto previsto dalla Costituzione apostolica Veritatis gaudium di Papa Francesco, circa le Università e le Facoltà Ecclesiastiche, questo convegno pone al centro della sua attenzione il contesto del Mediterraneo e il tema dell’accoglienza. Due temi che fondano il loro postulato principale sul concetto di dialogo nei suoi multiformi aspetti, ma anche sulle dinamiche e introversioni che esso contiene.

Il Mare Nostrum, il Μεσóγειος θάλασσα, — come abbiamo ancora sottolineato — il mare tra le terre — è stato «culla di storia, civiltà, lingue, culture e religioni capaci di interconnessioni e di scambi, che hanno guidato i processi sociali dell’intera area per secoli, contribuendo alla crescita dei popoli che a esso si affacciano. Se il Cristianesimo, nella sua accezione Orientale e Occidentale, ha giocato un ruolo fondamentale, dopo l’Editto di Milano, non di meno l’Ebraismo e poi l’Islam hanno contribuito nelle alterne fasi storiche a trovare vie di comunione e di coesistenza. Il susseguirsi dell’Impero Romano, delle Invasioni Barbariche, dell’Impero Romano d’Oriente a Bisanzio, di quello Ottomano, non aveva mai rotto la sinfonia di comunione tra le varie anime esistenti tra i popoli dell’area, nonostante le tensioni mai sopite» (Bari 2016).

Oggi questo mare di incontro presenta una valenza molto diversa, alle volte presa ad esempio in tante aree del mondo, non come luogo d’incontro, ma piuttosto come confine da non valicare tra nord e sud del mondo, ponendo interrogativi allo stesso concetto di accoglienza dello straniero, di cui il Cristianesimo è espressione massima, secondo l’insegnamento del nostro Maestro e Salvatore. La Chiesa Ortodossa riconosce tuttavia che non c’è altra via al dialogo, e in tal modo si è espressa durante il Santo e Grande Concilio a Creta nel 2016: «In questo spirito di riconoscimento della necessità di una testimonianza e di una disponibilità, la Chiesa Ortodossa ha sempre attribuito grande importanza al dialogo, e in particolare a quello con i cristiani non ortodossi» (Enciclica cap. VII, 20).

I vari sconvolgimenti mondiali del precedente secolo, il nazionalismo e i fondamentalismi di varia natura, ancora presenti in troppe parti del nostro mondo, le tensioni accesesi oggi per l’accoglienza dei più deboli, di coloro che sono esposti alle tensioni sociali, economiche, climatiche, pongono nuovi interrogativi alle Chiese, a cui il Grande Concilio ha voluto porre attenzione, non sottacendo ai problemi derivanti dalla globalizzazione, dagli estremi fenomeni di violenza e della immigrazione: «In nessun momento l’opera filantropica della Chiesa non si è limitata semplicemente ad un atto di carità occasionale verso i bisognosi e sofferenti, ma piuttosto ha cercato di sradicare le cause che creano problemi sociali» (cap. 19).

L’accoglienza non può pertanto limitarsi a una opera di assistenza, ma deve guardare al tema della verità e della giustizia, per comprendere le cause, curarne gli effetti e testimoniare con forza il pericolo di vecchie e nuove schiavitù dell’essere umano, celate molte volte sotto forme di un acceso buonismo, di subdoli concetti di libertà illimitate, le cui conseguenze stanno affiorando prepotentemente all’interno di molti popoli, anche cristiani. La transumanza di interi popoli, o peggio di complete generazioni, causano ulteriori povertà nel sud del mondo e fenomeni di intolleranza in chi dovrebbe praticare l’accoglienza come dettame del proprio aderire evangelico. E tutto questo lo vediamo nei paesi del continente Africano in cammino verso i paesi che si affacciano sul Mare Mediterraneo, ma anche tra i paesi del Sud America in cammino verso il Nord, tra i paesi asiatici verso l’Oceania, e anche all’interno della stessa Europa tra Oriente e Occidente.

Diviene quindi preponderante l’impegno primario delle Chiese per la giustizia sociale, per creare i presupposti teologici e antropologici, anche attraverso il lavoro delle Università e dei Centri di Studi, al fine di creare una coscienza nuova nelle Istituzioni mondiali, in cui il profitto non sia l’unico metro di misura, ma si possa e si debba virare verso una economia ecosostenibile, rispettosa anche dell’ambiente in cui viviamo e che abbiamo il dovere di consegnare intatto alle generazioni future, una economia che dia dignità all’essere umano nella sua interezza, e pertanto libera da tensioni, libera da focolai di guerra, indotti molte volte al fine del proprio esasperato egoismo ed egocentrismo di pochi su molti. Una economia del rispetto delle peculiarità di popoli e aree può portare al miglioramento dell’esistenza di intere nuove generazioni, a un nuovo rinnovato interscambio, basato sul dialogo e la giustizia, ma anche sulla verità non manipolata e può pertanto evitare o limitare tali transumanze.

L’opposto è il grande pericolo che oggi attraversa il concetto di accoglienza, non più percepito dai popoli Cristiani come dettame evangelico ed esempio della fratellanza umana, ma come una “invasione” di popoli su altri popoli. La storia ci insegna che questo concetto di invasione non scompare più dal sentire comune dei popoli lungo i secoli, poiché esso ha sempre una accezione fortemente negativa. Ancora parliamo delle invasioni dei Persiani, dei Romani, delle Invasioni barbariche, della invasione araba, mongola, turca, dei bianchi sui Nativi americani, della Comunità nera in America sradicata nel passato dall’Africa, e ancora della invasione Nazista, Sovietica e altre ancora fino ai nostri giorni. Questo sentimento deve essere fortemente evitato oggi, anche dalle nostre Chiese, affinché non si realizzi il binomio accoglienza-invasione.

È quindi necessario esaminare con cura il modo di accogliere, il perché accogliere, ma soprattutto il come accogliere, nel rispetto delle popolazioni locali. L’accoglienza deve diventare principalmente integrazione, ma mai sincretismo. Se vi è la necessità di una giustizia mondiale per molti popoli in movimento, vi è anche la giustizia dei popoli che aprono i propri confini. C’è il dovere evangelico e umano di accogliere chi è in difficoltà, ma c’è anche il dovere di chi viene accolto di rispettare tradizioni, costumi, fedi di coloro che lo accolgono.

Con questi brevi pensieri, auguriamo ogni successo a questo importante Convegno, di cui tutti sentiamo la necessità per un confronto veritiero in dialogo, e invochiamo copiosa la grazia e la misericordia dall’Alto, con la nostra Apostolica e Patriarcale Benedizione su tutti.

Fanar, 16 giugno 2019

giovedì 20 giugno 2019

Papa Benedetto XVI – Il Corpus Domini

Perché c’è tanta fame nel mondo? Perché tantissimi bambini devono morire di fame, mentre altri sono soffocati dall’abbondanza? Perché il povero Lazzaro deve continuare ad aspettarsi invano le briciole del ricco gaudente, senza poter varcare la soglia della sua casa? Certamente non perché la terra non sia in grado di produrre pane per tutti. Nei Paesi dell’Occidente si offrono indennizzi per la distruzione dei frutti della terra, allo scopo di sostenere il livello dei prezzi, mentre altrove c’è chi patisce la fame. La mente umana sembra più abile nell’escogitare sempre nuovi mezzi di distruzione, invece che nuove strade per la vita. È più ingegnosa nel far arrivare in ogni angolo del mondo le armi per la guerra, piuttosto che portarvi il pane. Perché accade tutto questo? Perché le nostre anime sono malnutrite, i nostri cuori sono accecati e induriti. Il mondo è nel disordine perché il nostro cuore è nel disordine, perché gli manca l’amore, perciò non sa indicare alla ragione le vie della giustizia.

