giovedì 19 dicembre 2019

Raniero Cantalamessa "Ritorno a Greccio"

VP PLus:Vita e Pensiero.
14 dicembre 2019

Conosciamo la storia di Francesco che a Greccio, tre anni prima della morte, dà inizio alla tradizione natalizia del presepio. Papa Francesco l’ha ricordata nel recente viaggio a Greccio dove ha firmato la sua lettera sul presepio.
È importante notare l’intenzione e lo scopo che mosse il santo: “Vorrei, diceva, rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva tra il bue e l’asinello”.

“Vedere con gli occhi del corpo”: in questo particolare è espresso il rapporto originalissimo che Francesco ha con la persona di Cristo e con i misteri della sua vita. Essi non sono per lui dei concetti e delle astrazioni, o dei semplici “misteri”. Sono realtà vive, concrete e palpitanti. Francesco ha ridato “carne e sangue” ai misteri del cristianesimo spesso “disincarnati” e ridotti a puri concetti e dogmi nelle scuole teologiche e nei libri.

C’è un canto natalizio, il più popolare in Italia, che esprime alla perfezione i sentimenti di San Francesco davanti al presepio e cioè lo stupore e la commozione di fronte all’amore del Salvatore che lo spinge a farsi povero per noi. È il canto “Tu scendi dalle stelle” scritto, parole e musica, da sant’Alfonso Maria de Liguori. Il canto si sofferma anch’esso sui disagi reali e pratici del Bambino a cui “mancano panni e fuoco”, che scende dal cielo e viene “in una grotta al freddo e al gelo”.

Per Francesco, Natale non era però soltanto l’occasione per piangere sulla povertà di Cristo; era anche una festa che aveva il potere di fare esplodere tutta la capacità di gioia che c’era nel suo cuore. A Natale, il Poverello faceva letteralmente pazzie. “Voleva – scrive il suo primo biografo – che in questo giorno i poveri edi mendicanti fossero saziati dai ricchi, e che i buoi e gli asini ricevessero una razione di cibo e di fieno più abbondante del solito. Se potrò parlare all’imperatore – diceva – lo supplicherò di emanare un editto generale, per cui tutti quelli che ne hanno possibilità, debbano spargere per le vie frumento e granaglie, affinché in un giorno di tanta solennità gli uccellini e particolarmente le sorelle allodole ne abbiano in abbondanza” (Celano, Vita Seconda, 151).

Diventava come uno di quei bambini che stanno con gli occhi pieni di stupore davanti al presepio. Durante la funzione natalizia a Greccio, racconta il biografo, quando pronunciava il nome ‘Betlemme’ si riempiva la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesú’, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole”.

Purtroppo è successo all’arte del presepio quello che è successo all’arte sacra in genere: la rappresentazione diventa facilmente fine a se stessa; è la sua bellezza e originalità che conta, più che il mistero in essa rappresentato. Anziché finestre aperte sull’infinito, l’immagine sacra diventa come certe finestre “cieche” negli affreschi barocchi. Nel caso del presepio, la bellezza artistica, la tecnica e la novità (qualche volta la stranezza) della rappresentazione rischiano di essere l’unica cosa a cui si guarda e che attira la gente. Non sono da disprezzare queste cose e neppure le gare e le mostre di presepi. Papa Francesco ha scritto la sua lettera proprio per incoraggiare e mantenere viva la bella e santa tradizione del presepio in tutte le sue forme, pubbliche e domestiche. Il ricordo di Greccio dovrebbe aiutarci però a guardare il presepio con altri occhi, con gli occhi, appunto, del Poverello.

Potremmo chiederci: ha ancora senso il presepio e la rappresentazione sacra in genere, oggi che la parola scritta e pronunciata è a disposizione di tutti? Il loro bisogno nasce oggi da un motivo diverso, ma non meno urgente che nel passato, quando le immagini e le sacre rappresentazioni erano “la Bibbia dei poveri”. Viviamo in una cultura che ha fatto dell’immagine il veicolo di comunicazione principale. Il valore perenne dell’immagine e della rappresentazione visiva nasce dal carattere sintetico e riassuntivo che essa possiede e che permette a chi guarda di abbracciare con un solo colpo d’occhio tutta una vicenda e una storia. Per una società “frettolosa” come la nostra, questa caratteristica è di grande importanza. C’è un motivo ulteriore per mantenere in vita la tradizione del presepio. I bambini sono oggi inondati di immagini violente; sarebbe un peccato privarli della possibilità di contemplare immagini di pace, di semplicità e di poesia come quelle del presepio.

Alcuni vorrebbero eliminare la tradizione del presepio e di altri simboli natalizi con il pretesto di favorire in questo modo la convivenza pacifica con credenti di altre religioni, in pratica con gli islamici. In realtà questo è il pretesto di un certo mondo laicista che non vuole questi simboli, non dei musulmani. Nel Corano c’è una Sura dedicata alla nascita di Gesú che vale la pena conoscere. Dice: “Gli angeli dissero: “O Maria, Iddio ti dà la lieta novella di un Verbo da Lui. Il suo nome sarà Gesù [‘Isà] figlio di Maria. Sarà illustre in questo mondo e nell’altro… Parlerà agli uomini dalla culla e da uomo maturo, e sarà dei Santi”. Disse Maria: “Signore mio, come potrò avere un figlio, quando nessun uomo mi ha toccata?”. Rispose: “Proprio così: Iddio crea ciò che Egli vuole, e quando ha deciso una cosa, le dice soltanto ‘sii’, ed essa è” (Corano, sura III, 45-47).

La venerazione con cui il Corano ricorda la nascita di Gesú e il posto che occupa in essa la vergine Maria ha avuto di recente un riconoscimento inatteso e clamoroso. L’emiro di Abu Dhabi ha deciso di dedicare a Mariam, Umm Eisa,”Maria Madre di Gesú”, la bellissima moschea dell’emirato che prima portava il nome del suo fondatore, lo sceicco Mohammad Bin Zayed.

venerdì 13 dicembre 2019

Il coraggio di cambiare in profondità

Le sfide della Chiesa in Italia a sei anni dall’«Evangelii gaudium»

L'Osservatore Romano del 10 dicembre 2019

Ha compiuto recentemente sei anni l’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Il “manifesto” programmatico di Papa Francesco, preludio di una serie ininterrotta di parole e di gesti del successivo magistero, oltre agli innegabili guadagni teologico-pastorali ha finalmente riaperto le porte a un rinnovamento della spiritualità cristiana, il cui punto cardine non risiede nella sottolineatura del peccato e del sacrificio e nella conseguente visione “meritocratica” del rapporto con Dio, quanto piuttosto nella gioia dell’incontro con Gesù, che rinnova e trasforma la vita e innesca la liberazione di Dio nei processi storici e sociali. In tal senso, Evangelii gaudium tenta una delicata riscrittura della grammatica del credere, così come della relazione tra peccato e misericordia, tra sacrificio e spirito della Pasqua, tra esperienza personale e urgenza missionaria.

Ma c’è di più. Il punto nodale dell’esortazione, e se vogliamo il suo contenuto profetico, è nell’invito a una conversione pastorale della Chiesa in senso missionario, che dovrebbe tradursi in un imprescindibile rinnovamento ecclesiale: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (Evangelii gaudium, 27). Come più volte sottolineato in interventi e discorsi successivi, non si tratta di un ritocco estetico o di un restauro di facciata, tantomeno di ridursi ad assumere lo slogan del momento senza che ciò incida nella realtà ecclesiale concreta, quanto piuttosto una presa di coscienza finalmente coraggiosa, che ci aiuti a cambiare in profondità: «La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità» (Evangelii gaudium, n. 33).

In una parola, occorre prendere realmente sul serio la situazione ecclesiale, pastorale ma ancor prima socio-culturale e, senza fingimenti e retoriche ecclesiali, agire per un profondo cambiamento del modello di Chiesa, della forma di parrocchia e dello stile pastorale. Un invito pieno di respiro quello di Evangelii gaudium e, di contro, una Chiesa italiana che sembra essere lenta nella ricezione reale del documento e nelle sue implicazioni ecclesiali e pastorali, piuttosto timida invece che audace nell’individuare percorsi e strumenti di rinnovamento, a tratti quasi affaticata nel seguire la spinta propulsiva del momento presente.

Naturalmente si incontrano in diverse terre d’Italia, piccole e grandi comunità in cui si respira la vivacità del popolo di Dio, il desiderio di approfondire, e anche qualche coraggioso tentativo di innovazione. Tuttavia, ciò che permane nel “sentire” generale, e che purtroppo coinvolge in primis le gerarchie, è una lettura di fondo che fa da presupposto alle analisi pastorali, secondo la quale lo stato di salute del cattolicesimo italiano non è così grave da esigere cambiamenti troppo rivoluzionari e, tutto sommato, le cose funzionano ancora bene.

I motivi di un tale orizzonte interpretativo sono diversi, a cominciare dalla fatica della Chiesa italiana ad accettare il radicale cambiamento culturale avvenuto negli ultimi decenni e, di conseguenza, a immaginare ancora una Chiesa che poggia le sue forze sulle strutture organizzate e su una presenza esplicita e massiccia negli spazi sociali ed esistenziali. Il tutto, in una sorta di apatica e ingenua fiducia sui frutti della semina, immaginando ancora un humus cristiano delle famiglie e della società che, in realtà, non esiste più da tempo. In quest’ottica, la pastorale procede come sempre — col catechismo in stile scolastico, l’automatismo dei sacramenti, qualche altra attività in cui ruotano i fedelissimi — restando imprigionata e anche risucchiata da opere di autopreservazione. Esse certamente custodiscono in qualche modo quello che c’è, ma in realtà, non trasmettendo la fede del futuro, finiscono per togliere futuro alla fede.

