mercoledì 27 febbraio 2019

L'Osservatore Romano: Riscoprire la “sororità”

 Quell’«essere figli» da cui nasce ogni legame

Con queste righe si vuole avviare una riflessione che non termini con esse, ma che, si spera, possa continuare, aprendo sempre più spazio alla ricchezza della vita ed alla concretezza dell’umano. Il punto di partenza è il concetto di fraternità che è inclusivo di uomini e donne poiché indica un’attitudine universalmente umana che chiunque può possedere e vivere, indipendentemente dalla personale appartenenza sessuale. In questo senso, tale concetto può essere utilizzato sia in riferimento agli uomini che alle donne ed il suo carattere inclusivo risulta ancora più accentuato nel cristianesimo poiché qui la fraternità si fonda sulla comune figliolanza degli esseri umani che, nel Figlio, sono tutti figli di Dio e, quindi, fratelli tra di loro, al di là di ogni barriera razziale, culturale e sessuale. 

Fraternità, pertanto, non esprime più una semplice, benevola, disposizione interiore, ma una realtà che non è posta in essere dai soggetti e che attende di essere riconosciuta e ratificata, non potendo, però, essere annullata, così come non può esserlo lo stato creaturale. 

Oltre a fraternità, tuttavia, c’è anche il concetto, poco usato, ma esistente, di sororità, che vuole indicare o la relazione di una donna con un’altra donna, oppure quella di una donna con un uomo, considerata, in questo secondo caso, dal punto di vista della donna. 
Con sororità non si tratta di un doppione di fraternità o di una “civetteria” femminista, motivata dall’ansia di declinare tutto anche al femminile, bensì della volontà di aderire alla concretezza dell’esistenza, sapendo che in nulla le donne sono omologabili agli uomini e che la differenza tra loro segna anche la sfera emotiva e quella spirituale. 
Già da vari anni alcune teologhe stanno riflettendo su sororità, con l’intenzione di cogliere in profondità in che cosa, precisamente, “essere sorella di” differisca da “essere fratello di”, senza, però, cadere in alcuna “mistica della femminilità” che voglia proporre un’immagine stereotipata della donna, che conduca ad un’omologazione non meno pericolosa di quella che appiattisce sul maschile, cioè quella di introdurre un modello unico di donna, irrispettoso delle diversità individuali. 
Chiedersi che cosa sia la sororità è, dunque, una domanda enorme, proprio come lo è chiedersi chi sia una donna e si può tentare di abbozzare solo una risposta che, però, rimane aperta ed incompiuta, attendendo che ogni donna aggiunga la sua personale sfumatura, frutto della vita e dell’esperienza che è sempre irripetibile. 
L’esigenza di concretezza a cui risponde il concetto di sororità è subito evidente se si considera che io posso dire ad un’altra donna o ad uomo “sono tua sorella”, ma non potrò mai dire “sono tuo fratello”, pena lo scadimento nella più vuota astrattezza o, addirittura, nel ridicolo. Dichiarandomi sorella di qualcuno, donna od uomo che sia, io intendo instaurare una relazione assolutamente paritaria, nella quale nessuno dei due stia in posizione subordinata e nella quale, e questo è prioritario, gli unici collanti sono l’amore e la dedizione, disinteressata e rispettosa della peculiarità dell’altra/o. In tutto ciò non vi è nulla di fondamentalmente diverso da quello che si esprime con fraternità, ma si dà voce alla consapevolezza di uno specifico femminile che non scava un abisso con il maschile, ma consente che entrambi possano reciprocamente arricchirsi in relazioni, tra donne e tra donne ed uomini, nelle quali tutto il valore di quello che è universalmente umano sia declinato secondo la peculiarità di ciascun sesso. 
Tutte le riflessioni che si sono fino a qui svolte su sororità, nella sua accezione più ampia ed universalmente umana, analogamente a quanto si è accennato per fraternità, acquistano uno spessore del tutto particolare se sono lette nel contesto della fede cristiana in un Dio del quale tutti, uomini e donne, sono figli. 
Questa considerazione appare oggi assolutamente ovvia e, del resto, è pienamente fondata nei testi biblici che, con l’Antico Testamento, ci parlano di splendide figure femminili, e che, con il Nuovo Testamento, ci descrivono il rapporto di donne con Gesù che esse seguono con l’amore a la dedizione che sono propri delle sorelle verso il fratello e maestro amato. Tuttavia, lungo i duemila anni di storia del cristianesimo non è sempre stato così ed il rapporto delle donne con gli uomini è stato sovente visto soltanto come fonte di pericolo per questi ultimi, mentre quello delle donne tra loro come un insieme di pettegolezzi e chiacchiere insulse. 
Volendo, quindi, evidenziare il significato cristiano di sororità, si aprono numerose, varie piste di indagine ed ora se ne vogliono sinteticamente percorrere tre che appaiono particolarmente rilevanti. In primo luogo, riferendosi al rapporto di una donna con un uomo, si pensa a quello con il sacerdote, rapporto spesso segnato dal sospetto e dalla diffidenza, ma che, visto come quello di una sorella con un fratello, può rivelarsi come una vera e profonda amicizia, caratterizzata da un intensa affinità spirituale e da una condivisa operosità apostolica. 
In seconda istanza, poi, attraverso il canale della sororità passa l’apertura delle donne cristiane verso quelle di tutto il mondo, indipendentemente dalla collocazione geografica e dall’appartenenza culturale e religiosa, delineando la possibilità di uno sguardo femminile sul mondo, volto al progetto di una sua sempre più piena umanizzazione. Infine, nell’ambito della comunità ecclesiale non si può non pensare a quelle donne che sono sempre state indicate come sorelle, ovvero le consacrate. Esse, infatti, pur nella peculiarità del loro stato di vita e con la consapevolezza dei molti problemi che le riguardano, costituiscono un segno potente che addita a tutte le cristiane la possibilità di rapporti tra donne all’insegna dello spirito del Vangelo, capaci di allargarsi, come cerchi concentrici, fino a coinvolgere altre credenti, profondamente solidali fra di loro, nel rispetto e nel riconoscimento delle loro diversità innestate, però, nell’unica fede professata al femminile. Come si è accennato inizialmente, queste righe intendono essere solo un primo, piccolo passo nella direzione della ricerca di nuove modalità per vivere concreti rapporti nei quali le donne, con la loro soggettualità, possano essere protagoniste consapevoli e responsabili.

di Giorgia Salatiello

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA QUARESIMA 2019

«L’ardente aspettativa della creazione
è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio
» (Rm 8, 19)


Cari fratelli e sorelle,

ogni anno, mediante la Madre Chiesa, Dio «dona ai suoi fedeli di prepararsi con gioia, purificati nello spirito, alla celebrazione della Pasqua, perché […] attingano ai misteri della redenzione la pienezza della vita nuova in Cristo» (Prefazio di Quaresima 1). In questo modo possiamo camminare, di Pasqua in Pasqua, verso il compimento di quella salvezza che già abbiamo ricevuto grazie al mistero pasquale di Cristo: «nella speranza infatti siamo stati salvati» (Rm 8,24). Questo mistero di salvezza, già operante in noi durante la vita terrena, è un processo dinamico che include anche la storia e tutto il creato. San Paolo arriva a dire: «L’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19). In tale prospettiva vorrei offrire qualche spunto di riflessione, che accompagni il nostro cammino di conversione nella prossima Quaresima.

1. La redenzione del creato

La celebrazione del Triduo Pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo, culmine dell’anno liturgico, ci chiama ogni volta a vivere un itinerario di preparazione, consapevoli che il nostro diventare conformi a Cristo (cfr Rm 8,29) è un dono inestimabile della misericordia di Dio.

Se l’uomo vive da figlio di Dio, se vive da persona redenta, che si lascia guidare dallo Spirito Santo (cfr Rm 8,14) e sa riconoscere e mettere in pratica la legge di Dio, cominciando da quella inscritta nel suo cuore e nella natura, egli fa del bene anche al creato, cooperando alla sua redenzione. Per questo il creato – dice san Paolo – ha come un desiderio intensissimo che si manifestino i figli di Dio, che cioè quanti godono della grazia del mistero pasquale di Gesù ne vivano pienamente i frutti, destinati a raggiungere la loro compiuta maturazione nella redenzione dello stesso corpo umano. Quando la carità di Cristo trasfigura la vita dei santi – spirito, anima e corpo –, questi danno lode a Dio e, con la preghiera, la contemplazione, l’arte coinvolgono in questo anche le creature, come dimostra mirabilmente il “Cantico di frate sole” di San Francesco d’Assisi (cfr Enc. Laudato si’, 87). Ma in questo mondo l’armonia generata dalla redenzione è ancora e sempre minacciata dalla forza negativa del peccato e della morte.

2. La forza distruttiva del peccato

Infatti, quando non viviamo da figli di Dio, mettiamo spesso in atto comportamenti distruttivi verso il prossimo e le altre creature – ma anche verso noi stessi – ritenendo, più o meno consapevolmente, di poterne fare uso a nostro piacimento. L’intemperanza prende allora il sopravvento, conducendo a uno stile di vita che vìola i limiti che la nostra condizione umana e la natura ci chiedono di rispettare, seguendo quei desideri incontrollati che nel libro della Sapienza vengono attribuiti agli empi, ovvero a coloro che non hanno Dio come punto di riferimento delle loro azioni, né una speranza per il futuro (cfr 2,1-11). Se non siamo protesi continuamente verso la Pasqua, verso l’orizzonte della Risurrezione, è chiaro che la logica del tutto e subito, dell’avere sempre di più finisce per imporsi.

La causa di ogni male, lo sappiamo, è il peccato, che fin dal suo apparire in mezzo agli uomini ha interrotto la comunione con Dio, con gli altri e con il creato, al quale siamo legati anzitutto attraverso il nostro corpo. Rompendosi la comunione con Dio, si è venuto ad incrinare anche l’armonioso rapporto degli esseri umani con l’ambiente in cui sono chiamati a vivere, così che il giardino si è trasformato in un deserto (cfr Gen 3,17-18). Si tratta di quel peccato che porta l’uomo a ritenersi dio del creato, a sentirsene il padrone assoluto e a usarlo non per il fine voluto dal Creatore, ma per il proprio interesse, a scapito delle creature e degli altri.

Quando viene abbandonata la legge di Dio, la legge dell’amore, finisce per affermarsi la legge del più forte sul più debole. Il peccato che abita nel cuore dell’uomo (cfr Mc 7,20-23) – e si manifesta come avidità, brama per uno smodato benessere, disinteresse per il bene degli altri e spesso anche per il proprio – porta allo sfruttamento del creato, persone e ambiente, secondo quella cupidigia insaziabile che ritiene ogni desiderio un diritto e che prima o poi finirà per distruggere anche chi ne è dominato.