Riflettendo su tutto questo, comprendiamo le parole con cui Gesù obietta a Satana, che lo invita a trasformare le pietre in pane: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Perché ci sia pane per tutti, deve prima essere nutrito il cuore dell’uomo.

Perché ci sia giustizia tra gli uomini, deve prima germogliare la giustizia nei cuori, ma essa non si sviluppa senza Dio e senza il nutrimento vitale della sua Parola. Questa Parola si è fatta carne, è diventata persona umana, affinché noi potessimo accoglierla e farla nostro nutrimento. Poiché l’uomo è troppo piccolo, incapace di raggiungere Dio, Dio stesso si è fatto piccolo per noi, così che possiamo ricevere amore dal suo amore e il mondo diventi il suo regno. Questo significa la festa del Corpus Domini. Il Signore che si è fatto carne, il Signore che è diventato pane, noi lo portiamo per le vie delle nostre città e dei nostri paesi. Lo immergiamo nella quotidianità della nostra vita, le nostre strade diventano le sue strade. Egli non deve restare rinchiuso nei tabernacoli discosto da noi, ma in mezzo a noi, nella vita d’ogni giorno. Deve camminare dove noi camminiamo, deve vivere dove noi viviamo. Il nostro mondo, le nostre esistenze devono diventare il suo tempio. Il Corpus Domini ci fa capire cosa significa fare la comunione: ospitarlo, riceverlo con tutto il nostro essere. Non si può mangiare il corpo del Signore come un qualsiasi pezzo di pane. Occorre aprirsi a lui con tutta la propria vita, con tutto il cuore: «Ecco, io sto alla porta e busso», dice il Signore nell’Apocalisse. «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui e lui con me» (3,20).

Il Corpus Domini vuole rendere percepibile questo bussare del Signore anche alla nostra sordità inferiore. Egli bussa forte alla porta della nostra vita d’ogni giorno e dice: «Aprimi! Fammi entrare! Comincia a vivere di me!». Questo non può valere soltanto un attimo, come di sfuggita, durante la santa Messa, e poi di nuovo come prima. È un’esperienza che attraversa tutti i tempi e tutti i luoghi. «Aprimi!», dice il Signore. «Come io mi sono aperto per te. Aprimi il mondo, perché io possa entrarvi, e possa così rischiarare la tua mente intorpidita, vincere la durezza del tuo cuore. Fammi entrare! Io per te mi sono lasciato squarciare il cuore». Il Signore dice questo a ciascuno di noi, lo dice alla nostra comunità nel suo insieme: fatemi entrare nella vostra vita, nel vostro mondo. Vivete di me, per essere veramente vivi. Ma vivere significa anche e sempre: donare ad altri. II Corpus Domini è un invito rivolto a noi dal Signore, ma è anche un grido che noi indirizziamo a lui. Tutta la festa è una grande preghiera: facci dono di Te! Da a noi il vero pane! Arriviamo così a comprendere meglio il Padre nostro, la preghiera per eccellenza. La quarta invocazione, quella per il pane, funge come da collegamento fra le tre invocazioni che riguardano il regno di Dio e le ultime tre che riguardano le nostre necessità. Che cosa chiediamo? Naturalmente il pane per oggi. È la preghiera dei discepoli, che non hanno capitali da parte, ma vivono della quotidiana bontà del Signore: perciò si mantengono in dialogo costante con lui, volgono a lui il loro sguardo, confidano soltanto in lui. E la preghiera di chi non vuole accumulare ricchezze, di chi non cerca una sicurezza mondana, ma si accontenta del necessario per avere tempo da dedicare alle cose veramente importanti. È la preghiera dei semplici, degli umili, di coloro che amano e vivono la povertà nello Spirito Santo.

Ma nella domanda del pane c’è un’altra profondità, il termine greco epioúsios, che noi traduciamo con “quotidiano”, non compare da nessun’altra parte, ma è tipico ed esclusivo del Padre nostro. Per quanto gli esperti discutano ancora sul suo significato, molto probabilmente vuole anche dire: dacci il pane di domani, cioè il pane del mondo a venire. In realtà, soltanto l’Eucaristia può essere la risposta a ciò che questa misteriosa parola, epioúsios, vuole indicare: il pane del mondo futuro, che già oggi ci è dato, affinché già oggi il mondo futuro abbia inizio in mezzo a noi.

Alla luce di quest’invocazione, la preghiera perché venga il regno di Dio e perché la terra diventi come il cielo assume grande concretezza: con l’Eucaristia il cielo viene sulla terra, il domani di Dio si compie già oggi e introduce nel mondo di oggi il mondo di domani.

Ma qui è come sintetizzata anche la richiesta di essere liberati da tutti i mali, dai nostri debiti, dal pericolo della tentazione: dammi questo pane, perché il mio cuore si mantenga vigile, perché possa resistere al male, perché sappia distinguere il bene e il male, perché impari a perdonare e sia forte nella tentazione. Soltanto allora il nostro mondo comincerà a essere veramente umano: se il mondo futuro diventa già in qualche misura l’oggi, se il mondo comincia già oggi a diventare divino. Con la richiesta del pane andiamo incontro al domani di Dio, alla trasformazione del mondo. Nell’Eucaristia ci viene incontro il domani di Dio, il suo Regno già oggi comincia tra di noi. E non dimentichiamo, infine, che tutte le invocazioni del Padre nostro sono espresse col “noi”: nessuno può dire “Padre mio” se non Cristo, il Figlio. Perciò noi, se davvero vogliamo pregare nel modo giusto, dobbiamo farlo con gli altri e per gli altri, uscendo da noi stessi, aprendoci.

Tutto questo è significato da quel “camminare insieme col Signore” che è, per così dire il segno distintivo della festa del Corpus Domini.

Dopo che Gesù ebbe terminato il suo discorso eucaristico nella sinagoga di Cafarnao, molti discepoli lo abbandonarono: era qualcosa di troppo impegnativo, di troppo misterioso. Le loro attese erano più che altro rivolte a una liberazione politica, tutto il resto sapeva ben poco di concretezza. Non è forse così anche oggi? Quante persone, nel corso degli ultimi cent’anni, se ne sono andate perché a loro avviso Gesù non era abbastanza “pratico”. Quello che poi, da parte loro, sono riusciti a realizzare è sotto gli occhi di tutti. E se il Signore oggi ci domandasse: «Volete andarvene anche voi?». In questa festa del Corpus Domini, insieme con Simon Pietro, noi con tutto il cuore vogliamo rispondergli: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68ss.).

J. RATZINGER [Benedetto XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-109

mercoledì 19 giugno 2019

L'Osservatore Romano: Economia Francescana

In questo momento assai delicato della nostra storia e del nostro presente, aggravato, tra l’altro, dalla più grande crisi economico-finanziaria dal 1929, Papa Francesco ha aperto uno spiraglio, convocando ad Assisi dal 26 al 28 marzo 2020 studiosi, economisti, uomini e donne di azienda dei cinque continenti, «per cambiare e ri-animare l’economia» promuovendo «un’ecologia integrale». Accogliendo la proposta del Pontefice di studiare e «cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso», un gruppo di studiosi (in particolare, Oreste Bazzichi, Dario Antiseri, Roberto Lambertini, Flavio Felice, Mauro Bontempi, Antonio Magliulo, Nicola Riccardi) introducono su queste colonne un dibattito su «The Economy of Francesco», aprendo una finestra sul fatto che sono le teorie economiche, nel caso della Scuola francescana di economia, ispirate da una prospettiva antropologica cristianamente orientata, a influenzare l’evoluzione economico-sociale. La pretesa di pensare le scienza economica confinata in un mondo privo di valori, credenze, fedi, tradizioni è un non senso; in breve, la proiezione della scienza come luogo eticamente neutro, laboratorio asettico, popolato da ricercatori in candide vesti i quali prescindono da una peculiare prospettiva antropologica che riempia di senso le loro scelte, appare sempre più smentita dalla realtà dei fatti. Gli articoli che seguiranno intendono contribuire alla riflessione sul contributo analitico fornito dalla Scuola francescana all’emergere della scienza economica e all’innesco dei processi di autentico sviluppo economico.
di Flavio Felice 
Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche,
Università del Molise, Campobasso



Origini della Scuola socio-economica francescana

Nel XIII secolo si è prodotta una svolta decisiva nella storia del pensiero: un cambiamento di paradigma nella cultura occidentale, individuato sia nel ritorno dell’aristotelismo averroista, accolto da Tommaso d’Aquino (unità del sapere), sia dall’introduzione del volontarismo da Giovanni Duns Scoto, che hanno comportato nelle due principali Università di Parigi e di Oxford, la formazione di due grandi Scuole filosofiche e teologiche: quella aristotelica-averroista-tomista (domenicana) e quella platonica-agostiniana-francescana, con due paradigmi diversi: uno nello spazio dell’intelletto e della razionalità, l’altro in quello della libertà creativa, volto di Dio e dell’uomo e del primato del bene.