Rivolgendosi ai partecipanti al Congresso internazionale della pastorale delle grandi città, nel 2014, Papa Francesco ha affermato l’urgenza di «attuare un cambiamento nella nostra mentalità pastorale. Si deve cambiare!... Veniamo da una pratica pastorale secolare, in cui la Chiesa era l’unico referente della cultura. È vero, è la nostra eredità… Ma non siamo più in quell’epoca. È passata». Si deve cambiare, non c’è dubbio. E ci sono una serie di questioni che incalzano la Chiesa italiana e che, solo a mo’ di elenco, mi permetto di citare.

La prima riguarda l’attuale crisi della trasmissione della fede, che invoca un nuovo modello di comunità non più centrata sul ministero del prete, ma capace di un effettivo coinvolgimento responsabile del laicato, cosicché il rinnovamento pastorale possa generare nuovi spazi di annuncio del Vangelo e proposte innovative per coloro che sono lontani e indifferenti alla fede. La seconda sfida riguarda la rottura tra le istanze del Vangelo e la grammatica della vita quotidiana, che richiede una nuova centralità della Parola di Dio e una nuova evangelizzazione capace di favorire quell’incontro vivo con Gesù auspicato da Evangelii gaudium. Non si può insistere con una “morale da catechismo” senza che la vita dei nostri destinatari sia stata prima trasformata dall’incontro con la Parola di Dio. La terza sfida riguarda la necessità di un’autentica e integrale formazione cristiana che, oltre a contrastare il dilagante analfabetismo biblico e talvolta dottrinale, incoraggi in modo definitivo l’abbandono di un’identità cristiana usata come scudo, come simbolo e come presidio dell’eredità culturale, in una mentalità da ghetto e con atteggiamenti aggressivi. Bisognerebbe invece orientare i credenti a una maggiore consapevolezza dello specifico contributo che essi sono chiamati a offrire nell’ambito sociale, culturale e politico, e cioè offrire uno stile diverso dalla rabbia e dal rancore che spesso campeggia nella vita reale del Paese.

Ovviamente, a queste sfide è connesso il rinnovamento della parrocchia, l’aggiornamento di alcuni linguaggi della fede e anche una serie di domande che in qualche modo pongono sotto verifica la condizione del cattolicesimo italiano: è normale che vi siano ancora credenti la cui esperienza di Dio rimane confinata al solo gesto isolato della domenica? È normale che vi siano credenti convinti e impegnati, che esprimono preoccupanti e addirittura aggressive chiusure nei confronti dello straniero? È possibile che Papa Francesco venga quasi quotidianamente attaccato — non da settori di fantomatico laicismo, ma dal conservatorismo cattolico — e pochi, anche tra i vescovi, sono coloro che chiaramente esprimono una parola autorevole a sostegno del suo magistero?

Questioni, sfide, domande e urgenze di rinnovamento, che forse invocano un’approfondita e reale riflessione — un sinodo? — da parte dell’intera Chiesa italiana.

don Francesco Cosentino

Enzo Bianchi "Si è avviato un cammino per tutte le chiese"

Vita Pastorale - Dove va la chiesa - Dicembre 2019

Si è da poco concluso un sinodo per molti aspetti inedito e che – dobbiamo riconoscerlo – ha di fatto avviato un processo nella vita della chiesa, un processo che non pare facilmente arrestabile e che contiene una dinamica riguardante non solo l’Amazzonia.
Perché i problemi in esso posti e discussi e le vie da percorrere intraviste riguardano tutta la chiesa presente nei diversi continenti della terra.

Certo, è stato un sinodo per molti aspetti “blindato”, perché non sono stati pubblicati gli interventi dei padri sinodali, mentre le sintesi offerte alla stampa non permettevano neppure ipotesi circa la paternità degli interventi. Ma questa misura di prudenza ha garantito che non ci fossero letture divisive, capaci solo di registrare conflitti e contrapposizioni e, soprattutto, di far emergere schieramenti induriti. Sì, la libertà salvaguardata dalla non pubblicazione degli interventi è stata non solo garantita ma anche praticata con audacia e parrhesía, senza paura da parte dei padri sinodali di essere stigmatizzati come infedeli alla tradizione o addirittura in contraddizione con la dottrina cattolica.

Anche perché, alla vigilia e durante il sinodo stesso, si era manifestata una forte opposizione all’Instrumentum laboris anche ad opera di cardinali, oltre che di vescovi e teologi. Nella nostra chiesa regnano molte paure, l’aprire cammini è sentito come temerario e forze tradizionaliste si mostrano efficacemente sempre più allarmate e allarmanti, non solo critiche, ma pronte a esercitare un ministero di condanna che pretende di discernere l’eresia addirittura nel corpo episcopale e nel successore di Pietro. È ormai in atto l’esercizio dell’occhio cattivo (cf. Mt 20,15), dell’occhio che spia, che si nutre di giudizio e di condanna e non sa più che cosa siano né la misericordia né il primato della carità su ogni espressione di verità (cf. Ef 4,15).

In verità il sinodo si è svolto in un clima sereno e fraterno, c’è stato molto ascolto reciproco, senza le temute rigidità; si sono condivise esperienze impensabili eppure realmente vissute nelle chiese; si è dato voce al grido dei poveri, ritenuti non solo destinatari della carità ma vero magistero per la chiesa; e per la prima volta hanno potuto far sentire la loro voce persone non credenti ma esperte su alcuni temi trattati dal sinodo, come l’emergenza ecologica, che resta la minaccia più prossima e più preoccupante al nostro orizzonte. La conversione richiesta dal sinodo è integrale: pastorale, culturale, sociale ed ecologica. Solo così la chiesa potrà essere pienamente madre di questi popoli amazzonici. E sia detto chiaramente: al centro dell’intero dialogo sinodale c’è sempre stato il Cristo, Signore della chiesa e del mondo, unico Salvatore dell’umanità. Non vi sono stati segni di debolezza in materia di fede cristologica, nonostante i timori e le denunce di quanti paventavano che il sinodo si trasformasse in un evento sociologico e culturale.

In questo mio breve intervento voglio solo mettere a fuoco tre temi affrontati, che non sono piccola cosa e vanno collocati nel contesto sinodale e nel documento finale come “segni dei tempi”, che dovranno impegnare la chiesa a cercare, riflettere, fare discernimento, e dovranno essere deliberati dal papa per la chiesa in Amazzonia, ricevendo così la qualità di indicazioni profetiche anche per le altre chiese.

Il primo tema, quello più difficile e contestato, che ha ricevuto l’approvazione dei due terzi dell’assemblea (dunque il non placet di un terzo), è quello delle comunità costrette a vivere senza Eucaristia. Queste sono molte in Amazzonia, ma non si dimentichi che anche nelle terre dell’Europa (penso a Francia, Belgio e paesi del Nord) molte comunità cristiane sono alla vigilia della stessa situazione. Mancano le vocazioni presbiterali, le comunità mostrano spesso un grembo sterile, quando non abortivo, e così le assemblee domenicali risultano “assemblee senza presbitero”, ridotte a celebrare la sola liturgia della Parola. Ma la chiesa vive dell’Eucaristia, è generata dall’Eucaristia, è edificata dall’Eucaristia e, se viene a mancare questa sua fonte di vita, è facilmente soggetta all’indebolimento della fede, a patologie del vivere cristiano: si sfilaccia, si riduce a movimento, con il rischio di scomparire. Si è parlato a lungo di presbiteri uxorati, che d’altronde sono già presenti nelle chiese orientali cattoliche, ma su questo punto resta lontana una risposta positiva. Permane in alcuni settori non minoritari il timore che, se la chiesa latina aprirà alla possibilità di conferire l’ordine a uomini sposati, il valore del celibato non sarà più compreso e subirà una diminuzione della sua valenza profetica.

È certamente vero che il celibato per il Regno, secondo il vangelo sempre un dono di Dio e non una legge, conferisce la possibilità di dedicarsi maggiormente al ministero, senza dover pensare alla propria famiglia; ma dovremmo anche ricordarci che nel celibato vi sono grandezza e miseria, che in esso si può in realtà vivere una chiusura, una philautía, un egoismo che minacciano il ministero più dell’essere coniugi e padri di famiglia. Affermava già il concilio: “Il celibato non è richiesto dalla natura stessa del sacerdozio … anche se vi sono molte ragioni per praticarlo” (Presbyterorum ordinis 16). Ma di fronte al diritto all’Eucaristia della comunità cristiana, affinché essa non muoia per mancanza della comunione al Corpo e al Sangue del Signore, occorrerebbe avere più fiducia, più coraggio, più passione per i cristiani che non possono accedere al sacramento. Si è in ogni caso avviato un processo, nel quale si intravede la possibilità di ordinare presbiteri dei diaconi permanenti sposati. Si faccia attenzione: non è un’apertura a ordinare immediatamente uomini sposati, bensì diaconi permanenti sposati già ordinati da anni, che abbiano dato prova di possedere una formazione adeguata, di capacità di essere pastori della comunità attraverso il ministero della Parola e dell’Eucaristia, dunque della capacità di presiedere e governare, e perciò siano riconosciuti dalla comunità. Così nelle aree più lontane e ora abbandonate a se stesse della regione amazzonica vi sarà una presenza stabile che edifica la comunità cristiana, anche qualora il passaggio di missionari fosse molto raro, addirittura una sola volta all’anno.