3. La forza risanatrice del pentimento e del perdono

Per questo, il creato ha la necessità impellente che si rivelino i figli di Dio, coloro che sono diventati “nuova creazione”: «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,17). Infatti, con la loro manifestazione anche il creato stesso può “fare pasqua”: aprirsi ai cieli nuovi e alla terra nuova (cfr Ap 21,1). E il cammino verso la Pasqua ci chiama proprio a restaurare il nostro volto e il nostro cuore di cristiani, tramite il pentimento, la conversione e il perdono, per poter vivere tutta la ricchezza della grazia del mistero pasquale.

Questa “impazienza”, questa attesa del creato troverà compimento quando si manifesteranno i figli di Dio, cioè quando i cristiani e tutti gli uomini entreranno decisamente in questo “travaglio” che è la conversione. Tutta la creazione è chiamata, insieme a noi, a uscire «dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). La Quaresima è segno sacramentale di questa conversione. Essa chiama i cristiani a incarnare più intensamente e concretamente il mistero pasquale nella loro vita personale, familiare e sociale, in particolare attraverso il digiuno, la preghiera e l’elemosina.

Digiunare, cioè imparare a cambiare il nostro atteggiamento verso gli altri e le creature: dalla tentazione di “divorare” tutto per saziare la nostra ingordigia, alla capacità di soffrire per amore, che può colmare il vuoto del nostro cuore. Pregare per saper rinunciare all’idolatria e all’autosufficienza del nostro io, e dichiararci bisognosi del Signore e della sua misericordia. Fare elemosina per uscire dalla stoltezza di vivere e accumulare tutto per noi stessi, nell’illusione di assicurarci un futuro che non ci appartiene. E così ritrovare la gioia del progetto che Dio ha messo nella creazione e nel nostro cuore, quello di amare Lui, i nostri fratelli e il mondo intero, e trovare in questo amore la vera felicità.

Cari fratelli e sorelle, la “quaresima” del Figlio di Dio è stata un entrare nel deserto del creato per farlo tornare ad essere quel giardino della comunione con Dio che era prima del peccato delle origini (cfr Mc 1,12-13; Is 51,3). La nostra Quaresima sia un ripercorrere lo stesso cammino, per portare la speranza di Cristo anche alla creazione, che «sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Non lasciamo trascorrere invano questo tempo favorevole! Chiediamo a Dio di aiutarci a mettere in atto un cammino di vera conversione. Abbandoniamo l’egoismo, lo sguardo fisso su noi stessi, e rivolgiamoci alla Pasqua di Gesù; facciamoci prossimi dei fratelli e delle sorelle in difficoltà, condividendo con loro i nostri beni spirituali e materiali. Così, accogliendo nel concreto della nostra vita la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, attireremo anche sul creato la sua forza trasformatrice.

Dal Vaticano, 4 ottobre 2018, 
Festa di San Francesco d’Assisi

lunedì 25 febbraio 2019

AlzogliOcchiversoilCielo, Rosanna Virgili: "Chiesa e pedofilia"

La conversione dei padri

Quanto abbiamo visto accadere nella Chiesa di Roma in questi giorni colpisce profondamente. Assistere ad una liturgia penitenziale nei Palazzi del “potere” terreno e celeste del Vaticano, celebrata verso sé stessi da chi ne è normalmente ministro per il popolo di Dio, è affatto inusuale.
Sacerdoti posti dalla parte dei penitenti, come i laici, come i peccatori. Un fatto che assume un valore di portata storica. Dalle stanze dirigenti e docenti del Vaticano, spesso, in passato, velate o chiuse, esce un ossigeno di libertà, un’aria profumata di verità. Non di una verità dogmatica, che scende dalle cattedre di cui i Vescovi sono titolari, ma che viene dalla realtà, dai “piedi” della chiesa, dalla voce di chi non ha voce e che vede riconosciuto al suo immenso silenzio il diritto alla parola e all’ascolto. L’immagine evangelica che splendidamente esprime questo rapporto è quella della peccatrice di Luca (cf Lc 7,36-50). Mentre il Fariseo la vede e la ignora e giudica – per la condanna - sia lei, sia Gesù; Gesù la indica come la vera maestra della legge e dell’amore, costringendo Simone a guardarla e ad imparare dai suoi gesti e dalle sue lacrime. Noi non sappiamo se il Fariseo si fosse, poi, convertito, ma abbiamo visto che i Padri assembleari di questi giorni, rappresentanti di tutti i Vescovi del mondo, l’hanno fatto. Con la mitezza di un orecchio attento e di un cuore nudo; con l’umiltà dell’accoglienza della verità, con il silenzio della vergogna e la pena delle lacrime.

Per noi, laici cattolici, è stata la prima volta in cui abbiamo assistito ad un clero contrito, non impegnato, innanzitutto, nell’esercizio dei suoi munera, ma dentro l’atto della fede proprio di ogni semplice battezzato: l’ascolto, la conversione e l’“eccomi”. Fondamento, del resto, di ogni credibile ministero e magistero; condizione per evitare di essere dei meri “funzionari” delle strutture religiose, o amministratori del sacro e proprietari dei suoi profitti. Per questo quanto è accaduto non è solo una “pietra miliare” nella vita della Chiesa, (Jerry O’Connor) ma anche una grande festa.

C’è un secondo aspetto di non minore importanza, quello del metodo: la celebrazione pubblica di questa “liturgia penitenziale”. La Comunità cristiana intera ne è stata informata e testimone. Le pubbliche relazioni dei lavori dell’assemblea hanno coinvolto i cristiani, in modo che potessero parteciparvi; del resto la chiesa è la famiglia di tutti, alla cui salute tutti debbono collaborare condividendo le responsabilità, le fatiche, il peccato, la grazia e la sapienza delle analisi e delle decisioni. Certo, l’attore principale è stato ancora una volta il clero, ma un clero che presenta sé stesso al cospetto della “rabbia” di Dio, espressa dalle vittime – com’ha detto il Papa – e che rinuncia a difendersi corporativamente, ma si espone al giudizio e al confronto. Un clero che “accusa sé stesso” mostrando, così, timor di Dio, invece di accusare gli altri, sempre secondo le parole di Francesco. La trasparenza dell’assemblea fa di questa riunione una pagina degli Atti degli Apostoli, dove pubblicamente e in assemblea plenaria si discuteva sulle questioni essenziali della fede evangelica.

Il terzo grande merito di questa assemblea è il rapporto che ha voluto stabilire con le società civili di ogni nazione in cui la Chiesa è attendata. L’alleanza è, innanzitutto, con chi lotta contro gli abusi sui minori e si impegna, in vario modo, contro ogni violenza di tal genere. È così che l’atto penitenziale celebrato si trasforma in vera conversione, vale a dire non solo nel proponimento di cambiare rotta, ma nel diventare parte della soluzione. Vuol dire prendere impegni precisi e tassativi su cosa fare nel presente- futuro contro la “guerra” che, in tutto il mondo, viene portata, ogni giorno, ai bambini e ai ragazzi, alle donne e ai più deboli.

Una conversione che è, del resto, un tutt’uno con la vocazione cristiana, la cui pura identità è dettata da Gesù: “Lo Spirito del Signore è su di me; mi ha inviato a portare il vangelo ai poveri, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi” (Lc 4,18). Proprio dai piccoli, dagli inermi, dagli esclusi, Gesù ha avuto la gioia più grande, poiché a loro il Padre ha rivelato il mistero del Regno dei cieli. Se la Chiesa non fosse leale nell’annuncio al mondo di questa Buona Notizia, non solo non resisterebbe, ma non avrebbe neppure ragione di esistere.
Per questi ed altri aspetti qualcuno ha parlato di inizio di Riforma della Chiesa cattolica. Noi ci speriamo e ci crediamo fermamente.

La potenza del male

Nel suo discorso conclusivo Papa Francesco ha definito gli abusi sui bambini il segno tangibile del male. Criticando la debolezza dell’ermeneutica positivistica, ha affermato con forza che per una simile mostruosità non c’è spiegazione, né, tanto meno, giustificazione “umana”, poiché l’orrore supera l’uomo, al punto che dobbiamo ricorrere all’opera di Satana. Per chi avesse visto concretamente la devastazione degli abusi sulla carne dei piccoli questa idea non sarebbe affatto peregrina. Vedere neonati di un mese sfregiati con coltelli da cucina sull’inguine, o bruciati da mozziconi di sigarette spenti sulle parti più delicate e sensibili del corpo; bambini di meno di un anno letteralmente scotennati con geometrica cura; piccoli di quattro o cinque anni costretti a ingoiare pastiglie per fare cose che mai potrebbero fare, in condizioni di normalità, sul corpo del carnefice; beh queste e altre migliaia di fantasie del genere non possono davvero venire che dal Maligno. Tanto sembrano superare un livello di male compatibile col termine: “umano”. La pedofilia, o l’infantofilia, - e quanto è terribile l’equivoco linguistico! - non è fatta – ahimè! – di carezze, ma di violenza inaudita, mortifera, diabolica davvero, nel suo calcolo, nella sua programmazione, nella sua reiterazione, nel suo compiacimento della repressione e della sofferenza della vittima, nella malvagità del veder distruggere il germoglio dell’umano. Vale a dire di sé stessi! Quanto rende inevitabile l’interrogazione a Dio: com’è possibile che l’uomo sia capace di tanto?

Una pagina della Bibbia risponde: “Io pongo dinanzi a te la vita e il bene, la morte e il male” (Dt 30,15). Dio ha dato all’uomo, in effetti, la facoltà di fare il bene, così come di fare il male. L’essere umano può volere e fare il male. Proprio per questo Gesù dirà sulla Croce: “perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Non conoscono la potenza del male, lo sfregi sul corpo degli innocenti, che Gesù ha conosciuto. Per questo la guarigione dal male dei pedofili potrà venire non dalla loro eventuale, riscoperta virtù, ma dalla grazia delle loro vittime.