Il giovane Francesco, è ben consapevole di questa svolta epocale e, a differenza della stabilitas loci dei Monasteri benedettini, isolati nelle campagne e nelle montagne, sceglie la città, lo stare in mezzo alla gente, per testimoniare e comunicare il Vangelo, predicando o lavorando o pregando o entrando in tutti gli ambienti delle periferie della città e ovunque ci sia un bisogno da cogliere. In questo modo i frati Minori instaurarono, all’insegna dello spazio della fraternitas, un profondo legame con la gente, con il territorio, con le comunità, con i gruppi dirigenti, con i governi locali e con le istituzioni socio-economiche e culturali; e ciò fu possibile grazie a questa profetica intuizione di Francesco, al suo bisogno smisurato di fraternità, come “bussola” contro la cupiditas e l’usura (interesse).

D’altra parte, la povertà, che è una delle questioni che Francesco sentì e visse maggiormente, era un problema cogente, perché veniva vissuta come un disonore, un demerito, una sconfitta. Nell’organizzazione sociale e civile c’erano i majores (i nobili, i governanti, i ricchi, i possidenti) e i minores (che vivevano del solo lavoro). Poi c’erano i poveri e gli esclusi: fraternità, minorità e povertà diventarono valori sociali. E quando i francescani analizzarono il significato della povertà e la scelta volontaria che loro avevano abbracciato, analizzarono necessariamente anche la ricchezza, e scoprirono un discorso tutto nuovo da elaborare sull’economia. Si guardò al capitale e al denaro in analogia con l’acqua, che è “umile, preziosa e casta” quando è acqua corrente, ma che, se ristagna, imputridisce e puzza. Il capitale è come l’acqua, quando circola è utile al bene comune.

Il francescanesimo, quindi, rappresenta nella storia dell’economia e della società un momento di grande importanza e, al tempo stesso, un “paradosso”: da un lato, “Madonna Povertà”, il distacco dai beni come segno di perfezione spirituale, dall’altro, diventa la prima Scuola socio-economica, che ispirerà i presupposti teorico-pratici del sistema dell’economia di mercato. Proprio il distacco assoluto dai beni e il vivere insieme al popolo crearono le condizioni culturali, sociali e spirituali, per una riflessione sul significato dell’economico, visto come luogo e strumento di reciprocità, partecipazione, relazione e realizzazione del bene comune. L’area da dissodare era proprio quella socio-economica. Da qui l’elaborazione di concetti, dedotti dal sistema teologico scolastico e ricavati direttamente dalla realtà economica e sociale così come si mostrava ai loro occhi (valore economico delle cose, interesse, mutuo, prestito, credito, debito, giusto prezzo, cambio, sconto, ecc.), riuscì a superare sul piano dottrinale e sul piano pratico l’ostacolo principale che limitava la crescita e lo sviluppo: la proibizione dell’interesse sui prestiti. Il francescanesimo è, quindi, anche una metodologia etico-sociale. Per questo la prospettiva teorica della Scuola francescana, per superare il divieto dell’interesse, parte dalla distinzione tra una somma di denaro qualsiasi e una somma efficacemente inserita o da inserirsi nel processo produttivo. Solo quest’ultima viene definita da fra Pietro di Giovanni Olivi (1248 – 1298) come “capitale” e solo a questa associò un valore aggiunto ( valor superadiungtus) legato alla possibilità di offrire un rendimento per il “lucro cessante”, in grado di far fronte al “danno emergente”. Accanto a lui ben figurano Giovanni Duns Scoto (1263/1266 – 1308), che argomenta a favore del diritto dell’imprenditore a ricevere un guadagno per la funzione resa alla comunità, sia trasferendo i beni da un luogo all’altro, sia producendoli o procurandoli, sia solo migliorandone la qualità; e Alessandro di Alessandria (1270 – 1314), suo successore alla cattedra di Parigi, che esplora l’arte campsoria, cioè l’attività di cambio della moneta, legittimando il guadagno del cambiavalute, perché il prestito o lo scambio monetario risultano utili a coloro che viaggiano in diverse regioni.

L’idea della produttività del capitale per lo sviluppo e il bene comune fu davvero rivoluzionaria e la si comprende se si considera che il denaro diventava etico quando veniva immesso nel processo produttivo per una finalità di benessere collettivo. E la felice intuizione dei Monti di Pietà — prodromi dell’odierne Casse di Risparmio e delle organizzazioni del credito cooperativo — per venire incontro alle famiglie e imprese con il “santo” microcredito fu un’istituzione cittadina, dedita all’assistenza, ma anche un’iniziativa di carattere economico-creditizio, che agì da ammortizzatore sociale in un contesto economico statico e soggetto a rapidi tracolli.

Secondo l’enciclica Caritas in veritate (n. 65) di Benedetto XVI questo metodo originale offre spunti e parametri per un rinnovato rapporto tra credito e cittadini anche oggi; e l’enciclica Laudato sì di Papa Francesco, dedicata “alla cura della casa comune”, si ispira al paradigma del pensiero francescano, dischiudendo una nuova forma e un nuovo modo di abitare Madre Terra.

di Oreste Bazzichi 
Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura-Seraphicum (Roma)

martedì 18 giugno 2019

Don Gianmario Pagano: Perché e come leggere i Vangeli

don Gianmario Pagano – Perché e come leggere i Vangeli

Qual è il modo migliore di leggere i Vangeli? Una lettura continuativa, ininterrotta, senza distrazioni, senza titoli, capitoli e versetti. Perché? perché i Vangeli sono stati scritti per essere letti così, come un musicista scrive una sinfonia per essere ascoltata interamente, di seguito, in una unità di tempo e di luogo, senza interruzioni.


sabato 15 giugno 2019

L'Osservatore Romano: Siamo fatti per “la mistica dell’incontro”

Il Vangelo della solennità della Santissima Trinità 


11 giugno 2019

Scriveva il grande teologo del ’900 Karl Rahner, che “Dio è l’ultima parola prima del silenzio adorante”. Questa intuizione illumina la domenica che viviamo: dinanzi al Mistero della Trinità tace la parola, si raccolgono in umiltà i pensieri, e ci si apre all’ardore di un silenzio adorante, abitato dallo stupore e dall’amore. Un Dio che si presenta come Padre, Figlio e Spirito Santo, unico in tre Persone divine, non lo puoi spiegare: devi adorarlo perché Egli stesso inondi di luce la vita e ti introduca nell’abisso infinito del Suo Mistero.

Eppure, la Santissima Trinità è una storia che riguarda la nostra vita. Ci rivela infatti che Dio non è un’idea astratta; Egli non è insensibile al travaglio della nostra storia umana, ma, anzi, è Padre che ama, che nella carne del Figlio accoglie la nostra umanità e la benedice, che ci consegna lo Spirito perché ci guidi e ci trasformi. Un Dio, potremmo dire, profondamente “coinvolto” nella nostra umana vicenda.