L’altro tema affrontato è quello della presenza delle donne nella vita della chiesa. Essendo oggi impensabile anche solo di discutere l’accesso delle donne al ministero presbiterale, che cosa si può fare affinché nella chiesa la donna non permanga in posizione ausiliaria rispetto all’autorità e ai ministri ecclesiastici? Si ripete spesso, e lo si ribadisce anche nel documento finale del sinodo, che “occorre rafforzare ed espandere gli spazi per la partecipazione dei laici sia nella consultazione sia nel processo decisionale, nella vita e nella missione della chiesa” (n. 94). Ma poi? E cosa significa l’espressione “leadership” poco cattolica secondo cui “è necessario che la donna assuma con maggior forza la sua leadership all’interno della chiesa” (n. 101)? E cosa significa concretamente “riconoscere la ministerialità che Gesù ha riservato alle donne” (n. 102)?

Si registra qui l’epifania dell’esitazione, del non saper dire… Personalmente non ho mai aderito all’ipotesi dell’ordinazione delle donne oggi, sia per ragioni ecumeniche, sia perché la maggior parte dei cattolici attuali non è a mio parere disposta ad accettarla; ma perché non diciamo con chiarezza che cosa sia possibile o non possibile affinché tutti i fedeli laici, senza distinzione gli uomini come le donne, siano concretamente un soggetto ecclesiale? Sulle donne nella chiesa vi sono troppe locuzioni ambigue, idealiste e romantiche, che comunque sembrano né convincere né incantare le nuove generazioni. E perché non ci si interroga sull’abbandono della chiesa da parte delle donne più giovani?

Occorre infine dire una parola sull’ipotesi della celebrazione di un rito amazzonico, un rito che sappia inculturare il Vangelo e l’Eucaristia nelle culture ancestrali di questi popoli. Certo, i riti della chiesa cattolica sono molti (ventitré, dice il documento finale al n. 117), ma sono riti antichi scaturiti dalla vita e dalla cultura delle terre in cui è stato annunciato il Vangelo; da secoli però la chiesa latina ha imposto il suo rito in tutte le terre di missione. È dunque urgente favorire l’elaborazione di un rito per l’Amazzonia, ma ci sono anche altre terre, in oriente e soprattutto in Africa, che, grazie a una liturgia propria, potrebbero esprimere la loro confessione di fede attraverso modalità che rispondano alle loro lingue e alle loro culture, senza tradire il Vangelo. Sarà un cammino lento, che non può essere fatto da esperti a tavolino, e richiederà l’esercizio di un profondo discernimento nell’assunzione di tesori spirituali e rituali dei vari popoli, senza acconsentire all’introduzione di elementi non chiaramente né squisitamente coerenti con la fede cristiana; questa sa assumere tutto l’umano, sa trasfigurare questo mondo e le sue creature, pur riconoscendo sempre che Dio è tutto in tutti e che Cristo resta l’unico Salvatore dell’umanità. Questo processo auspicato e non ancora avviato pone però una domanda che riguarda tutte le chiese: perché negli ultimi secoli tale cammino non è stato possibile, ma anzi vietato e condannato? I tentativi fatti in Cina (questione dei riti cinesi) e in India ci devono interrogare!

Ancora una volta sarà papa Francesco a pungolarci su nuovi sentieri, con saldezza e fedeltà alla tradizione, ma anche nella libertà da paure e timori che facilmente paralizzano il cammino della chiesa. Abbiamo un papa che è anche un profeta: fidiamoci!

giovedì 12 dicembre 2019

L'Osservatore Romano: La forza della preghiera silenziosa

Giornata di studio presso la Badia primaziale del Sant’Anselmo a Roma

03 dicembre 2019

Il 7 dicembre prossimo a Roma, presso la Badia primaziale del Sant’Anselmo, si terrà una giornata di studio, testimonianze e preghiera, organizzata dalla «Rete sulla via del silenzio», sorta al fine di portare all’attenzione del mondo cattolico una realtà da tempo presente, ma ancora sotterranea. Una iniziativa dunque per «rompere il silenzio sul silenzio». Promotore Fabio Colagrande, giornalista di Radio Vaticana, il quale, dopo aver scoperto personalmente il beneficio della preghiera silenziosa, ha sentito l’urgenza di proporre un confronto costruttivo fra persone che da tempo, in varie parti d’Italia, portano avanti cammini di silenzio. Fra questi Marco Guzzi, poeta e filosofo, fondatore a Roma dei gruppi di formazione spirituale «Darsi pace», don Paolo Scquizzato, teologo, scrittore, già direttore della Casa Mater Unitatis di Druento (Torino), Juri Nervo, fondatore dell’eremo del silenzio nell’ex carcere di Torino e la sottoscritta, eremita urbana a Firenze.



Grazie agli incontri tenutisi a partire dal febbraio 2018 in diverse città italiane, è maturata la possibilità di promuovere a Roma, proprio nel cuore della cristianità, un evento aperto al pubblico. Ha sostenuto e incoraggiato l’evento padre Laurence Freeman, benedettino, guida spirituale della World Community of Christian Meditation (Wccm). La giornata non si svolgerà come un tradizionale convegno, ma prevede un programma intenso di interventi, testimonianze e momenti di preghiera silenziosa al fine di far conoscere realtà concrete di silenzio presenti in varie parti del territorio nazionale e favorirne l’interazione.

Battere nuovi sentieri richiede tenuta, fermezza, pertanto confronto e reciproco riconoscimento divengono indispensabili. È essenziale che si creino sinergie affinché ogni esperienza autentica sia incoraggiata dalla consapevolezza di far parte di un corpo spirituale che vive e che pertanto misteriosamente sostiene e sorregge tutti coloro che gli appartengono. Consapevolezza che dilata gli orizzonti aiutando la coscienza ad acquisire nuove prospettive sul cambiamento in atto che attraversa il tempo e che quindi coinvolge anche la Chiesa.

Ormai da tempo si assiste a un certo scollamento fra istituzione e corpo dei battezzati. C’è un esodo costante dalla Chiesa che non si identifica esclusivamente con la mancanza di interesse verso la dimensione religiosa. Al contrario è sotto gli occhi di tutti un fenomeno sempre più in espansione: molti credenti, sentendo il richiamo verso il silenzio e l’interiorità e non trovando significativi riferimenti in ambito ecclesiale, si rivolgono verso pratiche di altre tradizioni. L’imperante cultura materialista certamente tende a spazzare via ogni germe di spiritualità, ma proprio quando grande è l’aridità, quando abissale è il vuoto interiore, si fa sentire nell’anima quel tocco che richiama verso l’essenza, che purifica da ogni esteriorità e superficiale abitudinarietà.

C’è da dire che da decenni l’Oriente sta venendo incontro all’Occidente proprio in quanto l’esperienza del silenzio e della meditazione solo dove ha continuato a essere vissuta può essere trasmessa. Nell’Occidente cristiano da molto tempo ha prevalso l’azione sulla contemplazione e anche nei monasteri sta affiorando un certo disagio. Non è raro avvertire sofferenza da parte di monaci e monache che, pur avendo fatto la scelta di vita contemplativa, di fatto lamentano di non vivere in pienezza la loro vocazione. Come è noto, sta crescendo la vocazione eremitica non solo fra i laici, ma anche fra i religiosi, i quali spesso sono sottoposti a grandi fatiche e incomprensioni per concretizzare il passaggio. Inoltre tanti monasteri e conventi stanno esaurendosi per mancanza di vocazioni.

A fronte di questo scenario un po’ cupo, sta invece crescendo il numero di battezzati che praticano yoga e varie forme di meditazione orientale. Non manca dunque il richiamo verso la spiritualità, bensì sta emergendo un bisogno di spiritualità che non si riconosce nella preghiera recitata, ma spinge verso il profondo, verso la trasformazione interiore. Il passaggio in corso spaventa in quanto scardina vecchi equilibri, ma allo stesso tempo fa germinare assetti nuovi. Tale passaggio può essere fronteggiato solo attraverso cammini di consapevolezza che liberino da pesanti moralismi e oppressioni psichiche. C’è una grande opera spirituale in atto che attraversa la cristianità e interpella la coscienza invitandola a spostarsi dalla legalità alla misericordia, dal dover essere all’essere.

Silenzio e solitudine conducono a quel faccia a faccia con Dio che si consuma nell’attraversamento della notte oscura, che fa crollare tutte le maschere e conduce all’esperienza autentica dello Spirito. L’ascolto intimo richiede silenzio, ma il silenzio fa emergere il rumore che è dentro di noi, fatto di pensieri, voci esteriori, preoccupazioni, paure, agitazione. Non c’è quiete nell’intimo. Il silenzio permette di sentire l’angoscia profonda dell’anima chiusa in prigioni di sovrastrutture mentali, sollecitata da continui stimoli esterni che la portano fuori di sé in una dispersione che la lacera rendendola estranea a se stessa. Il dramma dell’alienazione e dei disagi psichici è in costante crescita perché la vita imposta da questo modello culturale porta sempre più fuori se stessi, sbilanciando e sradicando. Una tale condizione impone il silenzio come unica via capace di riportare verso l’interno, verso il profondo, verso quel centro in cui è impresso il sigillo indelebile dell’atto creativo, del Verbo che genera vita. Questa la sete insaziabile che inaridisce e incattivisce l’umanità. Captivi sono i prigionieri.