Vittime e carnefici

Ciò che sorprende nel fenomeno della pedofilia è, ancora, l’elemento degli ambienti nei quali si consuma: la famiglia, innanzitutto, poi la scuola, la palestra e la chiesa. I luoghi in cui non solo i bambini, ma tutti noi viviamo e i nostri figli crescono fidandosi e affidandosi. E qui si impone il tema delle donne e delle madri. Com’è possibile che le madri non vedano o non sappiano, non si accorgano, o non denuncino, non sottraggano i loro figli ai mariti e padri, agli zii e nonni? Che succede alle madri? Se pure le cinghiale diventano aggressive e capaci di sbranare chiunque si accosti ai loro neonati, perché le madri dei bambini violati, anche fin da piccolissimi, non sempre si rivoltano ai loro congiunti o agli altri che ne approfittassero? In quali condizioni versano le madri dei bambini e dei ragazzi che subiscono stupri o violenze pedofile? Spesso violentate esse stesse, vivono nel terrore. Ricattate e senza lavoro, non possono pensare di liberarsi dai loro uomini feroci. Spesso private da ragioni antiche di consapevolezza, di forza interiore, sottomesse nelle coscienze al potere maschile ed ai suoi arbìtri. Sole e senza dignità, né parola, né alcuna facoltà di agire.

Ho conosciuto donne nate da stupri – consumati da uomini vecchi su membra poco più che bambine – stigmatizzate e isolate – anche fisicamente - nelle scuole religiose come “figlie del peccato”. Un fatto che appartiene al passato, quando nessuno denunciava simili cose, ma che ci fa capire come sia verosimile che il crimine del pedofilo diventi, paradossalmente, l’origine del senso di colpa che schiaccerà il cuore della vittima.

Il pensiero delle donne

Accanto a queste povere donne e madri, ci sono state, però, e ci sono in numero sempre crescente, le donne che gridano contro queste mostruosità, che denunciano, che mettono in pieno il loro impegno, la loro forza e il loro coraggio, la loro cura per trarre dal magma dell’orrore, sia i figli, sia le madri; sia le bambine, sia le donne.

Statisticamente, nella famiglia, come nella Chiesa, così come in altri ambiti della società civile, la pedofilìa è praticata in grandissima parte da uomini per cui, oltre alla conversione degli stessi – di cui vediamo, oggi, promettenti esempi – dovranno essere le donne a far da muro critico e di protezione tra padri e figli/e, tra vecchi e bambine/i; tra neonati di ogni sesso e maschi adulti malati o in cerca di affermare la loro smania di potere.

Un “muro” che si traduca in una strada per fare esperienza di relazioni sane e mature; che assuma parole e compiti di educazione e formazione della persona, affinché si diventi capaci, tutti insieme, di autentici rapporti umani, che non possono prescindere dall’affettività, dalla moralità e dalla spiritualità. Che porti a reclamare la paternità degli uomini, sempre più spesso disertata o rifiutata dagli stessi, attratti dal mito di un’eterna adolescenza. Il delitto della pedofilia è il delitto dei padri che rapinano la vita ai propri figli, e, nella Chiesa, il peccato che rende il mondo orfano di Dio e sospetta anche la Sua paternità.

Noi donne di ogni fede e cultura, non dobbiamo renderci complici dell’omertà, ma dobbiamo combatterla con decisione e radicalità; dobbiamo superare la paura maturata in secoli di sottomissione, ricatto, violenza e dipendenza che ci hanno fatto “snaturare” persino l’identità femminile e materna, al punto di indurci, talvolta, anche a una tragica e passiva connivenza.
A proposito della pedofilia nella Chiesa, lo storico Alberto Melloni ha dato un’origine molto chiara, ponendola, proprio, nel silenzio delle donne che venne loro imposto, pochi anni dopo la nascita del Cristianesimo, contro la logica evangelica (cf Repubblica 20 Febbraio 2019).

Papa Francesco ha pronunciato parole preziose a proposito della donna, dopo la relazione di Linda Ghisoni: “dare più funzioni alla donna è buono, ma dobbiamo valorizzare il suo pensiero”, ha detto. Sì la Chiesa cattolica ha bisogno di un “pensiero femminile” che aiuti a liberare e promuovere un fecondo pensiero maschile, così da farsi interprete, con esso, di quel “pros tò simpheron” “quel bene di tutti” che è la costruzione del “corpo” della Chiesa (cf. 1Cor 12,7).

L’integrità e la comunione della Chiesa è, infatti, l’unica, autentica testimonianza del Corpo del Signore: insultato, violato, flagellato, ucciso, come tante delle nostre povere creature, ma poi Risorto. E proprio ai fini della testimonianza della Resurrezione, indispensabile è il pensiero e l’esserci appieno della donna, sentinella che veglia nella notte, sospingendo la luce sull’alba del Risorto, proprio come hanno fatto le donne dei Vangeli.

domenica 24 febbraio 2019

SETTIMANA NEWS: Gesù, incarnazione della misericordia di Dio

Gesù, incarnazione della misericordia di Dio


Relazione tenuta da José Antonio Pagola al Congresso internazionale di Avila «Misericordiosi come il Padre» il 7 settembre 2016.

Il percorso che faremo in questa esposizione è semplice: inizierò mostrando che Gesù coglie e vive la realtà di Dio come mistero insondabile di misericordia. Poi, mi soffermerò ad esporre come questa misericordia appaia incarnata nella vita di Gesù orientata radicalmente verso i più bisognosi di compassione, dedicandosi principalmente a coloro che soffrono e nella sua scandalosa accoglienza dei “peccatori” più disprezzati. In terzo luogo, ascolteremo la grande eredità di Gesù: «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso». Termineremo approfondendo la dinamica della misericordia e, a mo’ di conclusione, darò alcuni suggerimenti per camminare verso una Chiesa samaritana e per favorire una cultura che stimoli di più la misericordia.

1. Dio, mistero insondabile di Amore misericordioso
L’accordo è oggi praticamente unanime. Gesù di Nazareth è stato un uomo che ha vissuto e comunicato un’esperienza sana di Dio, senza sfigurarla con le paure, le ambizioni e i fantasmi che, di solito, proiettano i fedeli delle diverse religioni sulla divinità.

La prima cosa che va tenuta bene in mente è che Gesù coglie e vive la realtà insondabile di Dio come mistero di misericordia. Ciò che definisce Dio non è il potere, la forza o l’astuzia, come le divinità pagane dell’impero. D’altra parte, Gesù non parla mai di un Dio indifferente o lontano, che si dimentica delle sue creature. Ancor meno, di un Dio interessato al suo onore, ai suoi interessi, al suo tempio, al suo sabato… Al  centro dell’esperienza di Dio offertaci da Gesù non ci incontriamo con un «legislatore» che governa il mondo per mezzo di leggi, né con un Dio «giustiziere», irritato o adirato davanti al peccato degli uomini.

Per Gesù, Dio è “misericordioso”, “compassionevole”. Quando Gesù parlava di Dio nella sua lingua materna lo chiamava rahum (letteralmente, “viscerale”). Cioè, Dio ha rahamin (viscere di donna). Gli esperti dicono che, probabilmente, all’origine di questo linguaggio che Gesù usa, soggiace l’immagine di un Dio che è un «Padre amato» (Abba), che ha viscere di madre: Dio prova nei nostri confronti ciò che una madre prova verso il figlio che porta nelle sue viscere. Questa è l’immagine preferita da Gesù. Dio ci porta nelle sue viscere.[1]

Questa è la Buona Notizia di Dio proclamata da Gesù. Il mistero ultimo della realtà che i credenti chiamano «Dio» è un mistero di misericordia infinita, bontà senza limiti, offerta continua di perdono. In Dio la misericordia non è un’attività tra altre, ma tutto il suo essere consiste nell’essere misericordioso con le sue creature. Dobbiamo rivedere la teologia metafisica che tende a far di Dio un essere «onnipotente» e arbitrario. Dio solo può ciò che può il suo amore misterioso: non può vendicarsi di noi, non può serbare rancore, non può ricambiare male per male. La misericordia è l’essere di Dio, la sua reazione davanti alle sue creature, il suo modo di guardare i suoi figli e figlie; è questo che muove e orienta tutto il suo comportamento.

Le parabole più commoventi di Gesù, senza dubbio quelle che più gli stavano a cuore, sono quelle che raccontò per manifestare a tutti la sua fiducia assoluta nella misericordia di Dio. La più coinvolgente è, forse, quella del “padre buono”.[2] Quelli che l’ascoltarono per la prima volta restarono senza dubbio sorpresi. Non era quello che si insegnava nelle sinagoghe di Galilea, né nel tempio di Gerusalemme. Dio sarà così? Come un padre che non conserva per sé la sua eredità, che non bada al comportamento dei suoi figli, che aspetta sempre con amore i perduti, che «essendo ancora lontano» vede suo figlio e «gli si commuovono le viscere»?[3] Sarà così Dio? Come questo padre che perde il controllo, si mette a correre, lo abbraccia e bacia affettuosamente come una madre, interrompe la confessione del figlio per risparmiargli altre umiliazioni e lo reintroduce come figlio nella sua casa?

Sarà questa la miglior metafora di Dio? Un padre commosso fino alle viscere, che accoglie con amore i suoi figli perduti e supplica i fratelli ad accogliere anche loro con la stessa compassione? Sarà Dio un padre che cerca di condurre la storia degli uomini fino alla festa finale dove finalmente si celebra la vita e la liberazione di tutto ciò che rende schiavi e degrada l’essere umano? Gesù parla di un banchetto abbondante aperto a tutti. Parla di musica e di balli, di figli perduti che suscitano la compassione del padre, di fratelli invitati ad accogliersi reciprocamente. Sarà questo il segreto ultimo della vita? Sarà questo il progetto umanizzante del regno di Dio, di aprire strade a un mondo più degno, più giusto, più felice per tutti?

Gesù raccontò anche un’altra parabola sorprendente e provocatoria, quella del padrone della vigna che voleva pane e lavoro per tutti.[4] Secondo il racconto, il proprietario della vigna andò di persona sulla piazza del villaggio ad assumere diversi gruppi di operai a differenti ore del giorno. Sorprendentemente, benché gli operai abbiano fatto un lavoro molto disuguale nella vigna, il padrone paga tutti con un denaro: quello che si considerava necessario per vivere a una famiglia contadina di Galilea un giorno. Il padrone non pensa ai meriti degli uni e degli altri, ma che tutti possano cenare quella sera. Quando il gruppo che ha lavorato di più protesta, questa è la sua risposta: «Non ho la libertà di fare quello che voglio delle mie cose ? Oppure, tu sei invidioso perché io sono buono?».