Quando diciamo Trinità, allora, diciamo anzitutto un Dio vivo che si interessa alla nostra vita. Ce lo illustra il breve Vangelo di questa domenica: il Padre ha comunicato tutto al Figlio e il Figlio lo offre a noi per mezzo dello Spirito, che ci guida gradualmente alla conoscenza della verità tutta intera.

Così, la Trinità diventa la storia che ci riguarda.

È un Dio che vuole comunicarci la Sua vita, e per questo non si limita a enunciare leggi dall’alto, ma si coinvolge nella nostra carne e lascia, in modo indelebile, il segno della sua presenza in noi nel dono dello Spirito Santo.

È un Dio che uscendo da se stesso per donarsi ci indica che la via della nostra felicità non sta nelle cose, nell’accumulo, nelle maschere dell’apparenza e nelle scalate del nostro io, ma nell’amore che ci apre all’incontro e si fa dono.

È un Dio che ci illumina su come nessuno vive davvero quando è solo, né può vivere solo per se stesso: la gioia di un incontro, di una relazione autentica, di un’amicizia, di un matrimonio, nasce dall’aprirsi a colui che è diverso da me. Un rischio, una scommessa, una fatica, ma anche l’unica avventura che vale la pena di vivere.

E mentre oggi la diversità ci spaventa, mette a repentaglio le nostre consolidate certezze e genera reazioni dettate dalla paura e dalla rabbia, il Dio-Trinità, da cui proveniamo, ci svela noi stessi: siamo fatti per “la mistica dell’incontro”, siamo fatti per amare. Nella vita di ogni giorno, basta questo.

di Francesco Cosentino

giovedì 13 giugno 2019

Jesus - Bisaccia del mendicante - Giugno 2019 di ENZO BIANCHI: "Tolleranza zero sul clericalismo"



Più nessuno ormai nega che nella chiesa cattolica si viva con molta fatica e molta sofferenza. Ogni giorno si registrano contrapposizioni gravi tra credenti, contestazioni pesanti alle parole e alle azioni di papa Francesco, mentre sui mass media vengono denunciati abusi sessuali o scandali finanziari ad opera di uomini di chiesa. L’istituzione ecclesiastica è sempre più screditata e soprattutto verso i presbiteri si è accresciuta una diffidenza che a volte appare addirittura “pretofobia”, paura dei preti.

Molti si chiedono cosa stia succedendo nella chiesa e sono tentati da una disaffezione che spegne ogni senso di appartenenza alla comunità dei discepoli di Gesù Cristo. Sappiamo anche quanto impegno sia stato dispiegato in questi ultimi anni per contrastare questo scandalo e per contenere il più possibile tali comportamenti delittuosi, criminali che sono anche contraddizioni gravissime al messaggio del Vangelo predicato. Da più parti si è giunti a invocare o decidere la “tolleranza zero”, espressione che, pur efficace nell’evocare l’indispensabile severità, resta non conforme all’agire cristiano che sa e deve condannare il male, operare per contrastarlo, arginarne la diffusione, curare le ferite da esso procurate alle vittime, ma sempre esercitando misericordia verso il peccatore.

Ormai si è anche giunti a spostare la battaglia sull’identificazione delle cause di una tale crisi morale nella chiesa, dimenticando che simili comportamenti delittuosi sono sempre stati presenti e che oggi – a differenza dei tempi passati – emergono con maggior frequenza ed evidenza perché nel mondo occidentale si è affermata una nuova cultura: cultura della trasparenza, della lotta contro ogni omertà, della difesa delle vittime, cultura dell’affermazione dei diritti contro ogni pretesa di esenzione dal giudizio da parte di chi detiene un’autorità.

È possibile che la rivoluzione sessuale degli anni sessanta del secolo scorso abbia contribuito a scatenare gli abusi là dove una certa ideologia proponeva una libertà sessuale senza regole, ma non dobbiamo dimenticare che gli abusi erano una realtà attestata all’interno delle stesse famiglie, tra gli educatori, nel mondo sportivo e tra i religiosi e i preti: tutto però avveniva tragicamente senza possibilità reali di denuncia.

Certamente il clericalismo, quale potere deviante, può indurre a un “divorare giovani prede”, ma è soprattutto l’immaturità ad abusare dei piccoli. Questo chiama in causa la responsabilità di chi è chiamato a discernere l’idoneità dei candidati al presbiterato, che non può essere ridotta alla propensione per comportamenti devoti e religiosi, ma deve essere misurata sulla maturità affettiva e sessuale di una persona.

Molte voci si alzano per chiedere l’abolizione del celibato come legge per i presbiteri, ma personalmente fatico a vedervi la soluzione del problema, soprattutto quando è il clericalismo che ingenera i comportamenti abusivi: clericalismo significa un tipo di autorità che riconosce solo subordinati in una società ineguale, una società nella quale ad alcuni è dato di dirigere e condurre tutti gli altri, i quali devono solo essere condotti come gregge docile che segue i suoi pastori; clericalismo significa sempre una scissione nel corpo ecclesiale e si nutre di un’affermata superiorità dei presbiteri sui battezzati, esercitata attraverso il “potere sacro”. Ciò che è servizio ai fedeli viene invece concepito e vissuto come potere da esercitare: così in un’ottica elitaria ed esclusiva il clericalismo non permette che l’autorità ecclesiastica sia discussa e giudicata ma anzi autorizza l’esenzione dall’indagine e dalla critica.

Può darsi che una nuova visione mondana della sessualità possa aver indebolito i freni inibitori e reso meno cogente l’esigenza dell’etica sessuale cristiana, ma questa crisi – che ha radici ben più lontane nel tempo – non va letta in modo superficiale né tanto meno incolpando sbrigativamente il mondo esterno alla chiesa: occorre assumere ogni responsabilità ecclesiale, individuare le radici del clericalismo, ristabilire un discernimento vigilante e severo sulle vocazioni e, tutti insieme, impegnarsi nel cammino di conversione alla spirito mondano al Vangelo. Questo impegno è un arduo cammino sinodale, in cui tutti i battezzati sono e devono sentirsi responsabili in prima persona della testimonianza del Vangelo di Gesù Cristo.

Lilia Sebastiani IL CONCRETO DELLO SPIRITO clericalismo: malattia della chiesa Rocca n° 12/2019

Lilia Sebastiani "Clericalismo malattia della chiesa"

Nell’ultimo articolo abbiamo ricordato le severe riflessioni di papa Francesco sugli abusi commessi da ecclesiastici, e in particolare sulla loro radice, da lui riconosciuta nel clericalismo.
La cura additata, al di là dei provvedimenti da adottare caso per caso, è in primo luogo un sincero impegno di coscientizzazione su questa vera e propria malattia della chiesa, affiorante purtroppo anche in persone innocenti e insospettabili.
Non intendiamo relativizzare i casi di abuso, solo ricordare che non sono tutto. Sarebbe evasivo curare solo le manifestazioni prescindendo dalle cause, o ricondurre tutto il problema al peccato e alla debolezza di singole persone.
Dal clericalismo derivano l’abuso di potere e di coscienza e l’abitudine all’insincerità: possono sfociare nel crimine dell’abuso sessuale, ma anche in abusi di altro genere, meno riconoscibili e perseguibili – perché non sempre si configurano come reati –, ma non meno gravi. La riflessione è spesso scoraggiata dal suo essere una malattia antica, in cui le responsabilità sono a volte inestricabili. Si potrebbe definire il clericalismo in molti modi; per ora basti dire che è quell’abitudine mentale per cui negli ambienti e nelle strutture di chiesa, in linea di principio, il peggiore dei preti vale/conta sempre più del migliore dei laici quanto a credibilità, rappresentatività e forza decisionale.
Dopo aver preso le mosse dalle recenti dichiarazioni del papa (Rocca 15 maggio), occorre tornare indietro e chiedersi come è possibile che questa malattia del clericalismo («... una perversione nella vita della Chiesa..., in quanto perverte quella che è la natura della Chiesa, del santo popolo fedele di Dio» (1), dice papa Francesco, riconoscendola endemica nella vita consacrata, e tuttavia presente anche in molti che chierici non sono), abbia potuto mettere radici nella comunità dei credenti in Gesù di Nazaret.
Qui gettiamo uno sguardo sugli inizi della separazione dicotomizzante tra clero e laici.
Agli inizi la dicotomia non c’è. Perché non c’è ‘clero’, e non ci sono quelli che chiamiamo laici, nemmeno come idea. La differenza di fondo è tra essere e non essere cristiano: una scelta forte, che di per sé basta a configurare la fisionomia della persona e a fondare una vita ‘altra’. I ministeri ci sono, e gradualmente prendono forma assumendo una fisionomia stabile nella Chiesa, ma non sono ancora sacralizzati.