La Chiesa quindi, quanto maggiormente è chiamata ad assolvere il suo compito di strumento attraverso cui veicola la salvezza dell’umanità, tanto meno può ergersi a roccaforte posta a salvaguardia di istituzioni umane. Le forme sono chiamate a cambiare: riguardano il tempo storico. La salvezza riguarda invece il tempo escatologico, tempo della trasformazione che chiede apertura, elasticità, continui assestamenti per permettere allo Spirito santo di operare, quell’azione di purificazione dalle potenze egoiche e psichiche che oscurano il tempo. I sacramenti agiscono sulle coscienze, conducono verso la luce di verità, sciolgono le incrostazioni che appesantiscono l’esistenza, ma per essere efficaci richiedono silenzio, ascolto, quel solo a Solo che costituisce l’essenza della vita cristiana e in particolare della scelta monastica, non solo quella vissuta dietro le mura, ma soprattutto quella radicata nell’intimo, nella cella interiore. C’è da chiedersi allora che senso abbia pregare per le vocazioni di istituti che si stanno esaurendo. C’è invece da mettersi in ascolto per sentire come oggi lo Spirito chiama e lo Spirito chiama al silenzio. Si può allora ben riconoscere nel richiamo al silenzio una nuova vocazione. Nuova che però rimane sempre la più antica.

di Antonella Lumini

sabato 7 dicembre 2019

Enzo Bianchi – Quei facili lamenti sul silenzio di Dio

Nella mia bisaccia depongo sovente riflessioni sul silenzio, perché è un tema intrigante, che va sempre esplorato in vista della qualità della nostra convivenza umana. Tra le numerose accezioni del silenzio stesso ve n’è una che ai nostri giorni è chiamata in causa con eccessiva facilità: il silenzio di Dio. Quante volte si ascoltano lamentele che paiono accuse scagliate verso il cielo: “Dio non mi parla, non mi dice nulla!”… Parole pronunciate spesso non da grandi figure spirituali, avanzate negli anni, la cui lunga esperienza di preghiera può aver conosciuto anche la “notte oscura” dell’assenza di Dio, bensì da giovani o da comuni credenti che paiono quasi giustificare così la loro mancanza di fede. È diventato un vezzo chiedersi “dov’è Dio?” ogni volta che siamo scossi da qualche evento, oppure imputargli un silenzio colpevole nel dipanarsi della storia, così come nelle nostre vicende personali.

In realtà, il “silenzio di Dio” è un’espressione biblica che le Scritture mettono in bocca a uomini e donne in preghiera. Questo suggerisce che il Dio silente non è tanto un argomento di discussione, quanto piuttosto l’interrogativo che sorge al culmine di un cammino di sofferenza: quando si è colti dal dolore, dall’oppressione, dall’ingiustizia che uccide, e non vi è nessun essere umano che ascolti o venga in aiuto, allora il credente chiama Dio e, se nulla cambia, lo supplica accoratamente: “O Dio, non restare muto, non startene in silenzio!” (Sal 83,2); “Dio della mia lode, esci dal silenzio!” (Sal 109,1); “Se tu resti muto, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1).

Chi prega così non pretende di forzare Dio, ma supplica che qualcosa cambi nella propria situazione, che vi sia un mutamento nella realtà circostante e un cambiamento in sé: si può anche vivere un cammino di sofferenza e non denunciare il silenzio di Dio, ma questo è possibile solo se si giunge a capire che quella via ha un senso. Lo stesso Gesù nella sua estrema derelizione sulla croce si è rivolto a Dio chiedendogli: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, intonando così il salmo 22, il canto del giusto perseguitato a morte. Ma proprio in quel salmo, dopo il lamento, quando tutto sembra finito, la voce dell’orante si leva ad esclamare: “Tu mi hai risposto!” (Sal 22,22).

Ora, queste invocazioni dei salmisti, queste suppliche a Dio perché cessi di starsene in silenzio vanno comprese con intelligenza:è Dio che fa silenzio o non piuttosto il credente, l’orante, il popolo che non ascolta? Non siamo forse noi a essere incapaci di cogliere la parola di Dio, pronunciata magari in altro modo, attraverso eventi e vicende inattese? E perché non cogliere che Dio può parlare anche nel silenzio, attraverso la sua “voce di silenzio sottile” (1Re 19,12)? Il silenzio può infatti essere una modalità altra del suo linguaggio, accanto a quella della parola pronunciata e della parola-evento che si realizza. Non dovremmo dimenticare un testo biblico molto illuminante al riguardo, che un tempo risuonava come antifona d’introito nella messa della notte di Natale: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose … dall’alto dei cieli la tua parola onnipotente si lanciò dal trono regale” (Sap 18,14-15). Mistero di parola e silenzio in Dio…

Sì, Dio è in verità silenzio e parola: non silenzio muto e sordo, ma silenzio che è un modo di comunicare altro rispetto alla parola, un modo che in determinate circostanze può rivelarsi più eloquente di qualsiasi discorso. La parola di Dio resta inscritta nel suo grande silenzio e in esso trova la propria origine e leggibilità: da parte nostra, dobbiamo ascoltare l’uno e l’altra, perché entrambi sono presenza di Dio, di quel Dio che non può non essere presenza, perché come tale si è sempre manifestato. Sappiamo che la tentazione dell’ateismo, della “nientità” è costantemente in agguato anche, e forse soprattutto, per gli uomini e le donne di preghiera, per i contemplativi che vivono nella fede e nella salda adesione al Signore: anche loro possono giungere a lamentarsi del silenzio di Dio. Ma proprio essi ci testimoniano che non per questo la presenza “elusiva” di Dio (cf. Is 45,15) viene meno: Dio è sempre presente all’essere umano, da lui creato a propria immagine (cf. Gen 1,26-27) e da lui amato fino all’estremo (cf. Es 34,6; Gv 13,1).

Quando dunque incolpiamo Dio di mutismo, quando attribuiamo a lui il vuoto del nostro cuore, è perché in realtà siamo noi incapaci di ascoltarlo, perché pretendiamo da lui una parola che sia a nostra immagine e somiglianza.

Articolo pubblicato su Jesus – La Bisaccia del mendicante – novembre 2019

giovedì 5 dicembre 2019

L'Osservatore Romano: L’imprevedibilità dello Spirito

04 dicembre 2019
È per me un grande onore e motivo di gratitudine essere stato invitato a tenere questa conferenza. Lo è soprattutto perché ho dovuto rileggere Evangelii gaudium. Avevo dimenticato quanto è gioioso e creativo quel documento. In questa conferenza dobbiamo focalizzarci su come è stato accolto e su ciò che ancora ci invita a fare. L’intero documento è una meditazione sullo Spirito Santo quale protagonista dell’evangelizzazione. Inizierò spiegando brevemente perché ciò non può non essere preoccupante per tutti noi; troppo, per qualcuno. Poi esaminerò più da vicino i paragrafi dei quali mi è stato chiesto di parlare, ovvero i numeri 34-39 e 115-118.

Se lo Spirito Santo è il protagonista dell’evangelizzazione, dobbiamo lasciarci trascinare nella sua «libertà inafferrabile» (n. 22). Non possiamo avere il controllo totale della nostra vita. Gesù dice a Nicodemo: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Giovanni 3, 8). È questo al centro della spiritualità del Papa. Francesco scrive: «Non c’è maggior libertà che quella di lasciarsi portare dallo Spirito, rinunciando a calcolare e a controllare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci spinga dove Lui desidera» (n. 280).

Ciò è una sfida diretta allo spirito della nostra società, dominata da quello che Francesco definisce il «paradigma tecnocratico». Ogni cosa deve essere amministrata, misurata, controllata. Ma il discepolato è un faccenda rischiosa. Non sai dove ti porterà, né che cosa esigerà. In inglese diciamo: «Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi progetti».

La nostra società ha paura del rischio. Cinquecento anni fa, gli ordini religiosi mandavano gente giovane a predicare il Vangelo in Asia, sapendo che molti di loro sarebbero morti a causa di malattie, catturati da pirati e, se arrivavano a destinazione, martirizzati. Oggi avremmo il coraggio di fare altrettanto? Alcune risposte a Evangelii gaudium, dunque, nascono dalla sfida inquietante che propone. È preoccupante finire nelle mani del Dio vivente (Ebrei 10, 31)! Il domenicano Herbert McCabe, soleva dire: «Se ami, verrai ferito e forse ucciso. Ma se non ami sei già morto».

L’avventura della fede non è abbandonarsi a un destino meramente casuale. Francesco usa la suggestiva immagine di «processi» che danno la priorità al tempo sullo spazio. «Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (n. 223). Lo Spirito Santo è generativo nella nostra vita, dispiegandola con una fecondità che non possiamo anticipare. È questa imprevedibilità dello Spirito che alcuni trovano inquietante.

Esaminiamo ora il primo gruppo di paragrafi che gli organizzatori mi hanno chiesto di approfondire, i nn. 34-39, e guardiamo che tipo di processi occorre abbracciare. Qui Papa Francesco ribadisce che la nostra evangelizzazione deve proclamare con la massima chiarezza l’essenza della nostra fede. Cito: «Il Vangelo invita prima di tutto a rispondere al Dio che ci ama e che ci salva, riconoscendolo negli altri e uscendo da sé stessi per cercare il bene di tutti. Quest’invito non va oscurato in nessuna circostanza!» (n. 39). Non dobbiamo permettere alle sfumature e alle sottigliezze della nostra teologia morale, per quanto buone esse siano, di oscurare il messaggio fondamentale. Dio ci ama!