Lo sconcerto dovette essere generale. Che cosa stava suggerendo Gesù? Che Dio non agisce con i criteri che noi usiamo? Che per Dio non contano i meriti? Questa maniera di capire la bontà di Dio, non rompe i nostri schemi religiosi? Che cosa direbbero i maestri della legge e che cosa possono dire i moralisti di oggi? Sarà vero che, dalle sue viscere di misericordia, Dio più che fissarsi sui nostri meriti sta cercando come rispondere alla nostra necessità di salvezza?

2. Gesù, volto della misericordia del Padre

a) Una vita orientata verso i più bisognosi di compassione

Le diverse tradizioni evangeliche indicano la stessa direzione: l’attività profetica di Gesù si mette in moto, ed è motivata e diretta dalla misericordia di Dio. La sua passione per Dio si traduce in compassione per l’essere umano. È la misericordia di Dio che attrae Gesù verso gli ultimi: le vittime, quelli che soffrono, i maltrattati dalla vita o dalle ingiustizie dei potenti, i peccatori e le persone sgradite, i disprezzati da tutti. Il Dio della legge e dell’ordine, il Dio del culto e dei sacrifici, il Dio del sabato mai avrebbe potuto dar vita all’attività profetica di Gesù, così sensibile alla sofferenza degli innocenti e all’umiliazione degli esclusi.

Il vangelo di Luca, in una scena programmatica che avviene secondo il narratore nella sinagoga di Nazareth, evidenzia che non è la religione del tempio quella che orienta l’agire di Gesù, ma è lo “Spirito del Signore” che dà a tutta la sua vita la direzione verso gli ultimi. Attribuendo a se stesso il testo di Isaia 61,1-2, Gesù dice: «Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore».[5] Gesù si sente unto «dallo Spirito» di un Dio che orienta tutto il suo agire profetico in direzione dei più bisognosi di compassione.

 Questi quattro gruppi di persone, i «poveri», i «prigionieri», i «ciechi» e gli «oppressi» rappresentano e riassumono coloro che Gesù porta maggiormente dentro il suo cuore di profeta della compassione. In questa vita data per intero a infondere speranza ai poveri, a liberare da schiavitù, ad alleviare la sofferenza e ad offrire il perdono gratuito di Dio, possiamo vedere incarnata la misericordia del Padre.

b) La sofferenza, prima preoccupazione di Gesù

Dobbiamo dire qualcosa di più. Mosso dalla misericordia del Padre, «il primo sguardo di Gesù non è rivolto al peccato degli altri, ma alla loro sofferenza».[6] La chiave a partire dalla quale Gesù vive Dio e si sforza di aprire strade al suo regno di giustizia non è propriamente il peccato, ma la sofferenza per la mancanza di misericordia nel mondo. Il contrasto con il Battista è chiarificatore. L’agire profetico del Battista era pensato e organizzato in funzione del peccato. Era la sua preoccupazione suprema: denunciare i peccati del popolo, chiamare a penitenza i peccatori e purificare con il loro battesimo quanti si recavano al Giordano. Il Battista non pare vedere la sofferenza: non si avvicina agli infermi né li cura. Non pare conoscere l’esclusione e l’emarginazione in cui vivono non pochi: non guarisce i lebbrosi, non libera i posseduti dal demonio, non accoglie le prostitute. Il Battista non abbraccia i bambini e le bambine della strada, non mangia con peccatori, non li accoglie alla sua tavola. Il Battista non fa gesti di bontà. Il suo agire è strettamente religioso.

Al contrario, la prima preoccupazione di Gesù sono la sofferenza e l’emarginazione che patiscono le persone inferme e denutrite di Galilea, la difesa di quei contadini sfruttati dai potenti latifondisti. I vangeli non presentano Gesù che cammina per la Galilea in cerca di peccatori per convertirli dai loro peccati. Lo descrivono che si avvicina agli infermi per alleviare la loro sofferenza; accarezzando la pelle dei lebbrosi per liberarli dall’esclusione. Per dirlo in altro modo, nell’agire di Gesù è più determinante eliminare la sofferenza e umanizzare la vita che denunciare i peccati e chiamare a penitenza i peccatori. Non è che non lo preoccupi il peccato ma, per il Profeta della compassione, il peccato più grande contro il progetto umanizzante del regno di Dio consiste nell’introdurre nella vita sofferenza ingiusta o tollerarla con indifferenza, disinteressandoci delle persone che soffrono.

Questa attenzione alla sofferenza fa di Gesù un profeta guaritore. Gesù vive il Dio della misericordia come un amico della vita. Soffre al vedere la distanza enorme che c’è tra la sofferenza di tanta gente denutrita e inferma e la vita sana che Dio vuole per i suoi figli e figlie. Per questo si sente Profeta guaritore, pieno dello Spirito buono di Dio, non per condannare e distruggere, ma per curare, liberare dagli spiriti maligni e rafforzare la vita. Per Gesù, Dio è una Presenza buona che benedice la vita e vuole la guarigione, prima dell’osservanza del sabato. Per questo, benedice gli infermi che non possono avere accesso alle benedizioni del tempio. Impone le sue mani su di loro perché vuole avvolgere con la tenerezza di Dio quanti, secondo la credenza popolare, vengono considerati castigati da lui. Voglio richiamare l’attenzione su un dato significativo. Secondo i vangeli sinottici, Gesù non guarisce per confermare il suo messaggio o per provare la sua condizione messianica. Tutti insistono su quello che fa perché, vedendo la sofferenza degli infermi, «gli si commuovono le viscere».[7] Il termine che si usa (splanchnizomai) è lo stesso che Luca usa per parlare della misericordia di Dio.[8] Gesù è rahum: ha viscere di misericordia come il padre della parabola che accoglie il figlio perduto.

Gesù sperimenta anche il Dio della misericordia come il Dio degli ultimi: gli impoveriti dai potenti e i dimenticati dalla religione. Gesù soffre vedendo che nessuno fa loro giustizia. Per questo, si sente anche Profeta difensore dei poveri. Il suo primo gesto è condividere con loro la loro sorte. La vita povera e itinerante di Gesù e dei suoi discepoli, senza scorte né tunica di riserva, non è austerità. È la sua forma di condividere la mancanza di difesa, la vulnerabilità e i rischi che patiscono tanti disgraziati. Gesù, profeta povero del Dio della misericordia, vive tra i poveri, conosce la loro fame e le loro lacrime, stringe al petto i bambini e le bambine della strada, e soffre con loro. Gesù incarna la misericordia del Padre nella sua vita solidale con i poveri.

Nello stesso tempo, Gesù comincia a parlare un linguaggio nuovo e provocatorio. La misericordia di Dio sta chiedendo che si faccia giustizia ai suoi figli più indifesi. Essi devono sapere che la misericordia di Dio non li abbandonerà mai. Per questo, Gesù incomincia a lanciare il suo grido profetico per tutta la Galilea. Si incontra con famiglie che non hanno potuto difendere le loro terre davanti agli abusi dei latifondisti e grida: «Beati voi che non avete niente[9] perché vostro è il regno di Dio». Osserva la denutrizione delle donne e dei bambini, e li assicura: «Beati voi che adesso avete fame perché sarete saziati». Vede piangere di impotenza i contadini quando gli esattori si portano via il meglio dei raccolti e li consola: «Beati voi che adesso piangete perché riderete».[10]

Non è burla né cinismo. Gesù sta condividendo la loro povertà e parla loro in nome del Padre misericordioso. Il messaggio delle Beatitudini è centrale nell’agire profetico di Gesù: «Quelli che non interessano a nessuno sono quelli che più interessano a Dio; coloro che vengono messi ai margini negli imperi costruiti dagli uomini hanno un posto privilegiato nel suo cuore; quelli che non hanno una religione che li difenda, hanno Dio come Padre». Se il regno di Dio è accolto, il mondo cambierà per il bene degli ultimi.

Questo messaggio di Gesù non significa subito la fine della fame e della miseria, ma una dignità indistruttibile per tutte le vittime. Sono i prediletti di Dio e questo dà alla loro dignità una serietà assoluta. In nessuna parte si costruirà la vita così come vuole il Padre della misericordia, se non liberando i poveri dalla fame e dalla miseria. Nessuna religione sarà benedetta da Dio, se non cerca più giustizia per loro. Questo vuol dire introdurre la misericordia di Dio nel mondo: mettere le religioni e i popoli, le culture e le politiche a guardare gli ultimi e a lavorare per la loro dignità: ancora di più, questo è introdurre nel mondo la speranza ultima di una vita piena per quelli che sono stati esclusi ingiustamente da una vita degna e felice in questo mondo.

c) L’accoglienza dei “peccatori” più disprezzati

I vangeli osservano che quello che provocò più scandalo e ostilità nei confronti di Gesù fu la sua amicizia nei confronti di un bene collettivo riconoscibile nelle persone che venivano chiamate con disprezzo “peccatori”. Non era mai successo niente di simile nella storia di Israele. Nessun profeta si era avvicinato a loro con il rispetto, l’amicizia e la simpatia di Gesù. Il termine “peccatore” non aveva in quel tempo il contenuto preciso che avrà poi nella tradizione cristiana. Questo collettivo di «peccatori» era considerato escluso dall’Alleanza, sia per il suo comportamento immorale, sia per la sua professione, sia per il contatto con i pagani, sia per la sua collaborazione con Roma o ragioni simili. Formavano un gruppo proscritto e disprezzato, soprattutto, dai settori più rigoristi che li escludevano dalla convivenza (matrimonio con loro, banchetti, negazione del saluto…). La loro conversione era considerata impossibile. I collettivi più rappresentativi erano gli esattori e le prostitute.

Ciò che più scandalizzava era l’abitudine di Gesù di sedersi a mangiare con loro alla stessa mensa. Non è qualcosa di aneddotico o secondario. È il tratto che caratterizza il suo modo di fare con i peccatori più disprezzati. Secondo un buon numero di autori, è il gesto profetico più originale e rappresentativo del profeta della misericordia. In mezzo a un clima di condanna e di discriminazione generale, Gesù introduce un gesto profetico di accoglienza e inclusione. La reazione fu immediata. Le tradizioni raccolgono fedelmente, prima la sorpresa: «Che? Mangia con pubblicani e peccatori?».[11] Non si tiene a debita distanza. Che vergogna! Poi, l’ostilità, il rifiuto e gli insulti: «Avete un mangione e un beone, amico di peccatori».[12] Gesù non lo smentì mai perché realmente si sentiva «amico di peccatori». La questione era esplosiva. Sedersi a tavola con qualcuno è sempre una prova di rispetto, fiducia e amicizia. Non si mangia con uno qualsiasi e, ancor meno, nel popolo scelto di Israele, dove ci si preoccupava tanto della propria santità. Quello che sta facendo Gesù è qualcosa di impensabile in uno considerato come un “uomo di Dio”. Come poteva sentirsi amico di pubblicani e prostitute?