una digressione su ministri e ministre

Si sa che la parola ministro (minister) deriva da minus, che significa ‘meno’ (come ‘maestro’, magister, da magis, ‘più’). Ma le parole non hanno solo un significato e un’etimologia: hanno una pluralità di significati, hanno una storia e delle risonanze. Dopo la fine dell’antichità, e anche prima, minister comincia a evolversi: dal significato di servo a quello di ‘maggiordomo’, di amministratore di fiducia, di collaboratore più influente, più autorevole di chi comanda..., fino a diventare ‘uno che comanda’ semplicemente.
In latino minister – finché significa semplicemente servo ed esprime un ‘meno’ – ha il suo femminile, regolarissimo: ministra. Poi, via via che il ministro non è più uno che obbedisce ma, sempre più, uno
che ha potere, la parola perde il femminile: ministra scompare dall’uso.
Quando poi viene ripescata, e siamo ormai nei nostri tempi e la parola appunto include l’idea di un potere, sembra che sia ‘strana’, che suoni male. (Come mai non suonava affatto così male, quando significava serva?). Nel linguaggio dell’informazione la parola viene reintrodotta negli anni ’80-’90, all’inizio però in modo critico, leggermente caricaturale.
Solo di recente ha riconquistato la sua neutralità di messaggio; forse nemmeno del tutto. Così anche le (non moltissime) donne che ricoprono la carica di ministro tuttora preferiscono, di solito, venire indicate con il termine al maschile, come se fosse più rispettoso nei loro confronti o più serio e affidabile, e pazienza se dovesse succedere di sentir dire «il marito del ministro» – e succede! – dove non si tratta di una coppia omosessuale.

padri maestri guide

Ovviamente nella chiesa ci sono persone diverse, e quindi differenti carismi, capacità, funzioni; in ogni organismo complesso c’è chi deve assumersi delle responsabilità per tutti. Il pericolo si delinea quando vi entra lo spirito di potere, e soprattutto quando la funzione viene sacralizzata. In prospettiva cristiana, l’unica differenza tra le persone, è data dalla pienezza di risposta allo Spirito: che guida ogni persona e le chiese e la storia, senza sovrapporsi alle scelte umane, senza svuotarle... Ma anche la risposta allo Spirito è una realtà incompleta e dinamica in cammino di trasformazione, non può etichettare nessuno.
Un passo del vangelo di Matteo (23,8-10), tanto famoso quanto apparentemente ininfluente nel vissuto ecclesiale, ricorda per bocca di Gesù a quelli che credono in lui di non chiamare «padre» nessuno sulla terra, e nemmeno «maestro» o guida. Ovviamente ciò non nega la paternità nel senso familiare e affettivo, e nemmeno l’importanza di una continuità e delle radici, del resto necessarie per poter andare oltre; non nega che dei maestri veri ci siano, per fortuna (e dei testimoni, in quanto tali superiori ai maestri, come ricordava Paolo VI); ma ricorda che queste figure non vanno assolutizzate e che nessuno resta o dovrebbe restare dipendente da padri o maestri per sempre – per quanto grandi e autentici possano essere affetto e riconoscenza ed eredità spirituale. Ed essere padre o maestro di qualcuno, pur se è importante e necessario, non fonda nessun primato.
Nella comunità dei discepoli di Gesù l’unico primato è quello del servizio.
Nessuno l’ha negato mai, a parole. Ma sappiamo che di rado questa grande verità è stata visibile e riconoscibile, soprattutto quando dagli individui si passa alle realtà istituzionali, che maggiormente fanno e segnano la storia. Non si può dire in senso forte «siamo/siete padri», «siamo/siete maestri», nemmeno quando si esercita davvero una paternità, con amore e per amore, o quando si insegna qualcosa a qualcuno sia pure molto bene. Anche perché chi è maestro in un campo, di solito, in altri campi ha bisogno di maestri; del resto anche nel proprio ne ha bisogno, se non vuole isterilirsi o essere una vox clamans in deserto.
Nel senso forte semmai si può dire solo «siamo fratelli/sorelle», e comportarsi di conseguenza. Vivere da cristiani ha bisogno di una riduzione dei ‘padri’ intesi come principio di autorità, di una valorizzazione dell’atteggiamento materno anche da parte degli uomini e delle istituzioni, e soprattutto di un incremento di fratelli e sorelle.
(Non dimentichiamo mai di esplicitare il femminile, per favore! È pericoloso considerarlo contenuto nel maschile: a forza di esser contenuto viene assorbito..., alla fine sparisce).

chierici/laici: da dove la dicotomia?

Nel Primo Testamento la parola sacerdote, come il ruolo, è molto presente e importante, anche se singole figure sacerdotali non sempre compaiono in luce positiva; e comunque nell’Alleanza il ruolo del sacerdote è molto inferiore a quello del profeta – pensiamo ai due fratelli Aronne e Mosè. Nel Nuovo però le cose cambiano.
La parola hierèus, sacerdote (connessa con hieròs, ‘sacro’) viene usata in un senso diverso.
A volte può ancora indicare le ben note figure sacrali giudaiche o pagane, quasi sempre però in modo critico se non negativo. Si può dire che l’unico sacerdote proprio ‘buono’ offerto dai vangeli sia Zaccaria, il padre di Giovanni Battista. Anche lui teologicamente non esente da qualche ombra, come si vede nella sua relativa esitazione iniziale ad aprirsi al nuovo di Dio: a causa di questa esitazione dovrà restare muto fino alla nascita del figlio, perché chi non ascolta con cuore aperto non è in grado di annunciare.
Nella parabola del buon Samaritano, in cui il laico-irregolare-samaritano è figura di Gesù, i due ‘uomini del sacro’, sacerdote e levita, proprio a causa del culto e dell’obbligo di purità non possono perder tempo a soccorrere un ferito mezzo morto – che, chissà, potrebbe anche essere morto del tutto,
perciò contaminante per chi lo tocca... –, e rappresentano un completo fallimento nella ‘prossimità’. I sacerdoti di Gerusalemme poi (influenti, ricchi, sadducei negatori della risurrezione finale e, per opportunismo, un po’ collaborazionisti dei romani) sono presentati come nemici di Gesù, attivi nel volere la sua morte. Luca nel libro degli Atti dirà che nella primissima comunità cristiana di Gerusalemme «anche molti sacerdoti si accostavano alla fede» (At 6,7): compiaciuto e un po’ sorpreso, come chi racconta un miracolo della Parola.
La parola sacerdote nel NT è usata con senso pieno solo in riferimento a Cristo e a tutto il popolo cristiano. Per i ministeri ecclesiali, quando cominciano a esserci (apostolo profeta e maestro, nelle comunità paoline; episcopo presbitero e diacono a partire dalla fine del I secolo), i primi cristiani adottano termini non sacrali, presi dal linguaggio corrente e dall’amministrazione civile: apostolo è l’inviato, chiunque lo invii; l’episcopo è il sovrintendente, il presbitero, mutuato dal giudaismo sinagogale, è l’‘anziano’, diacono significa servitore – e il servizio, diakonìa, diventa un valore centrale nel vissuto cristiano.
Per le funzioni ecclesiali si evita con ogni cura, senza eccezioni, il termine ‘sacerdote’ proprio del regime del sacro. È un regime che Gesù ha delegittimato per sempre. Le cose cambiano soprattutto quando da un cristianesimo di élite, eroico e almeno implicitamente critico verso il mondo circostante, si passa a un cristianesimo di massa. Non tutti hanno scelto di essere cristiani, non tutti si
comportano di conseguenza, non tutti sono testimoni... Allora sorge il monachesimo, per il bisogno di ricordare le esigenze della vita nuova in Cristo. All’inizio non ha a che fare con il sacerdozio: nemmeno nel senso di Ordine sacro. Dopo il Mille però la chiesa comincerà a ordinare quasi tutti i monaci e a ‘monasticizzare’ i preti, con pesanti conseguenze.