Esiste una gerarchia della verità. La verità secondaria non deve oscurare il messaggio centrale. Nei social media, con la loro trasmissione istantanea di slogan semplificati e di frasi ad effetto, le sfumature si perdono. Papa Paolo VI ha scritto un’enciclica sensibile, ricca e umana, l’Humanae vitae. Con suo grande orrore essa è stata sintetizzata in un solo titolo: “Il Papa vieta la pillola!”.

La focalizzazione inequivocabile sull’amore e la misericordia sconfinati di Dio spaventa alcuni perché potrebbe essere fraintesa. Se ci apriamo ad accogliere i divorziati e risposati, ciò non potrebbe forse essere percepito come un minare l’istituzione del matrimonio? Se il Papa dice degli omosessuali «chi sono io per giudicare?», qualcuno non potrebbe forse pensare che i rapporti omosessuali e perfino i matrimoni omosessuali vadano bene? Focalizzarsi sulla centralità assoluta dell’amore potrebbe creare confusione riguardo alla dottrina morale della Chiesa. Chi desidera la sicurezza non ama la “perplessità”. Quando ero Maestro dei domenicani, ogni volta che venivo convocato in Vaticano mi aspettavo di sentire questa parola: “perplessità”!

Sì, il Papa potrebbe essere frainteso, ma è accaduto anche a Gesù. «I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”» (Luca 15, 2). Se permettiamo alla “libertà inafferrabile” dello Spirito Santo di agire nella nostra vita, saremo spinti a fare cose che verranno fraintese. Se preghiamo con persone di altre confessioni, o andiamo incontro alla comunità gay, o abbracciamo i poveri, o cerchiamo un modo per andare avanti per i divorziati e risposati, verremo fraintesi. Ma se non accettiamo questo rischio, non predicheremo mai il Vangelo. Poi, i media senz’altro fraintenderanno il Papa, ma questo non significa che lo farà anche il popolo di Dio. Affermare che le persone pensino che questo messaggio di amore incondizionato e di misericordia sia una licenza per un’immoralità senza limiti significa provare disprezzo per i battezzati. È un atto di snobismo clericale.

Più avanti nell’esortazione leggiamo: «Il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile in credendo. Questo significa che quando crede non si sbaglia, anche se non trova parole per esprimere la sua fede. Lo Spirito lo guida nella verità e lo conduce alla salvezza. Come parte del suo mistero d’amore verso l’umanità, Dio dota la totalità dei fedeli di un istinto della fede — il sensus fidei — che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio» (n. 119). Pertanto, la Chiesa deve fidarsi del fatto che quando accettiamo il rischio di proclamare il messaggio centrale, i battezzati comprenderanno, malgrado le rappresentazioni errate dei media e di chi critica il Papa.

Qualcuno ha reagito con sospetto all’insistenza sul proclamare il messaggio centrale del Vangelo, poiché pensa che sia una pericolosa semplificazione. La nostra ricca tradizione di dottrina morale non è forse più sofisticata? Ma dobbiamo distinguere tra semplicità e superficialità. Papa Francesco ci mette in guardia contro la superficialità della cultura contemporanea: «Nella cultura dominante, il primo posto è occupato da ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio. Il reale cede il posto all’apparenza» (n. 62). Adolfo Nicholas, ex superiore generale dei gesuiti, considerava la «globalizzazione della superficialità» la più grande minaccia al mondo. I social media, con i loro pollice su e pollice verso istantanei, propongono un mondo che è irreale, distante dalla complessità dell’essere umani.

In un mondo del genere, il Vangelo può essere udito solo se la nostra proclamazione è semplice. Ciò non la rende superficiale. Indica il mistero ineffabile dell’amore divino. È la semplicità di Dio ad andare oltre ogni parola. G. K. Chesterton riporta che una signora di sua conoscenza «prese un libro di brani scelti commentati di san Tommaso d’Aquino e, speranzosa, iniziò a leggere un capitolo che recava l’innocente titolo La semplicità di Dio. Poi ripose il libro con un sospiro e disse: “Beh, se questa è la sua semplicità, mi domando com’è la sua complessità”». La semplicità divina si manifesta più in quel che facciamo che in quel che diciamo. G. K. Chesterton scrive che «le cose fatte [da san Francesco d’Assisi] erano più immaginose delle cose dette… Dal momento in cui si strappò le vesti e le gettò ai piedi del padre fino al momento in cui nella morte si distese sulla nuda terra formando la croce, la sua vita fu costituita da questi atteggiamenti inconsci e gesti risoluti».

Francesco, come Giovanni Paolo II prima di lui, ha un talento per i gesti che parlano della nostra salvezza. Dal momento in cui si è inginocchiato sul balcone chiedendo la benedizione della folla, passando per la lavanda dei piedi alla giovane musulmana il giovedì santo, fino all’abbraccio dato all’uomo ricoperto di terribili tumori, le sue azioni dicono più delle parole. Egli cita san Tommaso d’Aquino: «L’elemento principale della nuova legge è la grazia dello Spirito Santo, che si manifesta nella fede che agisce per mezzo dell’amore» (n. 37). Gesti semplici incarnano verità profonde.

La nostra fede è nell’evento di Dio in mezzo a noi. Francesco scrive che la sua, di Cristo, Risurrezione «non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali» (n. 276). La nostra evangelizzazione non è comunicazione di informazioni, bensì una sorta di partecipazione a tale evento adesso. È quello che il domenicano Cornelius Ernst, ha definito «il momento genetico». «Ogni momento genetico è un mistero. È alba, scoperta, primavera, rinascita, venire alla luce, risveglio, trascendenza, liberazione, estasi, consenso sponsale, dono, perdono, riconciliazione, rivoluzione, fede, speranza, amore». «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Apocalisse 21, 5).

L’evento della grazia può essere raccontato al meglio attraverso il teatro, i dipinti drammatici di artisti come il Caravaggio, o la recente opera teatrale di un giovane domenicano francese, Adrien Candiard, Pierre et Mohamed, che esplora l’amicizia tra il beato Pierre Claverie, uno dei martiri algerini, e Mohamed Boukichi, il suo giovane autista musulmano, anche lui ucciso. L’opera è stata rappresentata la sera delle beatificazioni in Algeria, alla presenza della madre di Mohamed, che ha baciato l’attore che recitava la parte di suo figlio.

Quindi, se ci arrendiamo allo Spirito Santo, verremo condotti fuori dalla nostra profondità e spinti a dire e a fare cose che sconcertano e provocano i nostri contemporanei. Abbiamo il coraggio di Extinction Rebellion? Quali gesti possiamo compiere, che siano capaci di toccare l’immaginazione dei nostri contemporanei, affinché il cuore arda nel loro petto (cfr. Luca 24, 32)? Gesù ha mangiato e bevuto insieme a prostitute e pubblicani; Papa Francesco ha fatto pizza-party per i più poveri tra i poveri in piazza San Pietro. Che cosa dobbiamo fare noi, anche a rischio di essere fraintesi? Non limitiamoci a scrivere un altro documento! C’è bisogno di gesti audaci!

La seconda serie di paragrafi che gli organizzatori mi hanno chiesto di commentare sono i nn. 115-118. Questi sono incentrati sull’evangelizzazione della cultura. La cultura «tratta dello stile di vita di una determinata società, del modo peculiare che hanno i suoi membri di relazionarsi tra loro, con le altre creature e con Dio. Intesa così, la cultura comprende la totalità della vita di un popolo» (n. 115). Ogni cultura è una maniera di essere vivi. In che modo lo Spirito Santo si relaziona con tutti i molteplici modi in cui vive la gente?

Mi concentrerò brevemente su tre domande. In che modo la nostra vita dà testimonianza dello Spirito Santo? In che modo il Vangelo viene arricchito da ogni cultura e come la critica? E infine, in che modo la Chiesa abbraccia la diversità delle vite umane e dei modi di pensare?

Ogni cultura è un modo di essere vivi. Come tale è una manifestazione dello Spirito Santo, che nel Credo professiamo essere colui «che dà la vita». Elizabeth Johnson scrive: «La parola latina tradotta come Datore di Vita, vivificantem, accende un riflettore sul dinamismo sotteso. Lo Spirito è il vivificatore, colui che accelera, anima, muove, ravviva, dona vita anche adesso, mentre genera la vita del mondo che verrà».

Qui il Vangelo incontra la sete di molti giovani. Essi vogliono vivere veramente. Nelle zone di guerra del mondo, la sopravvivenza è forse l’unica cosa in cui si può sperare, ma una volta che si raggiunge una sicurezza di base, la domanda diventa: come posso essere pienamente vivo? Guardando sui loro IPhone quello che sta accadendo altrove, cercano l’azione, la vita vera! Il Beatle John Lennon ha scritto: «La vita è ciò che ti accade quando sei intento a fare altri progetti». Non è molto distante dal monito di san John Henry Newman: «Non temere che la vita giunga a una fine, temi piuttosto che non abbia mai inizio».

È questa la paura di milioni di giovani. Quindi, l’evangelizzazione è il nostro incontro con colui che ha detto «io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Giovanni 10, 10). Ciò contraddice quella che Francesco definisce la «psicologia della tomba» che «poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo» (n. 83). Se siamo vivi nello Spirito, attireremo tutti coloro che hanno fame di vivere. Come si presenta tutto ciò?