Però, va aggiunto, Gesù si avvicinava a mangiare con loro, non come un maestro della legge, preoccupato di esaminare la loro vita scandalosa, ma come profeta della misericordia di Dio, che offre loro la sua amicizia e comunione. Il significato profondo di questi pasti consiste nel fatto che Gesù crea con loro una «comunità di mensa»[13] davanti a Dio. Condivide con loro lo stesso pane e lo stesso vino; pronuncia con loro la «benedizione a Dio» e celebra anticipatamente il banchetto finale che, secondo quanto annuncia Gesù, il Padre sta preparando per i suoi figli. Con questo gesto profetico, Gesù sta loro annunciando la Buona Notizia di Dio: «Questa discriminazione che state soffrendo all’interno del popolo eletto non riflette il mistero ultimo di Dio. Anche per voi il Padre è misericordia e benedizione».

La tavola di Gesù è una tavola aperta a tutti. Dio non esclude nessuno, neppure i peccatori più disprezzati. Gesù sa molto bene che la sua tavola con peccatori non è la “tavola pura” dei farisei che escludevano gli impuri, né la “tavola santa” della comunità di Qumran, alla quale non si ammettevano i “figli delle tenebre”. È la “tavola accogliente” di Dio. Questa tavola, condivisa da tutti, rompe il cerchio diabolico della discriminazione e apre uno spazio nuovo dove tutti sono accolti e invitati a incontrarsi con il Padre della misericordia. Gesù pone tutti, giusti e peccatori, davanti al mistero insondabile di Dio. Non vi sono giusti con diritti e peccatori senza diritti. A tutti si offre gratuitamente la misericordia infinita di Dio. Sono esclusi coloro che non l’accolgono.

Questa misericordia insondabile del Padre può essere annunciata solo da una Chiesa accogliente, che elimina pregiudizi e rompe frontiere. In ogni atto di evangelizzazione non può mancare il messaggio del perdono gratuito e immeritato di Dio. Anche oggi tutti i collettivi che sono condannati, discriminati o ignorati in qualche misura dalla società o dalla Chiesa (prostitute, delinquenti, tossicodipendenti, gay, lesbiche, transessuali…) devono ascoltare il messaggio di Gesù: «Quando vi vedete condannati dalla Chiesa, sappiate che Dio vi guarda con amore. Quando nessuno vi perdona, sentite sopra di voi il perdono inesauribile di Dio. Quando vi sentite soli e umiliati, ascoltate il vostro cuore e sentirete che Dio è con voi. Anche se tutti vi abbandonano, Dio non vi abbandonerà mai. Non lo meritate. Non lo meritiamo nessuno. Ma Dio è così: misericordia e perdono senza limiti».

3. «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso»
Gesù visse in una società profondamente religiosa. Tutto l’ordinamento religioso e sociale del “popolo eletto” e la spiritualità di tutti i gruppi venivano da un’esigenza radicale che era formulata nel vecchio libro del Levitico: «Siate santi perché io il Signore, vostro Dio, sono santo».[14] Il popolo deve essere santo, come lo è il Dio che abita nel tempio: un Dio che ama il suo popolo eletto e rifiuta i pagani, benedice coloro che osservano la legge e maledice i peccatori, accoglie i puri, ma separa gli impuri. La santità è la qualità essenziale di Dio, il principio per orientare la condotta del popolo. L’ideale è essere santi come Dio è santo.

Paradossalmente, questa imitazione della santità di Dio, intesa come separazione da ciò che è pagano, non santo, impuro e contagioso, che era pensata per difendere l’identità del popolo eletto, andò di fatto generando una società discriminante ed escludente. All’interno del popolo eletto i sacerdoti godono di un rango di purezza superiore al resto del popolo, perché sono a servizio del tempio dove abita il Dio santo. Gli osservanti della legge beneficiano della benedizione di Dio, mentre i peccatori sono discriminati. Gli uomini appartengono a un livello superiore di purezza sulle donne, sempre sospettate di impurità a motivo delle mestruazioni e dei parti. «I sani godono della predilezione di Dio mentre i lebbrosi, i ciechi, gli invalidi… considerati come “castigati” per qualche peccato, erano esclusi dall’accesso al tempio».[15] Questa religione generava barriere e discriminazione. Non promuoveva la reciproca accoglienza, la comunione e la fraternità.

Gesù lo colse subito e, con una lucidità e un’audacia sorprendenti, introdusse per sempre nella storia umana un principio che la trasforma tutta: «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso».[16] È la misericordia e non la santità il principio che deve ispirare la condotta umana. Dio è grande e santo, non perché rifiuta pagani, peccatori e impuri, ma perché ama tutti senza escludere nessuno dalla sua misericordia. Dio non è proprietà dei buoni. Il suo amore misericordioso è aperto a tutti. «Egli fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi».[17] Nel suo cuore c’è un progetto integratore. Dio non esclude, non separa né scomunica, ma accoglie e abbraccia. Non benedice la discriminazione. Cerca un mondo accogliente e solidale dove i santi non condannano i peccatori, i ricchi non sfruttano i poveri, i potenti non abusano dei deboli, gli uomini non dominano le donne.

Noi seguaci di Gesù dobbiamo incidere con fuoco nel nostro cuore le parole di Gesù: «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso». Queste parole non sono propriamente una legge o un precetto in più. Si tratta di riprodurre nella terra la misericordia del Padre del cielo. Questo invito alla misericordia è la chiave del vangelo, la grande eredità di Gesù all’Umanità. L’unico cammino per costruire un mondo più giusto e fraterno. L’unico modo di costruire una Chiesa più umana e più credibile.

4. Dinamica della misericordia
Come accogliere l’invito di Gesù ad essere misericordiosi come il Padre? Dopo secoli di cristianesimo, oggi è necessario riscattare la misericordia come un “principio di azione pratica”, liberandola da una concezione sentimentale e moraleggiante. Il linguaggio della misericordia può essere pericoloso e ambiguo. In concreto, può suggerire i buoni sentimenti di un cuore buono, ma carente di impegno pratico; può ridursi a “fare opere di misericordia” in qualche momento, senza affrontare le cause ingiuste di molte sofferenze; può intendersi come un comportamento paternalistico nei confronti di alcuni individui senza reagire davanti a una società che continua a funzionare senza misericordia e senza giustizia.

Dobbiamo ascoltare l’invito di Gesù alla misericordia come un grido d’indignazione assoluta: la sofferenza degli innocenti dev’essere presa sul serio; non può essere accettata come qualcosa di normale perché è inaccettabile per Dio. Per questo, il teologo Jon Sobrino propose alcuni anni fa di parlare del «principio misericordia», cioè, un principio interno che è all’origine del nostro agire privato e pubblico, che permane sempre presente e attivo in noi, che imprime in noi un’attenzione verso coloro che soffrono e che ci fa vivere sradicando la sofferenza e le sue cause o, almeno, alleviandola.[18]

a) La parabola del buon samaritano

Lo stesso Gesù disegnò la dinamica della misericordia in una parabola indimenticabile che raccoglie il vangelo di Luca e che è conosciuta come “parabola del buon samaritano”.[19]

Per non uscire malconcio da una conversazione con Gesù, un maestro della legge termina facendogli questa domanda: «Chi è il mio prossimo?». La domanda era molto importante in quella società. L’“amore al prossimo” era riconosciuto da tutti come un grande precetto, unito al comando dell’“amore a Dio”. Il Levitico ordina così: «amerai il prossimo tuo come te stesso».[20] Però, al tempo di Gesù, questo precetto si interpretava a partire da una concezione molto pragmatica: “Prossimo” è chi è vicino a noi e che è obbligatorio amare. Però, l’obbligo di amare chi è “prossimo” a noi diminuisce nella misura in cui cresce la distanza delle persone (membro della propria famiglia, clan, tribù, popolo di Israele…). Possono esserci perfino persone così lontane da noi (pagani, avversari di Israele, nemici di Dio…) che non è obbligatorio amare; le possiamo anche rifiutare. Questa è la domanda del maestro della Legge: Chi devo considerare “prossimo”? Fino a dove arrivano gli obblighi?

Gesù, che vive alleviando la sofferenza di quanti incontra nel suo cammino, trasgredendo, se occorre, la legge del sabato o le norme di purità, gli risponde con la “parabola del buon samaritano”, dove disegna, in maniera molto concreta, la vera dinamica della misericordia, al di sopra di ogni legalismo che ignori la sofferenza delle persone.

Secondo il racconto, un «uomo» assalito, derubato e spogliato di tutto, giace «mezzo morto», abbandonato nella cunetta di una strada pericolosa. Per fortuna, passano per la strada due viandanti. Prima un sacerdote e poi un levita. Sicuramente vengono dal tempio dopo di avere compiuto il loro servizio cultuale. Il ferito li vede arrivare pieno di speranza: rappresentano il Dio santo del tempio, senza dubbio avranno compassione di lui. Non è così. I due agiscono senza alcuna compassione. Arrivati sul posto «vedono» il ferito, «lo scansano» e continuano il loro cammino. Forse, come servitori del tempio, si attengono al “principio di santità” del Levitico.

All’orizzonte appare un terzo viandante. Non è sacerdote né levita. Neppure appartiene al popolo eletto. È uno spregevole samaritano. Il ferito può aspettarsi il peggio. Questo samaritano, invece, agisce secondo il “principio-misericordia”. Luca descrive il suo comportamento in ogni dettaglio. Arrivato sul posto, «vede» il ferito, «si commuove»[21] e «si avvicina» a lui. Poi, mosso dalla compassione, fa per quello sconosciuto tutto quello che può per rimettere in sesto la sua vita: cura le ferite, le benda, lo fa salire sulla sua cavalcatura, lo porta a un alloggio, si prende cura personalmente di lui e paga quel che manca per la sua guarigione.

b) Dinamica della misericordia

Lo sguardo di compassione. Il samaritano sa guardare il ferito con compassione. La misericordia si risveglia in noi, non tanto per l’attenzione alla legge o la riflessione sui diritti umani. Sgorga in noi quando sappiamo guardare in maniera attenta e responsabile coloro che soffrono, commuovendoci davanti alla sofferenza. Questo sguardo è quello che può liberarci dall’indifferenza che blocca la nostra compassione e dagli schemi ideologici o religiosi che ci permettono di vivere con la coscienza tranquilla.