duo sunt genera christianorum

Il monaco camaldolese Graziano, autore verso il 1140 di un Decretum molto famoso (che influisce per secoli nella legislazione ecclesiastica, visibilmente almeno fino al Codice di diritto canonico del 1917), appare, se non come l’iniziatore, come il codificatore dei ministeri sacralizzati. E il passo più famoso del Decretum Gratiani è quello che comincia con l’espressione famosa e lapidaria: Duo sunt genera christianorum.
Duo genera: due tipi, due categorie, due classi, due ‘caste’. Ci sono gli «uomini sacri» per definizione; e ci sono i laici, non considerati sacri da nessuno (certo nemmeno da loro stessi), anche se battezzati.
«Ci sono due classi di cristiani. Una è quella che, assegnata al servizio divino e dedita alla contemplazione e alla preghiera, conviene si astenga da ogni stordimento di cose temporali; e questi sono i chierici e i votati a Dio, come i conversi. Infatti klèros in greco corrisponde a sors in latino: perciò uomini di tal sorta si chiamano clerici, cioè eletti per sorteggio. Tutti loro infatti Dio li ha scelti per suoi…».
E quegli altri, invece, a chi appartengono?
A parte il fatto che Graziano, il quale è monaco, considera nella prima classe, anzi in business, solo i monaci – le cose che dice infatti non sembrano interamente riferibili ai preti – dire che Dio ha scelto per sé i chierici trasmette l’idea che tutti gli altri siano ‘massa’ non solo indifferenziata ma profana, siano estranei alle cose di Dio… (no, non diciamo un po’ antipatici a Dio, ma ci manca poco).
«E questi in effetti sono re, cioè governano se stessi e gli altri nelle virtù. E così hanno il regno in Dio: e questo esprime la corona [dei capelli] sul loro capo. Hanno questa corona secondo l’uso della chiesa romana come segno del regno che si attende in Cristo. La rasatura del capo inoltre esprime la rinuncia a tutte le cose temporali. Essi, accontentandosi di avere da mangiare e da vestirsi, senza avere alcuna proprietà fra loro, devono avere tutte le cose in comune».
E poi… ecco i laici: «C’è però un’altra classe di cristiani, e questi sono i laici. Infatti laos in greco è populus in latino. A questi è consentito possedere beni terreni, ma solo per uso […]. A questi è concesso prendere moglie, coltivare la terra, giudicare fra uomo e uomo, sbrigare i processi, mettere le offerte sugli altari, pagare le decime; e così potranno salvarsi, purché abbiano evitato i vizi operando il bene».
La loro fisionomia di cristiani si riduce a una modestissima serie di concessioni e di obblighi, in cui l’essere cristiani non sembra neppure determinante. Ecclesialmente parlando, possono solo mettere le offerte sugli altari e pagare le decime. La santità non è per loro; e tuttavia «potranno salvarsi», grazie, purché si comportino bene, il che significa in sostanza obbedire alle direttive degli uomini di prima classe. E, soprattutto, pagare.
Sappiamo che nonostante l’affinamento del linguaggio ecclesiale dopo il Concilio, nonostante il diffondersi di un concetto biblico importante qual è quello di popolo di Dio, continua ad essere ben difficile per chiunque dare della parola laico una definizione che non sia in negativo, fondata su ciò che non è, su ciò che non può fare.
Un’altra cosa va sottolineata, perché non a tutti è nota. Per noi oggi risulta naturale, dicendo laici, intendere uomini e donne, anzi, sembra che le donne siano laiche proprio per loro natura ‘cromosomica’, e non possano essere altro; invece nei primi secoli della chiesa, con nostro stupore, quando si parla di laici sembra di trovarsi dinanzi a una categoria particolare all’interno dell’insieme dei cristiani, caratterizzata (almeno nella chiesa di Roma) da certi diritti/doveri e prerogative. In breve, i laici hanno il dovere di pagare le decime, e il diritto di accedere «se ne saranno degni» alle cariche ecclesiastiche. Il fatto che vi possano accedere finisce col collocarli praticamente al primissimo livello o livello zero della gerarchia ecclesiastica: un livello indifferenziato e potenziale, da cui comunque sono escluse le donne. Anche perché di solito non sono libere di disporre di sé e dei propri beni, e non pagano nemmeno le decime alla chiesa: sono proprio fuori-casta. Escluse insieme ai minorenni, ai malati di mente e alle persone di condizione servile. (2- continua)

Lilia Sebastiani

Nota
(1) Papa Francesco, La forza della vocazione: la vita consacrata oggi, interv. con Fernando Prado, EDB 2018.

martedì 11 giugno 2019

L'Osservatore Romano: La notte di Gesù «il veramente uomo»

 Una meditazione di Massimo Recalcati sul mistero della Passione di Cristo 

Ci sono momenti della vita di Gesù che rimangono avvolti da intere distese di silenzi. Credo che essi non nascano dalla mancanza di parole, ma solo dall’incapacità della parola stessa di poter “dire” qualcosa senza rovinare, dissacrare, o distrarre da ciò che quei fatti indicano nella loro essenzialità. È il caso della notte in cui Gesù venne al mondo: c’è stato bisogno di un intero immaginario cristiano di duemila anni per allargare e riempire di personaggi presepi nati per celebrare una gioia, ma forse anche per imbarazzo davanti al grande Mistero della Vita che viene al mondo senza troppi fronzoli ed effetti speciali. Anche della notte del Getsemani alla fine della vita di Gesù le indicazioni sono rade, le parole minime, e tutto viene affidato alla drammaticità dei gesti e delle scelte.

Sono momenti che i Vangeli narrano con poche pennellate di dettagli e descrizioni invitando non tanto a passare oltre, ma bensì a sostare, ad entrare, ad attraversare quel silenzio, ad abitare quelle notti. È il Mistero dell’inizio e della fine. In fondo la gioia come il dolore sono esperienze che si possono solo fare e quasi mai trasmettere con la sola narrazione. Massimo Recalcati, tra i più importanti psicoanalisti italiani, ormai ci ha abituato nei suoi scritti e nei suoi interventi a una frequenza con il “fatto” cristiano che travalica la semplice teologia o il mero tentativo di accordare la pratica psicoanalitica con l’esperienza di fede. I suoi lavori ci mostrano come proprio tra le pieghe più umane dell’animo di ognuno si nasconde tutta quella traccia del divino che Gesù mostra con la sua vita. C’è un’implicita affermazione: la fede non ci dice qualcosa di sovrumano o sovrapposto alla nostra esperienza, ma ci dice ciò che fa veramente uomo un uomo. La fede ci mostra ciò che di “veramente umano” si cela nell’esperienza di ognuno. Non è negare la divinità di Cristo ma è soprattutto non dimenticare mai che egli non solo è “veramente Dio”, ma anche “veramente uomo”.

Così dopo Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale (Raffaello Cortina 2017), Massimo Recalcati ha voluto raccogliere ne La notte del Getsemani (Torino, Einaudi 2019, pagine 104, euro 14) le sue riflessioni sulle ultime ore di vita di Gesù: «L’ora del Getsemani è l’ora della caduta di Dio, o, meglio, è l’ora dove il Dio cristiano si rivela essere “solo un uomo” intaccato radicalmente dal negativo (...) è l’ora in cui Dio appare spogliato; l’ora della caduta della sua gloria».

Infatti solo se Gesù ha fatto davvero la stessa esperienza di debolezza umana allora è credibile nella sua testimonianza. Nessun aiuto diverso se non il tentativo di assumere una posizione radicalmente nuova nella stessa esperienza drammatica che ogni uomo vive quando sperimenta l’angoscia, il tradimento, l’abbandono, il silenzio di Dio. Scrive Recalcati che «la predicazione (di Gesù), per essere credibile, deve trovare ora la sua verità nella testimonianza. Non c’è infatti, nella prospettiva di Gesù, alcuna verità possibile senza la sua testimonianza. Questo significa che la verità del Verbo consiste solo nella sua incarnazione. È l’ermeneutica etica radicale del cristianesimo: la lettera senza testimonianza è lettera morta; senza cuore — senza desiderio — non si dà alcuna possibilità di intendere il senso della Legge. (...) La parabola e la predicazione lasciano il posto alla preghiera».

Gesù, sembra suggerirci Recalcati, è diventato egli stesso ciò che ha sempre predicato. Solo a partire da questa credibilità di fondo possiamo inabissarci nelle tappe scandite dal testo di Recalcati. Innanzitutto “la caduta”: «La forza della lezione cristiana consiste nel pensare che solo chi conosce la caduta può conoscere la sua gloria». L’esperienza di Gesù indica che il fallimento non è uno scarto della vita, ma un momento importantissimo in cui la vita può trasformarsi e diventare davvero sé stessa. Solo quando non ci sottraiamo dalla possibilità della caduta allora possiamo anche imparare una lezione da essa, e divenire noi stessi una lezione, una testimonianza. Ecco perché la prima declinazione della caduta di Gesù avviene attraverso l’alfabeto del tradimento: «Il tradimento non viene mai dallo sconosciuto, ma da chi ci è prossimo — dal più prossimo — da colui nel quale riponevamo la nostra piena fiducia. Il tradimento dello sconosciuto può avere solamente la natura dell’inganno (...). Si può tradire solo chi ha veramente riposto in noi la sua fiducia, solo chi ci ha riconosciuto come essenziale per la sua vita: il proprio maestro, il proprio amico, la propria donna, il proprio uomo».

Ed è qui che si incontrano e si distinguono le figure di Giuda e di Pietro. Recalcati legge il tradimento di Giuda come la delusione del politico che non trova in Gesù il cambiamento sperato, la scelta deliberata, politica, schierata, ideologica. È la delusione dell’idealizzazione che egli ha fatto di Gesù. Non sopporta che quell’uomo sia diverso dalle sue aspettative. Lo tradisce deliberatamente con un gesto liberatorio che in realtà lo porterà invece a togliersi la vita. Pietro invece è colui che non è deluso nella sua idealizzazione, ma è colui che pur sentendo una profonda fedeltà nei confronti del Maestro non riesce a reggere la paura, la minaccia, il pericolo a causa di questo amore: «Il suo tradimento rivela una contraddizione che appartiene all’umano: non sempre siamo all’altezza del nostro amore, non sempre siamo coerenti con il nostro desiderio».

Ecco perché, sostiene Recalcati, Pietro piange: «Il pianto di Pietro non mostra la fine di un amore, ma la sua ripartenza dopo la caduta». L’amore per qualcuno deve contemplare anche la possibilità di non esserne sempre all’altezza, di poter sbagliare, cadere.

Ma è nell’esperienza dell’incontro con l’abbandono del Padre che Gesù deve confrontarsi con una caduta più profonda del tradimento degli amici. È soprattutto nel silenzio di Dio: «È dalla strettoia difficile del silenzio che la parola di Gesù deve passare; attraversare il silenzio inumano di Dio».

E che cosa accade quando la nostra preghiera, la nostra invocazione si scontra con il muro del silenzio? «Quando la preghiera non trova alcuna risposta assume la forma del grido». Forse è questo il motivo per cui Gesù muore gridando. Recalcati aggiunge che accanto a questa “prima preghiera” Gesù pone una “seconda preghiera”: «Il silenzio dell’Altro lo ha costretto a modificare la sua posizione, lo ha costretto a trovare la Legge nel proprio cuore, a non ricercare la Legge nel luogo dell’Altro. Nella sua “seconda preghiera” non chiede più di sospendere la Legge, ma esige la sua assunzione». È un po’ come voler dire che Gesù davanti all’impossibilità di vedere un destino diverso, fa un atto rivoluzionario: sceglie ciò che non ha scelto, e si pone così in una posizione non più di chi subisce, ma di chi torna protagonista. È il valore di prendersi la responsabilità del proprio destino invece di volergli costantemente sfuggire. Solo un atto estremo di fiducia può indurci a un gesto simile. Una preghiera così nasce solo da un atto di fede, e non da un mero calcolo.

Recalcati non svela il Mistero di quella notte, ma ci aiuta ad attraversarla senza sprecare quel passaggio. Non tutto capiamo della “notte”, ma qualcosa possiamo comunque imparare anche quando il cielo sembra non aiutarci. Sembra avventurarsi per strade nuove o comunque poco attraversate. È difficile trovare contraddizione con il Vangelo nel suo lavoro, pur essendo la sua una lettura laica, senza nessuna pretesa teologica e men che meno apologetica. Credo che Recalcati sia un’occasione da non sprecare perché può aiutare la narrazione cristiana a poter ridire ciò che ha sempre detto senza mai perdere la sua connaturale ed essenziale novità.

10 giugno 2019
di Luigi Maria Epicoco

domenica 9 giugno 2019

SettimanaNews: Pentecoste. Parole e cuore di fuoco

Nico Guerini

Ignis vibrante lumine
linguae figuram detulit,
verbis ut essent proflui
et caritate fervidi.

Fuoco vibrante e splendido
forma di lingue assume:
parole ardenti scorrono,
la carità s’infervora.

La seconda strofa dell’Inno di Lodi (Beata nobis gaudia) offre un grappolo di figure che descrivono in maniera condensata la modalità e l’effetto della discesa dello Spirito Santo.

Due sono le immagini base: il fuoco e la lingua; due sono le conseguenze del loro apparire: la ricchezza del linguaggio e l’ardore della carità. Sono i due aspetti di uno stesso prodigio, due forme in cui si materializza la presenza dello Spirito: il linguaggio dell’annuncio, sostanziato e reso “vero” dai gesti di carità.

Ho sempre avuto difficoltà a parlare dello Spirito Santo con la lingua della “teologia”, parola che metto tra virgolette per non offendere tanti teologi dei giorni nostri, ma anche perché, purtroppo, negli anni dello studio me ne è stata offerta una versione indigesta e indigeribile.

Erano tempi in cui si pensava che la “ragione” fosse lo strumento principe per spiegare i “misteri” della fede. Stagione conclusa – spero –; modalità che per me è finita molto presto nel dimenticatoio, vista l’impossibilità di tradurla in catechesi viva e vitale, e provvidenzialmente travolta in me mediante un contatto assiduo con gli scritti dei Padri e degli autori monastici medievali.

La mia percezione è da moltissimo tempo in accordo totale con quanto scrive Isacco della Stella, che identifica tre teologie: quella apofatica, che, rispettando il mistero, parla di Dio al negativo, affermando ciò che egli non è; quella razionale (vedi sopra), da lui definita “povera e angusta”; e quella simbolica che parla per immagini (Sermone 22,9). Da tutti i punti di vista, sia per l’esplorazione del mistero sia per la sua trasmissione nella catechesi, è quest’ultima che si rivela essere la più feconda, la più utile e, alla fine, paradossalmente, la più “pratica”.

Il fuoco
Partiamo dalle immagini, dunque. La strofa mette al centro quella del fuoco che, insieme all’acqua e al vento, è una delle metafore più note per dare allo Spirito il nome di realtà che conosciamo bene. Si tratta peraltro di realtà “elementari” nel senso che, insieme, costituiscono il fondamento stesso della creazione. È noto, infatti, che fin dall’antichità l’universo era inteso come composto da quattro “materie”: la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco, appunto. Assumere queste immagini per descrivere lo Spirito è già un dichiarare che proprio lo Spirito è all’origine di tutti gli esseri (Gen 1,2), e tutti li sostiene e li riempie (Sap 1,7).

Questa strofa mette al centro il fuoco, cui aggiunge, anche se in modo obliquo e suggestivo, qualche riferimento all’acqua, come si vedrà.

Il fuoco è qualificato in modo straordinario, e forse non è neanche la prima cosa che viene in mente. Si tratta certo di una “luce”, e questo potrebbe anche essere scontato, ma è una luce che “vibra”, letteralmente che “scintilla”, come significa il verbo in latino.

Qui appare un primo collegamento tra il fuoco e l’acqua, perché lo scintillio luminoso evoca sia la goccia di rugiada sospesa su un filo d’erba, e che la luce dell’alba rende iridescente, sia il tremolio vivacissimo e incessante delle onde di un lago o del mare quando sono ferite dal sole.

Questo vibrare, già di per sé segno evidente di una “vita”, che è “movimento”, assume nel secondo verso la figura più precisa delle “lingue”, secondo il racconto di At 2,3. L’immagine introduce la funzione dello Spirito direttamente nel campo del linguaggio propriamente detto. E però, di che lingua si tratta?

Ho trovato nella Lettura che il Breviario riporta per la memoria di san Norberto di Xanten (6 giugno) una sintesi davvero mirabile di cosa operi quello che lì è chiamato verbum Dei ignitum, parola infuocata di Dio. Sono indicati tre effetti della sua azione: «brucia i vizi, acuisce le virtù (acuens virtutes), arricchisce di sapienza le anime ben disposte».

Qui tornano alla mia mente immagini legate all’infanzia e al mondo del villaggio contadino degli anni ’40 in cui sono nato e cresciuto.

La prima riaccende nella memoria i fuochi che ardevano sulle colline quando si bruciavano i rami secchi dopo la potatura delle viti. Inevitabile riprendere da Gesù la stessa immagine della potatura (Gv 15,) che egli utilizza per insegnare che, come per le viti, così per noi certi tagli sono necessari per eliminare quanto rischia di soffocare la crescita e, di riflesso, per rendere più vitale la pianta chiamata a portare frutti.

Ho tradotto alla lettera il verbo acuo riferito alle virtù, evitando la parafrasi che appare nel Breviario italiano, perché un’altra immagine legata al fuoco mi è tornata alla memoria. Ed era quando, nella fucina di casa, il papà, dopo aver scaldato e ammorbidito sui carboni il tondino di ferro, lo batteva con il martello per trasformare in “punta” la terminazione piatta. Acuire le virtù significa, credo, portarle a un punto di malleabilità che le renda utili e funzionali (non è un esito scontato!), e per questo occorre passare attraverso il fuoco, quello dello Spirito.

Dopo la purificazione dai vizi e l’affinamento delle virtù, siamo pronti a offrire quella “sapienza” che arricchisce le anime ben disposte. Qui ritrovo il fuoco della cucina, quel fuoco che serve a rendere i cibi commestibili, e pure gustosi. È il caso di ricordare che sapienza non significa solo conoscenza, ma anche sapore, quello che deriva da ciò che si conosce, e che passa in chi riceve tale conoscenza. Anche a questo serve il “sale” che riceviamo nel battesimo (Mt 5,13), che viene ad aggiungersi all’acqua e al fuoco che ci trasmettono lo Spirito della rinascita a vita nuova.

Il fervore della carità
Gli ultimi due versi traducono sinteticamente il duplice frutto che deriva dalla discesa in noi dello Spirito di Pentecoste. Si tratta di acquisire, nutrire e alimentare un nuovo linguaggio: quello delle parole e quello del comportamento.

Nella traduzione, il poco spazio ha costretto a eliminare quell’ut (affinché) che dirige inequivocabilmente sugli apostoli e sul giorno di Pentecoste il realizzarsi di questi due effetti. Il risultato, però, che rende più generica l’affermazione dell’inno, non contraddice il testo: solo ne fa un’affermazione che si estende a tutti i cristiani di tutti i tempi.

La prima conseguenza in chi riceve lo Spirito è che egli diventa una fontana di parole. L’immagine liquida è nell’aggettivo proflui, che indica uno scorrere generoso, come si è cercato di rendere nella traduzione.

Non si tratta, ovviamente, di qualsiasi parola: quella dello Spirito non è la scuola del cicaleccio futile, delle chiacchiere vacue e delle vanterie esibizioniste, e ancor meno delle parole che disprezzano, che insultano, che deprimono.

Le sue sono parole di fuoco, del genere di quelle che funzionano come si è detto sopra.

Il loro scopo è illustrato nell’ultimo verso: il fervore (altra immagine di fuoco) della carità. Qui siamo al cuore del messaggio della Pentecoste, quello che si materializza nel fenomeno più noto legato a quel giorno: il convergere delle lingue in un’unica lingua, quella dell’amore, che tutti comprendono, e che affratella tutte le genti e tutti gli idiomi.

Cruciale è capire il legame inscindibile che unisce parola e gesto, due aspetti dello stesso fuoco che rende presente l’azione dello Spirito nel mondo. Capita ogni tanto che l’azione venga sbilanciata in un verso o nell’altro.

È uno squilibrio riconducibile a quell’altro binomio che rimane imprescindibile nella trasmissione del messaggio cristiano: la conoscenza e la pratica, la verità e la carità, la lingua delle parole e quella dei comportamenti. Tale binomio è già stato perfettamente intersecato nella Lettera agli Efesini, dove è scritto: veritatem facientes in caritate (Ef 4,15). La “verità” per essere tale va “fatta” (Gv 2,21), non basta proclamarla.

È stato ripetuto tante volte che è meglio «essere» cristiani che «dire di esserlo» (Ignazio di Antiochia), e tanto basti.

Accade addirittura che si predichi meglio con l’esempio che con le parole. Come disse Paolo VI nella sua enciclica dedicata all’annuncio del Vangelo: «La gente oggi ascolta più volentieri i testimoni che i maestri e, se ascolta i maestri, è soprattutto in quanto sono pure testimoni». Per questo nella Chiesa contano più i santi dei teologi, e il vertice è raggiunto da quelli che riuniscono in sé le due qualità.

Questi sono i vertici, ma a ciascuno di noi è chiesto, secondo le sue possibilità e le sue misure, di rendere visibile l’azione dello Spirito con la parola e con l’esempio, esempio che rende vera la parola, parola che spiega il senso, le ragioni, la praticabilità di ciò che si trasmette con l’esempio. Le due azioni sono necessarie, anche se possono appartenere a persone diverse e a diversi momenti. Tutto però si riunisce in una visione di Chiesa come di un’orchestra: gli strumenti e i timbri sono diversi ma, se c’è accordo, la musica che ne nasce è bella, e una sola (cf. 1Cor 12,4).