Per un cristiano essere vivo è un paradosso. Amiamo talmente tanto la vita da essere pronti a morire. I martiri danno testimonianza della pienezza ultima della vita, che è diventare un dono. Il film di Xavier Beauvois sui monaci di Tibherine in Algeria, Des hommes et des dieux (“Uomini di Dio”), ha acceso l’immaginazione di milioni di persone. Una piccola comunità di monaci trappisti è rimasta coinvolta nella violenza in Algeria negli anni Novanta dello scorso secolo. Sono rimasti pur sapendo che sarebbe costato loro la vita. Sono stati beatificati un anno fa. Mentre affrontano la morte, diventano vivi, ognuno nel suo modo unico.

Lo Spirito, che dà la vita, ci invita a rischiare tutto. Il cristianesimo non è una religione sicura. Dovrebbe riportare avvertenze per la salute e la sicurezza. Il gesuita Daniel Berrigan amava dire: «Se vuoi seguire Gesù, sarà meglio che stai bene sul legno». Solo pochi di noi saranno chiamati a morire per la propria fede, ma ognuno di noi rende testimonianza al Signore che dà la vita diventando dono. Magari correndo il rischio di donarsi a un’altra persona per la vita nel matrimonio, o entrando a far parte di un ordine religioso, o avendo il coraggio di fare l’insegnante in una scuola del centro città. È quello che il beato Pierre Claverie chiamava «martirio bianco», diventare un dono in tutto ciò che si fa e che si è. Come dice Papa Francesco: «Io sono una missione su questa terra» (n. 273). Ciò fa eco al nome divino: Io sono colui che sono.

L’incontro del Vangelo con altre culture comporta una certa reciprocità. La verità di fede deve essere proclamata e anche scoperta. Noi portiamo la ricchezza della nostra fede, ma scopriamo che lo Spirito Santo è già stato all’opera prima di noi, in attesa di essere chiamato per nome. La cultura è uno stile di vita, e tutto ciò che vive veramente è un frutto dello Spirito. Nella preghiera eucaristica diciamo «fai vivere e santifichi l’universo».

Anzitutto dobbiamo avere il coraggio di predicare. Francesco cita Giovanni Paolo II: «non vi può essere vera evangelizzazione senza l’esplicita proclamazione che Gesù è il Signore» (n. 110) Lo Spirito Santo è lo spirito di verità. Osiamo proclamare le verità della nostra fede, che un uomo che è divino è nato da una vergine, e che è morto ma risorto a nuova vita! Non ci rideranno in faccia? Qualche volta sì. Ma osiamo proclamare questi insegnamenti perché crediamo che sono veri e che gli esseri umani sono fatti per la verità. Nelle Costituzioni domenicane si dice che gli esseri umani hanno una propensio ad veritatem, una propensione alla verità. Confidiamo che essi risuoneranno, a qualche livello profondo, nella mente di chi ci ascolta, forse solo come un sussurro. Gli esseri umani hanno bisogno della verità per vivere, proprio come gli uccelli hanno bisogno dell’aria e i pesci dell’acqua.

Edith Stein è cresciuta in una famiglia di ebrei osservanti, ma poi è diventata atea e filosofa. È però rimasta in piedi tutta la notte per leggere l’autobiografia di santa Teresa d’Avila. Terminata la lettura ha detto: «Questa è la verità». L’istinto umano per la verità ha riconosciuto qui ciò che cercava.

Una grande sfida per la nostra evangelizzazione è trovare vie per proclamare i grandi insegnamenti della Chiesa, soprattutto il Credo, in modi che risuonino nel cuore di chi ci ascolta. Essi incarnano la verità per la quale siamo creati. Sono profondamente critici dinanzi ai modi in cui la cultura contemporanea viene distorta da quello che Francesco chiama il «paradigma tecnocratico». Si tratta di un argomento che qui non abbiamo il tempo di esplorare.

Ma il predicatore va alla ricerca della verità nelle altre culture. Qualunque cosa sia creativa, nuova e immaginosa è, senza saperlo, un frutto dello Spirito Santo che ci ha preceduti. Citando ancora Giovanni Paolo II: «i valori e le forme positivi» che ogni cultura propone «arricchiscono la maniera in cui il Vangelo è annunciato, compreso e vissuto». In tal modo «la Chiesa, assumendo i valori delle differenti culture, diventa “sponsa ornata monilibus suis”, “la sposa che si adorna con i suoi gioielli” (Isaia 61, 10)» (n. 116).

Chiunque riesce a penetrare la meravigliosa, caotica, complessa vita degli esseri umani è nostro alleato, sia egli credente o no. Chiunque comprende la gioia e la sofferenza dell’innamorarsi, creare una famiglia, fare errori e cercare di rialzarsi ha una verità da raccontarci. Quindi abbiamo bisogno sia di fiducia per proclamare le verità della nostra fede, sia di umiltà per imparare ciò che significano da ogni persona saggia. Il poeta Rainer Maria Rilke ha descritto il suo ruolo come «essere in mezzo a ciò che è umano, per vedere tutto e rifiutare nulla». Niente di ciò che è umano è estraneo a Cristo. San Domenico ha voluto che i suoi fratelli fossero mendicanti, ansiosi di accettare la saggezza di tutti coloro che incontrano. Ogni verità è dello Spirito Santo.

Infine, lo Spirito è colui che crea l’armonia dalla differenza. La Evangelii gaudium al n. 117 afferma: «Lo stesso Spirito Santo è l’armonia, così come è il vincolo d’amore tra il Padre e il Figlio. Egli è Colui che suscita una molteplice e varia ricchezza di doni e al tempo stesso costruisce un’unità che non è mai uniformità ma multiforme armonia che attrae». La differenza riconciliata è feconda. La differenza genera vita. Siamo tutti frutto della differenza tra maschile e femminile. Senza differenza, non ci sarebbe vita!

Ma la cultura globale incoraggia la paura della differenza. Gli algoritmi di Google e Facebook ci indirizzano verso persone che la pensano come noi. Lo scrittore americano Jonathan Franzen afferma che «le voci dissonanti rimangono in silenzio per paura di essere flammate, trollate o vedersi tolta l’amicizia. Il risultato è un silo nel quale, qualunque sia la parte dalla quale ti trovi, senti di avere assolutamente ragione di odiare quel che odi».

La paura della differenza alimenta il populismo e la polarizzazione. La modernità è caratterizzata dal paradosso che in un mondo di comunicazione globale istantanea ci sia una crescente tribalizzazione e polarizzazione. Questo affligge anche la Chiesa. Specialmente negli Stati Uniti, stanno emergendo grandi divisioni tra persone di visioni teologiche opposte. Ci sono aspre critiche perfino al Papa, che dieci anni fa sarebbero state impensabili. Ci sono minacce di scisma. Come dobbiamo reagire?

Anzitutto, questa paura della differenza è totalmente estranea al cattolicesimo. Il piacere della differenza fa parte del nostro Dna. Quattro Vangeli in un Nuovo Testamento, e una Bibbia che abbraccia sia l’Antico sia il Nuovo Testamento. Il nostro Salvatore abbraccia la differenza inimmaginabile di Dio e uomo. È questo il centro della nostra fede donatrice di vita, feconda di salvezza. Lasciare che le nostre menti siano catturate dal tribalismo del presente sarebbe una resa di ciò che è più cattolico. Non abbiamo paura di chi ha un modo diverso di vedere la Chiesa!

In secondo luogo, questi conflitti non riguardano mai solo le idee. Alla loro base c’è sempre una competizione per il potere. Il libro della Genesi è il racconto di un susseguirsi di rivalità: la percezione che Adamo ed Eva hanno di Dio come loro rivale; la rivalità assassina tra Caino e Abele; e poi le madri di Isacco e Ismaele, Esau e Giacobbe, Giuseppe e i suoi fratelli. La nostra storia inizia con la rivalità tra fratelli, smascherata e vinta.

Lo Spirito Santo ci chiama al di là della rivalità e dei giochi di potere. La potenza dello Spirito è il fecondo abbraccio della differenza. Cediamo alla potenza dello Spirito rifiutando di vedere gli altri come nostri antagonisti. È certamente per questo che il Papa si rifiuta di controbattere ai suoi critici, poiché ciò significherebbe fare lo stesso gioco di potere. Sono nostri fratelli e sorelle nel Signore. Se ci arrendiamo alla potenza dello Spirito, chissà dove verremo condotti.

Quindi, abbiamo il coraggio di imbarcarci nella rischiosa avventura della fede! In questo tempo di frasi a effetto, dobbiamo proclamare il messaggio centrale dell’amore infinito e del perdono. Ciò può essere espresso al meglio attraverso quello che facciamo, sorprendenti gesti d’amore. Verremo fraintesi, ma dobbiamo fidarci del popolo di Dio. Ha ricevuto lo Spirito. Comprende.

Proclamiamo le verità della nostra fede, fiduciosi che non sono estranee al cuore umano. Ma dobbiamo anche essere aperti a chiunque comprende la verità dell’esperienza umana. Infine, lo Spirito ci invita a essere liberi da ogni rivalità e gioco di potere. Dove c’è l’incontro con la differenza c’è vita.

di Timothy Radcliffe

lunedì 2 dicembre 2019

Laura Invernizzi "La morte nella Bibbia"

L'Osservatore Romano del 30 novembre 2019
Laura Invernizzi: La morte nella Bibbia

Che cos’è la morte per la Bibbia? La domanda è semplice, la risposta improba, perché quello della morte è un concetto ambiguo e nella Bibbia, che raccoglie una riflessione sviluppatasi in un arco di circa mille anni, non esiste un unico modo di pensare alla morte: vi si trovano insieme molteplici prospettive, non organizzate, nel libro che abbiamo in mano, né secondo lo sviluppo storico del pensiero e della riflessione (che può essere ricostruito attraverso la datazione dei testi), né in modo sistematico.
La riflessione speculativa sulla morte non è di interesse biblico, anche perché più che la morte in sé, o ciò che la segue, alla Bibbia interessa la vita, e la morte, facendo parte naturalmente del ciclo della vita umana, è incontrata solo come limite della vita stessa.