Come dicevamo sopra, le tradizioni su Gesù hanno conservato il ricordo del suo sguardo compassionevole nel guarire gli infermi, però Matteo insiste sullo sguardo compassionevole di Gesù, non solo nei confronti degli individui, ma anche delle folle. «Sceso dalla barca, vide molta gente, sentì compassione di loro e guarì molti infermi».[22] Al vedere la gente, sentì compassione per loro, perché erano stanchi e abbattuti, come pecore senza pastore».[23] Johan Baptist Metz ha ricordato che di fronte alla «mistica degli occhi chiusi» più propria dell’Oriente, rivolta soprattutto all’attenzione all’interiorità, chi si ispira a Gesù si sente chiamato a coltivare una «mistica degli occhi aperti», una spiritualità di responsabilità assoluta verso coloro che soffrono.

Vicinanza a chi soffre. Il samaritano, mosso dalla compassione, si avvicina al ferito. Non si domanda chi è quello sconosciuto per vedere se può avere qualche obbligo nei suoi confronti per ragioni di razza o di qualche parentela. Semplicemente, si avvicina e si fa suo prossimo. Il comportamento di chi vive mosso dalla compassione non è domandarsi: «chi è il mio prossimo?», ma «chi ha bisogno che io mi avvicini a lui e mi faccia suo prossimo?». Quando uno vive mosso dalla compassione di Dio, si accosta con serietà ad ogni essere umano che soffre, qualunque sia la sua razza, popolo o ideologia. Non si domanda chi devo amare, ma chi mi vuole vicino.

Le tradizioni evangeliche su Gesù lo descrivono mentre si ferma e si avvicina a ogni infermo o mentre chiede ai lontani di avvicinarsi. Nel racconto di Matteo, Gesù, alla periferia di Gerico, ascoltando un cieco che, seduto lungo la strada, gli domanda compassione, arresta il suo cammino verso Gerusalemme. Niente è più importante per lui del grido di chi soffre.[24] Poi, ordina ai suoi discepoli di chiamare il cieco e, quando l’ha vicino, si rivolge a lui con queste parole: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Questa è la disponibilità di Gesù nei confronti di chi soffre.

Il compromesso dei gesti. Il samaritano non si sente obbligato a sottostare a un determinato codice legale. Semplicemente, mosso dalla compassione, risponde alla situazione del ferito, inventando ogni sorta di gesti per alleviare la sua sofferenza e ridonargli la vita.

Di Gesù restò il ricordo di un Profeta che, «unto da Dio con lo Spirito Santo e con potere, passò la vita facendo del bene».[25] Gesù non ha potere politico, né possiede l’autorità religiosa dei dirigenti del tempio. Non può risolvere gli abusi e ingiustizie che si commettono in quell’angolo dell’impero, però cammina per la Galilea e la Giudea, mosso dal potere che gli infonde lo Spirito Santo di Dio, seminando gesti di bontà e compassione.

Solo alcuni esempi. Abbraccia i bambini e le bambine della strada. Perché? Perché non vuole che gli esseri più fragili di quella società vivano come orfani quando hanno Dio come Padre. Benedice gli infermi. Perché? Perché non si sentano “maledetti da Dio” per non poter ricevere la benedizione dei sacerdoti del tempio. Accarezza la pelle dei lebbrosi, perché nessuno li escluda dalla convivenza. Guarisce trasgredendo il sabato, perché tutti sappiano che neppure la legge più sacra è al di sopra dell’attenzione verso coloro che soffrono. Accoglie i disprezzati e mangia con peccatori e prostitute perché, nel momento di esercitare la misericordia, il peccatore e l’indegno abbiano diritto come il giusto e il pio ad essere accolti con misericordia.

Per capire bene la dinamica della misericordia possiamo distinguere tre elementi. Nel primo momento, per così dire, dobbiamo interiorizzare la sofferenza altrui, lasciando che penetri in noi; farla nostra, lasciare che ci faccia male. In un secondo momento, questa sofferenza interiorizzata provoca in noi una reazione; diventa un punto di partenza di un comportamento attivo e responsabile; viene ad essere un principio di azione, uno stile di vita. Da ultimo, questo stile di vita va concretandosi in impegni e gesti, orientati a sradicare la sofferenza, o almeno, ad alleviarla.

5. A mo’ di conclusione

a) Verso una Chiesa samaritana

Per la Chiesa è molto importante trovare il suo posto nella società moderna. È evidente che la Chiesa di Gesù non può vivere chiusa in se stessa, preoccupata solo dei suoi problemi, pensando esclusivamente ai suoi interessi. Deve stare in mezzo al mondo, però non in qualsiasi modo. Se accoglie veramente l’eredità del Profeta della misericordia, deve stare in un luogo molto preciso: là dove si produce sofferenza, là dove vi sono le vittime, gli impoveriti, i maltrattati dalla vita o dall’ingiustizia degli uomini, le donne maltrattate nella propria casa, i rifugiati, gli stranieri senza documenti. Per dirlo in una parola, deve stare nella cunetta accanto ai feriti.

Nel corso dei secoli sono sorti nella Chiesa istituzioni benefiche, centri assistenziali, ospedali, luoghi di accoglienza, congregazioni religiose per assistere infermi, orfani, appestati, bimbi abbandonati, prostitute, malati psichici. Sono il volto compassionevole della Chiesa, il meglio che abbiamo nella Chiesa. Però non è sufficiente. Dobbiamo lavorare perché la Chiesa come tale sia configurata nella sua totalità dal principio della misericordia. La Chiesa dovrebbe farsi notare per essere il luogo dove si possa osservare la reazione più impegnativa e audace davanti alla sofferenza che c’è nel mondo. Il luogo più sensibile davanti a tutte le ferite fisiche, morali e spirituali degli uomini e delle donne di oggi. È la misericordia che può rendere la Chiesa di oggi più credibile.

Che cosa può significare oggi, nella nostra cultura, una parola del magistero sul sesso, la famiglia, la donna o sui diversi problemi della vita, detta senza compassione nei confronti di coloro che soffrono? A che serve una teologia accademica, se non ci risveglia dall’indifferenza? A che serve insistere sulla liturgia e sul culto se l’incenso e i canti non ci lasciano udire le grida di coloro che soffrono? Ha ragione J.B. Metz, che va da anni denunciando che nelle comunità cristiane dei paesi sazi d’ Europa vi sono troppi canti e poche grida di indignazione, troppa compiacenza e poca nostalgia di un mondo più umano, troppa consolazione e poca fame di giustizia.

 D’altro canto, è urgente introdurre nell’agire e nel messaggio della Chiesa un principio di evangelizzazione che formulerei così. Tutto quello che impedisce, oscura o rende difficile cogliere il mistero di Dio come misericordia, offerta continua di perdono gratuito e sollievo della sofferenza, deve sparire dalla Chiesa, perché non contiene la Buona Notizia di Dio proclamata da Gesù.

b)Verso una cultura sotto la spinta della misericordia

Se siamo fedeli all’eredità di Gesù sulla misericordia di Dio, dobbiamo affermare che ciò che è decisivo per la storia umana è accogliere, introdurre e sviluppare la compassione che esige giustizia nei confronti di coloro che più soffrono. Non basta sviluppare un progresso secondo la visione che hanno i potentati economici, politici e religiosi, quasi sempre orientati verso i loro interessi. È necessario parlare di giustizia, sì, ma di giustizia che nasce dalla compassione e che introduce nel mondo una nuova dinamica e una nuova direzione. La compassione orienta e dà impulso a tutto per una vita più degna nei confronti di coloro che più soffrono.

 Non c’è progresso umano, non c’è politica progressista, non c’è proclamazione responsabile dei diritti umani, non c’è giustizia nel mondo se non si cerca una vita più degna, più giusta e più solidale con gli ultimi della terra. Anche oggi, per i seguaci di Gesù, gli ultimi devono essere i primi. La strada verso un mondo più degno e felice per tutti si incomincia a costruirla a partire da loro. Questo primato è assoluto. Lo vuole Dio. Non dev’essere sottovalutato da nessuna politica, ideologia o religione.

Sono convinto che noi cristiani dobbiamo imparare a seguire Gesù a partire dalle vittime. Questo comporta rompere la cultura dell’indifferenza, pensare a partire dalla sofferenza delle vittime, fare spazio nella nostra vita agli emarginati e agli esclusi, promuovere la solidarietà a livello mondiale pensando alle necessità degli ultimi e dimenticandoci dello sviluppo del nostro benessere.[26]

Terminerò ricordando le grida strazianti di Francesco nella piccola isola di Lampedusa: «Abbiamo perduto il senso della responsabilità fraterna»; «La cultura del benessere ci rende insensibili alle grida degli altri»; «Siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza»; «Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro… e ora non ci interessa, non è compito nostro».[27]

Testo a cura di Francesco Strazzari.

domenica 17 febbraio 2019

L'Osservatore Romano: Un profeta dell’oggi

A cinquant’anni dalla morte di Thomas Merton


15 febbraio 2019

Sono passati cinquant’anni da quella mattina calda, umida e afosa, in cui Thomas Merton perse la vita folgorato in una camera d’albergo di Bangkok da un ventilatore difettoso contro cui aveva inciampato. Anni di studi e ricerca in sordina, con un audience spesso da addetti ai lavori, e perfino qualche difficolta’ a trovare gli editori disponibili. Poi d’incanto la fatica viene premiata. E’ il 24 settembre del 2015 quando Papa Francesco in visita in America parla al Congresso degli Stati Uniti e, in un discorso che rimarra’ nella storia (interrotto 36 volte dagli applausi, riferiscono le cronache), cita quattro “Grandi Americani”: Abrahm Lincoln, Martin Luther King, Doroty Day, e, a sorpresa, appunto Thomas Merton, il monaco cistercense che parlo’ al mondo dalla clausura, uno dei grandi maestri di spiritualita’ del ‘900, amico di san Paolo VI, precursore del dialogo interreligioso, icona dei movimenti per la pace, ricercatore infaticabile di Dio nel travaglio dell’umano. “Da quel giorno, grazie alla citazione del Papa, il nostro lavoro e’ stato premiato: l’interesse per la vita e gli scritti di Merton ha conosciuto una nuova stagione, un nuovo fascino e il plauso di essere risposta possibile ai sempre crescenti bisogni e frustrazioni spirituali dell’uomo del secondo millennio” a dirlo e’ Jonathan Montaldo, lo scrittore Americano considerato , insieme a Paul Pearson, il maggiore esegeta e studioso mondiale di Merton. Da poco si sono concluse le celebrazioni per il cinquantesimo della sua morte, avvenuta il 10 dicembre 1968. Un anno pieno di eventi, convegni, ricordi, pubblicazioni, che si e’ concluso con qualche anticipo rispetto alla scadenza del 31 gennaio, data del suo 103simo compleanno, per farla coincidere con il compleanno di un altro grande maestro di spiritualita’ del ‘900, Henri Nouwen. I centri principali dei tanti incontri (che hanno spaziato dalla ricerca di Dio nel se’ attraverso la meditazione Cristiana, all’ eredita’ di Merton nella pratica della preghiera e nella vita contemplativa, alla sua produzione artistica e fotografica, alla sua prospettiva ecologistica, al carattere complessivamente profetico dei suoi scritti) sono stati la Corpus Christi Chapter di New York della International Thomas Merton Society, e il Merton Centre della Bellarmine University di Louisville, dove e’ conservata tutta la sua produzione letteraria ed artistica. I suoi confrere dell’Abbazia Nostra Signora di Gethsemani a Louisville hanno organizzato in dicembre una liturgia che ha ripetuto il servizio funebre di 50 anni prima. Ma l’evento forse piu’ importante si e’ svolto a Roma, dove dal 13 giugno si sono riuniti all’ Ateneo Pontificio di sant’Anselmo in un Simposio Mondiale i maggiori esperti dai 5 continenti che hanno affrontato in oltre 20 relazioni molti aspetti inediti o controversi della sua vita ed opera. Dice il professor Bernard Sawicki, monaco benedettino e organizzatore del Simposio, “Siamo orgogliosi a sant’Anselmo di aver raccolto e rilanciato a livello mondiale con questo straordinario evento, l’eredita’ profetica di Thomas Merton”. “Nei prossimi mesi saremo in grado di pubblicare gli atti completi del Simposio”, che e’ stato organizzato in collaborazione con l’ Associazione Thomas Merton Italia, guidata da don Mario Zaninelli. Zaninelli, presbitero della diocesi di Milano, ha al suo attivo diverse pubblicazioni su Merton, ed ha curato la traduzione italiana di molte sue opere. Lo scorso mese ha anche curato una mostra fotografica sul Trappista Americano che si e’ tenuta all’interno dell’antica abbazia cistercense di Morimondo (MI), e che presto arrivera’ anche a Roma. Dice Zaninelli “La voce di Merton, profeta dell’oggi, e’ profetica in quanto riesce ancora oggi ad inquietare molti cuori”. Insomma, una comunita’ di studio di preghiera in viaggio. Quello stesso viaggio che per Merton e’ “un viaggio interiore, un impegno di crescita, di approfondimento, di abbandono all’azione creativa dell’amore e della Grazia nei nostri cuori. Mai come oggi e’ necessario rispondere a questa azione. Io prego perche’ tutti noi possiamo farlo”.

di Roberto Cetera

sabato 16 febbraio 2019

FMGB: Le beatitudini evangeliche nella visione dei Padri della Chiesa

La vita dell’uomo sulla terra è un’ ascesa verso la beatitudine del regno dei cieli. È questa la fede dei primi cristiani. I Padri della Chiesa annunziavano che solo “Dio è veramente beato”, mentre l’uomo è “beato” se diviene “partecipe della essenziale beatitudine di Dio” [1]. La sete di felicità che germoglia nel cuore umano può trovare la sazietà soltanto nella “beatitudine” della vita divina. La storia dell’umanità è un pellegrinaggio verso la felicità eterna. Il Figlio di Dio è disceso sulla terra per innalzare l’uomo fino al cielo.
Gesù conosceva l’aspirazione dell’uomo a vivere una “vita beata”.
Nel messaggio delle beatitudini egli mostrava agli uomini la via della vita per guidarli a vivere il vangelo della gioia. Il “discorso della montagna” spalancava agli occhi dei discepoli il luminoso orizzonte della beatitudine per attirare tutti gli uomini alle altezze della vita paradisiaca. I Padri della Chiesa intravidero nelle beatitudini proclamate da Cristo un “segno” della sua “personalità messianica”. L’altezza della parola di Gesù svelava la sua identità di Figlio di Dio.
“Tutti gli uomini cercano la beatitudine” [2]. Sant’Agostino ripete questo antico ritornello svelando che veramente “beato è chi possiede Dio”, perché solo in Dio la “beatitudine” diviene “felicità senza fine” [3]. La strada delle beatitudini conduce gli uomini dalla terra al cielo saziando la loro sete di felicità. La gioia pregustata nella vita del mondo conoscerà la sua pienezza nell’eternità. Nel gustoso libro apocrifo dell’Apocalisse di Pietro il Figlio di Dio promette che un giorno accoglierà i credenti “nel suo giardino aperto e grande, pieno di splendidi alberi, di frutti benedetti e di profumo di aromi” [4].
Gesù trasfigura il pensiero degli uomini chiamando beati quelli che il mondo considera infelici: i poveri, gli affamati, i perseguitati. La sua parola è un capovolgimento del pensiero del mondo. Il Messia è “l’araldo della buona novella della salvezza donata da Dio … egli la manifesta col suo comportamento verso i piccoli, i poveri, gli ammalati, i diseredati di ogni specie, a cominciare dai peccatori” , esclama il grande studioso delle “beatitudini” Jacques Dupont. [5] E già l’insigne fondatore della “Scuola Biblica” di Gerusalemme Marie-Joseph Lagrange aveva affermato che le Beatitudini sono “il grande colpo d’ala che pone l’insegnamento di Gesù al disopra di ogni felicità puramente umana” [6].
Beati! Makarioi, risuona la parola nel Vangelo. ‘Ashrê: ecco la confidenziale soavità della voce di Gesù nella sua lingua nativa. Il Maestro in quel momento volgeva lo sguardo alla moltitudine degli uomini e delle donne radunate sulla montagna dinanzi allago di Galilea per l’ascolto della Parola di Dio. Nel messaggio delle “beatitudini” egli desiderava effondere sui suoi ascoltatori, e sugli uomini di tutti i tempi, lo spirito dell’ amore e della gioia.
I pellegrini che si affacciano oggi a quella meravigliosa “finestra” sul Mare di Galilea che è la “Montagna delle Beatitudini” vedono dinanzi ai loro occhi le stesse onde accarezzate dal vento eJe stesse colline bruciate dal sole che Gesù contemplava mentre pronunziava le beatificanti benedizioni del Vangelo. Il lago di “Kinneret”, nel quale gli Israeliti vedevano l’immagine di un’arpa e di una cetra, custodisce ancora la risonanza delle parole di Cristo.
I viaggiatori della fede cercano nei luoghi santi d’Israele le orme dei passi del Messia, desiderosi di seguire il cammino del Figlio di Dio sulla terra degli uomini. L’antica appassionata viaggiatrice Eteria partì con questo desiderio per visitare la patria di Gesù milleseicento anni fa e trasmise a noi la mirabile descrizione dei santuari e delle liturgie della Terra Santa.
Oggi i credenti che possono compiere il sacro pellegrinaggio al “Monte delle Beatitudini”, ed anche quelli che rimangono affascinati dai racconti dei fortunati pellegrini, nell’ ascoltare la vibrante parola del Maestro sentono risuonare la voce dolcissima del Padre Celeste, apparso visibilmente agli uomini nel suo figlio Gesù Cristo.
Nel messaggio delle beatitudini sembra straripare dal cuore di Cristo l’infinito amore di Dio per la famiglia umana. È un inno alla vita che risolleva i deboli e gli abbandonati, svelando che Dio è fedele alla sua promessa.
Gli affamati e gli assetati, i poveri e i perseguitati, i sofferenti e tutti i diseredati possederanno “il regno dei cieli”. Gli uomini “miti e mansueti” possederanno anche “la terra”.
Terra e cielo sono “tutto” per chi non ha niente e per chi non conta niente agli occhi del mondo. “Dio è tutto per te”, esclama sant’Agostino: “Dio, se hai fame è pane, se hai sete è acqua per te, se sei nelle tenebre è luce per te” [7]. La promessa si realizza già nella vita terrestre per gli uomini che ispirano la loro esistenza a Cristo, riconoscendo che il Messia ha vissuto per primo le beatitudini che aveva proclamato sul monte. È questa la grande “scoperta” dei Padri della Chiesa. Il Figlio di Dio nella sua umanità ha vissuto lo stile delle beatitudini: “Gesù, tutte le beatitudini che ha annunziato nel Vangelo, le conferma con il suo esempio”, dice il grande teologo Origene [8]. Gesù è veramente “beato” perché è povero, mite, misericordioso, affamato e assetato di giustizia, puro di cuore, costruttore di pace. Gesù è “beato” perché è stato perseguitato per la giustizia fino a morire sulla croce.
Nelle “beatitudini” il Figlio di Dio rivela se stesso. E le beatitudini rivelano il Messia. È Gesù l’uomo nuovo del Vangelo. È lui il modello esemplare della mansuetudine: “imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt Il,29). È Lui che annunzia sulla montagna la “legge nuova” per dare compimento alla legge donata da Dio a Mosè sul monte della prima alleanza. La legge dell’amore inaugura una “vita nuova” e dona agli uomini un “cuore nuovo”. Maria di Nazaret nel canto del Magnificat annunzia che Dio ha deciso di ricominciare dagli ultimi: “Il Signore …
innalza gli umili, sazia di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote” (Lc 1,52-53).
La Chiesa delle origini, nata nella Pentecoste dello Spirito Santo, bramava di estinguere la sua “sete di Dio” alla sorgente delle Beatitudini.
Nella nuova “legge dell’ amore” i cristiani scoprivano un’ orma visibile della presenza del Figlio di Dio sulla terra. Il Messia, camminando per le strade della Palestina insieme ai suoi discepoli, con la soavità della sua voce li aveva infiammati a vivere le beatitudini come le viveva Lui. Gesù, effondendo sull’umanità lo spirito dell’ amore nella sua Pasqua e nella Pentecoste, invitava i credenti a riconoscerlo nel pane dell’Eucaristia per gustare ogni giorno la misteriosa beatitudine della croce e della risurrezione.
Il “gusto” che i cristiani antichi provavano nell’ascolto delle Beatitudini è di grande attualità per la missione dei credenti oggi nella Chiesa e nel mondo, poiché nelle beatitudini è visibile la purissima sorgente della spiritualità cristiana [9]. Nel “discorso della montagna” i primi cristiani riconobbero il più alto progetto della imitazione di Cristo, che aveva rivolto a tutti gli uomini la sua promessa: “Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” [10]. La voce di Dio fin dall’Antico Testamento aveva esortato gli uomini a edificare “la giustizia sulla terra al fine di ritrovarla in cielo” [11]. Il Figlio di Dio nel suo eccelso “discorso della montagna” aveva proclamato “beati gli affamati e assetati della giustizia” (Mt 5,6). I cristiani del tempo dei martiri vivevano con lo sguardo rivolto al cielo assaporando la fame di giustizia insieme alla fame di Cristo: “A me sembra che il Signore – dice Origene – presenti se stesso all’ appetito dei suoi ascoltatori” [12].
Le Beatitudini, svelando !’identità umana e divina del Messia, risuonarono come la profezia di una nuova storia per l’umanità. Gesù di Nazareth, dice J acques Dupont, nel discorso della montagna manifesta la “maniera con cui Dio intende esercitare la sua giustizia regale a favore dei poveri, degli oppressi e di tutti coloro che soffrono” [13] .
La mitologia greca aveva rappresentato la “Giustizia” come una vergine dea che sedeva accanto al trono di suo padre Zeus, giudice delle ingiustizie degli uomini. TI pensiero filosofico e anche politico mantenne alle origini la connotazione divina della giustizia, pur nella visione che diveniva immanente nella coscienza dell’individuo e nella legge della società. La “norma cosmica” di Eraclito divenne in Pindaro “fondamento incrollabile della città” e fu considerata da Platone come “l’armonia dell’anima” e “l’insieme delle virtù”. Lo Stoicismo definì la giustizia la “scienza che attribuisce a ciascuno secondo il merito”. Cicerone chiamò la giustizia “la più eccelsa fra le virtù” [14].
Dinanzi alla definizione classica della giustizia che esortava a “dare ad ognuno il suo”: unicuique suum tribuere, Gregorio di Nissa, pur considerando veritiera l’intuizione dei filosofi, esclama: “Guardando all’altezza della legislazione divina, io ritengo che in questa giustizia si debba intendere qualcosa di più” [15]. La giustizia è “la bellezza per se stessa”; il desiderio di giustizia “è comune ad ogni uomo” e quindi deve essere realizzabile dal povero e dal ricco, e non solo da chi è preposto all’amministrazione della giustizia nella società: se infatti riguardasse soltanto coloro che sono costituiti nel potere – si domanda San Gregorio – “come potrebbe essere giusto quel Lazzaro messo da parte alla porta del ricco, che nessuna materia possedeva per tale giustizia?” [16].
È necessario ascendere “alla montagna spirituale della elevata contemplazione” per accorgersi che la giustizia non è frutto della ricchezza e del potere. La crescita della ricchezza infatti sazia alcuni gettando nella fame gli altri; il cristiano invece è “affamato di giustizia” perché la giustizia è una ricchezza spirituale simile alla luce del sole: “il sole distribuiste se stesso a tutte le persone che lo guardano e giunge tutto intero a ciascuna” [17].
Nelle “beatitudini” i credenti videro l’immagine di una “scala” che sale verso le altezze di Dio: la Scala del Paradiso. La vita terrestre è un’ ascensione dalla terra al cielo. Ogni persona che” aspira alla felicità eterna potrà riconoscere nelle beatitudini i gradini di una scala privilegiata”, afferma Gregorio di Nissa [18]. “Tu prega per ottenere la felicità! … Si deve cercare la vita beata e chiederla al Signore”, raccomanda Agostino [19].
E San Cesario di Arles svela che tutti i credenti, vivendo le beatitudini, hanno la grande possibilità di restituire a Dio il suo amore riversandolo soprattutto sui poveri e sugli affamati: “Dio su questa terra ha fame e sete nella persona di tutti i poveri … Quando un povero ha fame, è Cristo che ha fame … Egli si degna di aver fame e sete in tutti i poveri: quello che riceve sulla terra, lo restituisce in cielo” [20].
I martiri amarono le beatitudini del Vangelo, perché Gesù con le sue promesse illuminava i loro passi verso la vita eternamente beata. I discepoli di Cristo riconoscevano nel “battesimo” il primo passo verso il “martirio” e nel martirio vedevano la strada verso la risurrezione. Nel “martirio visibile” ed anche nel “martirio nascosto”: esistono infatti in ogni epoca – afferma Origene – cristiani che” sono già martiri nel segreto della coscienza, pronti a effondere il proprio sangue per il nome del Signore nostro Gesù Cristo” [21]. Sant’Ambrogio mostra che la “beatitudine” terrestre è un pellegrinaggio verso la beatitudine eterna e annunzia ad ogni credente che il suo compagno di viaggio nella strada dalla terra al cielo è Gesù: “Egli ti accompagna fino al martirio e ti propone la palma delle beatitudini” [22].
La “palma delle beatitudini” è la promessa di Gesù ai “perseguitati per la giustizia”, ai quali Sant’Ambrogio ricorda che il Messia li esorta a gioire nella sofferenza: “rallegratevi ed esultate!” (Mt 5,12). Il sorriso sul volto di chi soffre e muore per Cristo non è una coloritura dei racconti agiografici, ma una luce reale e misteriosa che si irradia da quei cristiani nei quali “nessuna bufera, nessuna insidia profonda, nessun terrore della morte o della pena diminuisce l’energia dell’ amore” [23]. San Gregorio di Nissa sceglie come modello esemplare di questa testimonianza il santo martire Stefano, che “gioisce colpito da tutte le parti dalle pietre e avidamente accoglie nel suo corpo come una dolce rugiada ifiocchi di neve delle pietre, l’uno dopo l’altro, e ricambia con benedizioni gli uccisori” [24].
Sant’Agostino mostra che l’esultanza dei martiri non nasce da un sovrumano stoico coraggio. Essi non godono “perché subiscono tormenti”, ma perché “sono felici nella speranza” [25]. I martiri, mostrando agli uomini che “l’odio è morte” e “l’amore è vita”, partecipano al mistero pasquale di Cristo, che li accompagna nel passaggio dalla morte alla vita [26].
I santi, entrando nella vita immortale, annunziano ai viventi la “ineffabile eterna dolcezza” della visione di Dio: “allora osiamo dire che noi potremo con la nostra intelligenza toccare qualcosa dell’unità della Trinità, nella quale vi sarà la pace perfetta” [27]. Sant’Agostino arde dal desiderio di conoscere quale sarà la felicità futura: “Lassù si canterà Alleluia, lassù si canterà Amen all’unisono con gli angeli, lassù ci sarà la visione perenne e l’amore immortale” [28].
San Leone Magno svela che i credenti possono pregustare la beatitudine della vita celeste se sono “affamati e assetati di giustizia” nella vita terrestre: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati. Siano le opere di carità le nostre squisite pietanze, riempiamoci di quei cibi che ci nutrono per la vita eterna. La nostra gioia sia nel ristoro dei poveri, saziati a nostre spese. La nostra soddisfazione più piena sia nel vestire gli ignudi che avremo coperto con i necessari indumenti. Facciamo sentire il nostro spirito umanitario ai malati costretti a letto, agli infermi nella loro debolezza, agli esuli nel loro travaglio, agli orfani nel loro stato di abbandono, alle vedove desolate e meste. Non c’è nessuno che non possa, nell’aiutare questa gente, dimostrare almeno in parte la sua benevolenza, perché nessuno ha un patrimonio piccolo se ha un cuore grande” [29].
“Il Signore – conclude San Leone Magno – andò in un luogo solitario di un vicino monte. Lassù chiamò a sé gli apostoli, per istruirli dall’ alto di quella misteriosa cattedra con dottrine più elevate… Colui che aveva parlato a Mosè, parlò anche agli apostoli… Non era circondato, come allora, da dense nubi, né da tuoni e bagliori terribili, che tenevano lontano dal monte il popolo. Ora si intratteneva con i presenti in un dialogo tranquillo e affabile. Egli fece questo perché la soavità della grazia rimuovesse la severità della legge e perché lo spirito di adozione eliminasse il terrore della schiavitù. il significato dell’insegnamento di Cristo lo manifestano le sue parole. Coloro che desiderano pervenire alla beatitudine eterna riconosceranno dai detti del Maestro quali siano i gradini da percorrere per salire alla suprema felicità” [30].

Pietro Meloni

NOTE

1 Gregorio di Nissa, Le Beatitudini I e Agostino, Sul Salmo 118, 1, l.
2 Agostino, Sul Salmo 118, 1, l.
3 Agostino, La Vita Beata 2, 11 e Il Sermone del Signore sul monte I 1, 1. 
4 Apocalisse di Pietro 1-3 (fr. Akhmim), in M. ERBETTA, Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, III. Lettere e Apocalissi, Torino 1969, p. 216.
5 J. DUPONT, Le Beatitudini, I, trad. ital., Roma 1972, p. 1113.
6 M. J. LAGRANGE, Évangile selon saint Luc, Paris 1921, p. 80.
7 Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni 13, 5.
8 Origene, Omelie sul Vangelo di Luca 38. 
9 Si vedano i miei studi: «Beati gli affamati e assetati di giustizia». L’ìnterpretazione patristica, in «Sandalion» 2 (1979), pp. 143-219 e «Beati i perseguitati per la giustizia». L’interpretazione patristica, in «Sandalion» 3 (1980), pp. 192-250.
10 Gv 6,35.
11 Testamento dei Dodici Patriarchi. Testamento di Levi III 13,5.
12 Origene, Commento al Vangelo di Matteo 5,6, Cat. 83. 
13 J. DUPONT, Le Beatitudini, I, p. 1112.
14 Cicerone, De natura deorum I 2.
15 Gregorio di Nissa, Le Beatitudini IV 1236.
16 Ibidem IV 1236.
17 Ibidem I 1193-1196.
18 Gregorio di Nissa, Le Beatitudini L.
19 Agostino, Lettera a Proba 130,4,9 e 13,24.
20 Cesario di Arles, Sermone 25, 1: CCL 103, 112.
21 Origene, Omelie sui Numeri X 2.
22 Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca 5, 59.
23 Ambrogio, Giacobbe I, 27.
24 Gregorio di Nissa, Le Beatitudini VIII, 1296 B.
25 Agostino, Sul Salmo 118, s. 1, 3.
26 Agostino, Sul Salmo 85, 54, 7.
27 Agostino, Sul Salmo 85,24 e Lettera 171 A,2.
28 Agostino, Sul Salmo 85, 11. 
29 Leone Magno, Sermone 40, 4.
30 Leone Magno, Sermone 95, 1-2.

(Fonte: Vol. 32-33 (2009-2010 pubbl. 2011), p. 173-180)