Nella Bibbia ebraica, in cui il numero delle ricorrenze del sostantivo «morte» (152) è circa un terzo di quello delle ricorrenze del verbo «morire» (843), inoltre, più che della morte in astratto, della sua provenienza e del motivo per cui costituisce il termine ineludibile della vita, si parla del morire dell’uomo, delle diverse circostanze e dei modi in cui l’uomo affronta la morte, propria o altrui. La situazione cambia nei testi scritti in greco, con un aumento in proporzione dell’uso del sostantivo, forse perché è maggiore il grado di astrazione che tale lingua permette. Tali testi, inoltre, essendo più recenti, riflettono uno stadio più avanzato della riflessione e tra di essi vi sono gli scritti del Nuovo Testamento, nei quali la morte di Gesù e il suo morire hanno importanza fondamentale per dar senso non solo alla morte, ma alla vita stessa.

Percorrendo le pagine bibliche si può tratteggiare una piccola fenomenologia dell’uomo davanti alla morte, che non pretende di essere esaustiva, ma permette di evocare vari modi in cui la morte è vista e valutata e di far emergere l’ambiguità che soggiace a ogni ragionamento, che tocchi tale realtà.

La morte — che raggiunge in età avanzata dopo una vita piena e benedetta dalla presenza di figli e nipoti il vecchio «sazio di giorni» o in «felice canizie», come Abramo (Genesi, 25, 8), Ismaele (ibidem, 25, 17), Isacco (ibidem, 35, 29), Giacobbe (ibidem, 49, 33), il giudice Gedeone (Giudici, 8, 32), il re Davide (1 Cronache, 29, 28), il sacerdote Ioiada (2 Cronache, 24, 15), Giobbe (Giobbe, 42, 17) — è una morte serena, che viene vista come un «addormentarsi con i propri padri» e «riunirsi ai propri antenati». Tali espressioni, a meno che non alludano semplicemente al comune destino, lasciano aperta una possibilità di sopravvivenza legata alle relazioni essenziali di cui la vita è intessuta. Tale concezione mitiga l’idea, anch’essa presente nella Bibbia, che la morte sia semplicemente un ritornare alla terra dalla quale si è stati tratti (Genesi, 3, 19; Giobbe, 34, 15; Salmi, 90, 3; 104, 29; Qoèlet, 3, 20; 12, 7) o finire nello sheol, ovvero nell’oltretomba o negli inferi. Questo “luogo”, definito come «la casa di ritrovo per tutti i viventi» (Giobbe, 30, 23), buoni e malvagi insieme, è una regione sotterranea e non è inteso, in prospettiva escatologica, come luogo di bilanci o di retribuzione per quanto si è fatto in vita, ma come luogo di ombre, in cui svanisce ogni traccia di chi vi discende (Salmi, 49, 15) e non è lasciato spazio ad alcuna possibilità di vita e speranza, perché la vita è depauperata proprio di ciò che la rende tale, cioè delle relazioni.

Lo sheol è la perdita di ogni contatto con la terra dei viventi; la reazione di Davide alla morte del figlio avuto da Betsabea indica che la discesa nello sheol è un movimento inteso come irreversibile: «Potrei forse farlo ritornare? Andrò io da lui, ma lui non tornerà da me» (2 Samuele, 12, 23). Dallo sheol non si torna (Giobbe, 7, 9); in esso ogni relazione è interrotta; non solo la relazione con gli altri, ma anche e soprattutto quella con Dio (Isaia, 30, 10-12). Diversamente dalla visione degli inferi dei popoli mesopotamici e dei greci nessun dio abita nello sheol, Dio non conserva il ricordo di coloro che vi scendono (Salmi, 88, 6) e a sua volta lì non è ricordato (ibidem, 6, 6), né lodato (ibidem, 30, 10; 88, 11; 115, 17; Isaia, 38, 18), né fa giungere i suoi prodigi e la sua benevolenza (Salmi, 88, 11). Per questo nei salmi è pressante l’invocazione a essere salvati dalla morte e non lasciati in preda allo sheol (116, 3-4): c’è voluto tempo perché Israele avesse l’audacia di credere che Dio può agire anche nella morte.

La rottura di ogni relazione e legame rende amara e funesta la morte propria e altrui, e non solo quando la morte spezza prematuramente la vita di un giovane, ma anche quando l’uomo riflette sulle condizioni del vivere, sebbene talora il profilarsi all’orizzonte di una minaccia letale (1 Re, 19, 3-4), il senso pressante di una dolorosa angoscia (Giobbe, 3, 3; 7, 13-16) o persino l’indignazione che accompagna l’impressione di aver subito da Dio un’ingiustizia (Giona, 4, 8) possano rendere la morte preferibile e auspicabile rispetto alla vita. La rottura relazionale, con gli altri e con Dio, e l’angoscia che accompagna il morire mettono in evidenza un misterioso legame esistente tra morte e peccato, diffuso nella tradizione di Israele ed ereditato anche dal Nuovo Testamento. Il racconto della tentazione nel giardino dell’Eden (Genesi, 3) lo evidenzia inserendo tra le conseguenze del peccato il cambiamento del modo di intendere la morte (ibidem, 3, 19). L’uomo è creato dall’inizio caduco: plasmato dalla terra come gli animali (ibidem, 2, 19), solo per lui viene specificato che si tratta di «polvere» (ibidem, 2, 7), un termine che spesso è associato alla morte (Giobbe, 7, 21; Daniele, 12, 2; Salmi, 22, 19). Si tratta qui del termine naturale della vita, che accomuna tutti i viventi, ma forse la menzione della «polvere» suggerisce che l’uomo è l’unico ad aver coscienza di dover morire. Con la tentazione del serpente, le cose, però, cambiano. Se nelle pagine precedenti, il racconto ha mostrato che sui limiti posti da Dio si regge l’universo ed è basata la possibilità della vita (Genesi, 1,1–2,4), dando ascolto a una parola “altra”, quella del serpente che proietta su Dio intenzioni malevole e ne fa un rivale che impedisce la vita attraverso l’imposizione di limiti arbitrari, l’uomo inizia ad aver paura di Dio e non vive più morte fisica e ritorno alla polvere come evento naturale, ma come limite tragico e negativo.

L’ambiguità della morte verrà esplicitata dalla riflessione del libro della Sapienza, che troverà sviluppo anche nel Nuovo Testamento. Composto in greco nel I secolo avanti Cristo, tale libro distingue la morte fisica, il dato biologico del morire, dalla vera morte, la morte eterna, punizione e «salario del peccato» (Romani, 6, 23), rottura della relazione con Dio. Questa è la morte che «Dio non ha creato» (Sapienza, 1, 3) ed è entrata nel mondo «per invidia del diavolo» (ibidem, 2, 24). Di fronte alla morte, così, giusti ed empi si dividono, perché per il giusto la morte, pur conservando la sua ambiguità, diventa un passaggio nella vita.

Gesù di fronte alla morte ha vissuto fino in fondo la propria umanità, senza sottrarsi all’ambiguità della morte. Anche per lui, sebbene egli abbia potere di riportare in vita i defunti, la morte è un evento tragico, che gli procura un evidente turbamento quando si accosta alla morte, tanto quella altrui — per esempio quella della figlia di Giairo (Matteo, 9, 18-26; Marco, 5, 21-43; Luca, 8, 40-56), del figlio della vedova di Nain (Luca, 7, 11-17) o dell’amico Lazzaro (Giovanni, 11) — quanto alla propria, di fronte alla quale sperimenta paura e angoscia, tristezza. I verbi utilizzati dall’evangelista Marco per descrivere la preghiera di Gesù nel Getsèmani (Marco, 14, 33-34) sottolineano straordinariamente l’intensità dell’emozione provata da Gesù. Si tratta di uno sbalordimento che rende attoniti, impietriti e sconcertati, che si unisce a un senso di isolamento, lontananza (da Dio e dai discepoli) e abbandono.

Anche per Gesù la morte, pur pienamente e consapevolmente assunta, è esperienza della rottura delle relazioni e dell’abbandono di Dio, fino alla croce. Le tre ore di buio, che nel racconto marciano, precedono la morte in croce (Marco, 15, 33) hanno un significato peculiare per la comprensione dell’esperienza di Gesù, perché in questo vangelo la tenebra è uno dei segni della presenza di Dio, il terzo dopo i cieli squarciati al battesimo (ibidem, 1, 10) e la nube della trasfigurazione (ibidem, 9, 7). Ma se al battesimo e alla trasfigurazione il Padre aveva fatto udire la sua voce, sul Gòlgota tace. Se la tenebra indica presenza, il silenzio è espressione di una lontananza, che fa soffrire Gesù. Il suo grido «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (ibidem, 15, 34) dà voce alla sua solitudine, all’abissale dolore che la distanza gli provoca, pur se consapevole della presenza del Padre. E nell’affidamento al Padre (Luca, 23, 46) l’evangelista Luca coglie l’esplicita posizione di Gesù rispetto al suo umano morire: egli fa della propria morte l’occasione di una consegna della propria vita, nelle mani di un Dio che, nonostante non ne senta la voce, continua a ritenere affidabile, sulla soglia della morte, e anche nella morte.

La morte di Gesù e il suo morire, così, danno alla morte stessa un senso nuovo, capace di trasformare addirittura la morte dell’uomo: dalla morte di Gesù in avanti — e il malfattore che accanto a lui condivide e accetta la stessa pena lo sperimenta (Luca, 23, 43) — l’uomo può morire con lui e come lui.

Alzo gli occhi verso il cielo.Matteo Ferrari "Una speranza che non delude"

Che cos’è la speranza? Noi abitualmente per comprendere questa parola così importante per la fede cristiana, partiamo dall’oggetto sperato. Quando parliamo di speranza facciamo riferimento ad un evento che può realizzarsi e speriamo accada; oppure pensiamo ad una cosa o persona che vorremmo possedere o incontrare.
Per la Bibbia non è così. Al centro della comprensione biblica della speranza non è l’oggetto sperato, ma l’azione di sperare. La Bibbia parte dal verbo non dal sostantivo. Ciò che interessa alle Scritture non è l’oggetto sperato, ma l’azione che compie il credente nel vivere nella speranza la sua esistenza.

«Io vigilo sulla mia parola»: il fondamento della speranza

Si tratta di una precisazione molto importante. Infatti per la Bibbia l’oggetto sperato, quando questo si inserisce nell’orizzonte della fede e del rapporto con Dio, non è una realtà che potrebbe anche non realizzarsi. La realizzazione è certa; è il modo di porsi dell’uomo di fronte all’agire di Dio ad essere incerto. Per l’uomo credente la vera questione è che egli sappia vivere la sua esistenza nella speranza e non che la cosa sperata possa o non possa realizzarsi. Infatti la speranza si esercita nei confronti di realtà promesse da Dio. Per questo la speranza è così fondamentale per la Scrittura. Infatti l’uomo biblico crede in una storia attraversata da una promessa di Dio, che, proprio perché fondata sulla Parola del Signore, non può deludere.

All’inizio del Libro di Geremia, nel contesto della sua vocazione profetica (Ger 1,1-19), troviamo una visione del profeta che può fornirci qualche spunto per riflettere sul tema della speranza nelle Scritture. Il Signore interroga Geremia sulla visione – «Che cosa vedi Geremia» – e il profeta risponde, affermando di vedere un ramo di mandorlo. Alla descrizione della visione da parte di Geremia, segue l’interpretazione della stessa da parte del Signore:

Il Signore soggiunse: «Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla». (Ger 1,12)

All’inizio di un libro profetico, segnato soprattutto dall’annuncio di una catastrofe imminente per il popolo – la conquista babilonese – questa visione iniziale è un primo annuncio di speranza per il popolo. Il testo gioca sull’assonanza in ebraico tra il termine «mandorlo» (shaqed) e il termine «vigilante» (shoqed). Il mandorlo è uno dei primi alberi che rimette i fiori allo spuntare della primavera; così il Signore è colui che garantisce il realizzarsi della sua Parola anche quando sembra non esserci più speranza per il futuro. La prima visione, collocata nel contesto della vocazione profetica di Geremia, annuncia un contenuto molto significativo di tutto il libro:

questo «vigilare» di YHWH intende affermare che c’è una forma, una corrente e una intenzionalità nella storia che non può essere annullata o evitata: tale intenzionalità sta al di sopra di ogni atteggiamento umano. Tale certezza è alla base della speranza umana ed è il fondamento del giudizio contro le pretese umane. (W. Brueggemann, Geremia, (Strumenti. Commentari 68), Claudiana, Torino 2015, 41)

È la vigilanza di Dio sulla realizzazione della sua Parola, è il fondamento della speranza del credente. Per questo motivo è più importante per la Bibbia l’atto di sperare che l’oggetto sperato. Infatti secondo le Scritture ebraiche l’oggetto sperato non è una realtà che può o meno realizzarsi. È invece una certezza, dal momento che la sua realizzazione viene garantita da Dio stesso. Ciò che viene sottolineato è l’atto che l’uomo compie vivendo nella storia con speranza, dal momento che questo ha a che fare con la sua fede e la sua relazione con il Dio della speranza. È significativo che nella Lettera agli Efesini si sottolinei che i pagani erano «senza speranza» (Ef 2,12), perché «estranei ai patti della promessa». La speranza è possibile perché si fonda sulla promessa di Dio. Si tratta di un dato molto significativo perché, in questo modo, la speranza diventa un tratto caratteristico e ineliminabile della fede, nella tradizione ebraico-cristiana.

C’è un altro testo del Libro di Geremia che può dirci qualcosa sulla speranza biblica. Si tratta del brano di Ger 31,1-22. Questo brano si inserisce nei cc. 30-31 del Libro di Geremia che formano una unità letteraria abbastanza omogenea e si presentano come l’annuncio del futuro che Dio sta preparando per il suo popolo. Questa sezione del libro di Geremia è anche detto “libro della consolazione”. Infatti, anche se il verbo “consolare” (nhm) compare solo due volte in Ger 31,13.15, questo è il tema che caratterizza la sezione: un annuncio di consolazione e di speranza per Giuda che si trova nelle condizioni dell’oppressione militare e dell’esilio. Il culmine della sezione consiste nell’annuncio di una nuova alleanza, che troviamo in Ger 31,31-34.

All’inizio del libro della consolazione, in Ger 30,1-4, Dio promette, tramite la voce del profeta, di cambiare la sorte del suo popolo: la sorte sarà cambiata con il dono della terra a Israele e a Giuda. Questi versetti quindi introducono il tema dominante di questi due capitoli di Geremia: la nuova opera che Dio sta per compiere in favore del suo popolo. All’inizio del testo a cui stiamo facendo riferimento si dice che la radice di tutto è l’amore eterno di Dio:

«Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo a esserti fedele. 4Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine d’Israele. Di nuovo prenderai i tuoi tamburelli e avanzerai danzando tra gente in festa. 5Di nuovo pianterai vigne sulle colline di Samaria; dopo aver piantato, i piantatori raccoglieranno». (Ger 31,3-5)

La fedeltà di Dio è più duratura del peccato del popolo. Il Signore si rivela “da lontano” perché il popolo si è allontanato da lui (cfr. Ger 23,23 Sono io forse Dio solo da vicino – dice il Signore – e non anche Dio da lontano?). Si parla di costruire e piantare come nella vocazione del profeta in 1,10. Costruire indica la riedificazione delle città, piantare indica la vita agricola come attività che si compie quando è possibile il futuro e quando c’è pace.

Da qui nasce la speranza, a cui si fa esplicito riferimento in Ger 31,17. Nel testo si ribadisce che è possibile sperare per il popolo perché Dio lo ama e rimane fedele. Dio stesso afferma, per bocca del profeta:

Non è un figlio carissimo per me Èfraim, il mio bambino prediletto? Ogni volta che lo minaccio, me ne ricordo sempre con affetto. Per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza». (Ger 31,20)

La speranza dell’uomo biblico è legata al volto di Dio. San Paolo nella lettera ai Romani può chiamare il Dio dei padri e di Gesù come «il Dio della speranza» (Rm 15,3). La speranza diventa un attributo di Dio, inscindibile dal suo stesso nome.

«Ho sperato nel Signore»: dalla speranza del popolo alla speranza del singolo

I Salmi sono un esempio di come il volto del «Dio della speranza» che segna la storia del popolo, giunga a toccare l’esistenza dei singoli credenti. Non solo il popolo può sperare perché il Signore è fedele e porterà a termine le sue promesse di salvezza, ma ogni singolo credente è chiamato a vivere la sua esistenza nella speranza, come elemento che può trasfigurare la sua vita, darle sapore e colore.

Nel Salmo 25 il Salmista può cantare: «Mi proteggano integrità e rettitudine, perché in te ho sperato» (Sal 25,21). Tutta la vita del credente è sotto il segno della integrità e della rettitudine perché è segnata dalla speranza nel Signore. La speranza è quindi la possibilità per il credente di avere una vita retta e giusta. Guardare al futuro con gli occhi della speranza rende possibile una vita bella e piena. Anche la «piccola storia» del singolo credente può diventare una «storia di salvezza» perché illuminata dalla speranza che si fonda sull’amore fedele di Dio.

Nel Salmo 27 il salmista invita il credente alla speranza: «Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore» (Sal 27,14). La speranza è fonte di fortezza nell’affrontare la vita. L’invito alla speranza come modo di stare del credente nel mondo si fonda per il salmista in una certezza: «Sono certo di contemplare la bontà del Signore» (Sal 27,13). Si rivela molto bene in questi due versetti come speranza e certezza, nella Bibbia, camminino insieme e non siano in contrapposizione, come lo sono nel nostro linguaggio comune.

Conclusione

La speranza, per come abbiamo potuto vedere in queste brevi riflessioni su alcuni testi biblici, per la Scrittura è il modo con cui i credenti abitano la storia e, soprattutto, guardano al futuro. Come un credente sta nella storia? È una domanda che trova in Dio la sua risposta. Il credente abita la storia credente, cioè facendo affidamento in un Dio che ama «di amore eterno». Per il credente l’esito della storia non è una «incognita», ma una certezza, che ha in Dio il suo garante. Da qui deriva la possibilità di abitare la storia con speranza. La «disperazione» è un vocabolo che dovrebbe essere sconosciuto al credente.

Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli