giovedì 22 aprile 2021

Avvenire: Anteprima. Radcliffe: oggi la fede è tornare a immaginare

 Perché il cristianesimo torni a far ardere il cuore va presentato non come un codice morale ma come uno stile di vita; avventura radicale, non «spiritualità gentile». Il nuovo libro del domenicano


«Il cristianesimo in Occidente – dice Timothy Radcliffe – potrà rifiorire solo se riusciremo a coinvolgere l’immaginazione dei nostri contemporanei. Credo che l’ateismo rappresenti non tanto una sfida per la nostra intelligenza, quanto piuttosto per la nostra immaginazione». Ed è tutto un invito ai cristiani del nostro tempo a riaccendere la fiamma della speranza e a ravvivare la fede un po’ spenta e addomesticata (come si è visto in questo tempo di pandemia) quello che emerge dall’ultimo, impressionante saggio del domenicano inglese, noto teologo e biblista che dal 1992 al 2001 è stato maestro dell’ordine, dal titolo Accendere l’immaginazione (Emi, pagine 496, euro 31, in libreria da oggi). Per il cardinale Newman «l’immaginazione, non la ragione, è il grande nemico della fede». Il famoso teologo vissuto nell’800 non voleva certo dire che l’immaginazione dei cristiani deve volare rasoterra, ma guardava al modo con cui i suoi contemporanei immaginavano il mondo: senza trascendenza.


Radcliffe raccoglie la sfida e, in un tempo dominato dalla «globalizzazione della superficialità» e dal «nientealtrocheismo », vale a dire dalla tendenza alla semplificazione, sostiene che l’immaginazione «può essere la porta attraverso cui sfuggiamo ai limiti di ogni modalità riduzionista di vedere la realtà». Viaggiando molto in aereo per tenere conferenze in tutto il globo, almeno negli anni precedenti al coronavirus (l’edizione inglese del volume è del 2019), il domenicano ha avuto modo di leggere moltissimo e guardare numerosissimi film. Ciò che mostra di preferire sono di gran lunga i romanzi e le serie tv: da Philip Roth a Cormac McCarthy sino a Friends o Killing Eve, a dimostrazione di una curiosità intellettuale formidabile. Tutto ciò che gli passa sottomano viene filtrato attraverso gli occhi della fede, alla maniera di San Paolo: «Vagliate tutto e trattenete il valore». Nelle prime pagine c’è già una citazione luminosa di Emma Donoghue e del suo romanzo Room. Stanza, letto, armadio, specchio, in Italia tradotto da Mondadori nel 2016: una madre viene sequestrata e rinchiusa in un capanno dove partorisce e cresce il figlio Jack. L’unico contatto col mondo esterno sono un lucernario e un televisore. Un po’ come accade nel mito della caverna di Platone o nel film Truman Show. Ma finalmente un bel giorno Jack riesce a fuggire e scopre la bellezza e l’immensità dell’universo.


«È un’immagine che mi ha colpito – commenta Radcliffe quale meravigliosa metafora della liberazione della nostra immaginazione dalle restrizioni della mentalità univoca. Dal bianco e nero si passa al colore». Ciò che mette a rischio l’immaginazione religiosa infatti non è tanto l’ateismo, quanto un modo piatto di vedere il mondo. È lo stesso concetto espresso magistralmente da Flannery O’Connor a proposito di quella che Radcliffe chiama «l’immaginazione dogmatica». Per la scrittrice americana «un dogma è una via d’accesso alla contemplazione e uno strumento di libertà, non di costrizione; salvaguarda il mistero a tutto vantaggio della mente umana». Il volume del teologo infatti è sorprendente anche perché rafforza l’idea del cristianesimo come controcultura rispetto alla mentalità comune, sopraffatta dal «paradigma tecnocratico», come l’ha chiamato papa Francesco. La ricerca della verità non blocca affatto l’avventura della mente umana e il fatto di sostenere una visione del mondo, come fanno le religioni, non impedisce certo il libero dibattito e lo sviluppo del pensiero.


Qui Radcliffe critica Steve Jobs che nel noto discorso a Stanford invitò i giovani neolaureati che lo ascoltavano a «non lasciarsi intrappolare dai dogmi». E ricorda una frase emblematica di Chesterton: «Vi sono solo due tipi di persone: quelle che accettano i dogmi e lo sanno, e quelle che accettano i dogmi e non lo sanno». Come dire che non solo chi crede ha certezze e convinzioni radicate. Nell’impresa di attirare l’immaginazione dei contemporanei, il cristianesimo, come accennato, può trovare alleata la letteratura e soprattutto la poesia.


Da Graham Greene a Seamus Heaney, da Czeslaw Milosz a Marylinne Robinson, il volume è una continua carrellata di richiami e suggestioni, per far capire che «la vita non si riduce a elettricità cerebrale e pulsazione sanguigna; è dinamica e orientata a un fine». Ma anche la scienza si rivela un’amica della fede. Anche se non nega che le posizioni di alcuni scienziati come Hawking dicono il contrario, Radcliffe conclude che «non è la scienza a compromettere la visione religiosa delle cose». Giungendo poi a chiedersi, sulla scia di Teilhard de Chardin e degli studi più recenti della teologa cattolica americana Elizabeth Johnson, se la scienza non potrebbe aiutare l’immaginazione cristiana ad aprirsi nuovamente a una prospettiva di lunga durata.


E dinanzi alla «generazione fiocco di neve », quella dei giovani che chiedono di essere protetti da ogni pericolo e difficoltà, va ribadito che il cristianesimo è un’avventura rischiosa. Non è un caso che i libri più amati del XX secolo siano racconti di avventure di ispirazione cristiana, Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, secondo lo stesso Tolkien intrisi di cattolicesimo. Ma anche nei racconti di Narnia di C.S. Lewis e nelle storie di Harry Potter l’ispirazione religiosa è evidente. Ciò significa, secondo Radcliffe, che «se quell’avventura che è il cristianesimo potesse essere raccontata come merita, intercetterebbe la sete di trascendenza ». Come accade anche nel romanzo La strada di McCarthy, che evoca «splendidamente l’immagine della vita come un’avventura dalla quale l’ombra di Dio non è mai assente».


Ma perché il cristianesimo torni a far ardere il cuore delle persone, come accadde ai missionari che in età moderna evangelizzarono Africa, Asia e America Latina, occorre che sia presentato non come un codice morale ma come uno stile di vita. Troppo spesso anche negli ultimi decenni è prevalsa la tendenza a descrivere il cristianesimo come qualcosa di piacevole e sicuro, come una «allettante spiritualità gentile». Dimenticando la radicalità del Vangelo e, appunto, il rischio dell’avventura. Si tratta anche, infine, di sgombrare il campo dai pregiudizi su ciò che i cristiani credono. Questa è la vera urgente sfida di una nuova immaginazione cristiana. La sapranno cogliere non solo scrittori e teologi, ma anche i singoli fedeli?

mercoledì 7 aprile 2021

Pablo d’Ors "Resurrezione. La fede ci spinge a correre"

VP PLus è il quindicinale online della rivista Vita e Pensiero.



1. Scrive l’evangelista Giovanni: "Entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette". Ma cos’è che vide per credere? A cosa dovremmo credere noi per essere realmente uomini e donne di fede?

La straordinarietà della vicenda è che quell’uomo non vide niente di speciale, nessun fuoco d’artificio. Solo dei teli posati là, e il sudario con cui avevano avvolto il cadavere del suo maestro. Tutto qui? Dei teli e un sudario? Solo per aver visto questo nasce la corrente spirituale che attraversa due millenni e che chiamiamo cristianesimo? Solamente approfondendo la vicenda comprenderemo non solo l’origine della fede cristiana, ma la possibilità di rinnovarla ogni giorno, in modo che sia attuale. Quindi, è molto quel che mettiamo in gioco con queste parole.


2. Prima di tutto, come quasi sempre nel Vangelo, c’è una collocazione temporale: "il primo giorno della settimana", è così che comincia il capitolo 20 di Giovanni. Quel che avviene, avviene dunque di domenica. E cosa significa questo? Ebbene, che qualcosa sarà per noi significativo se permettiamo che sia un nuovo inizio, se ci spinge a cominciare. Questo è decisivo. La vita non può né deve ripetersi, deve ricrearsi. La vita è sempre nuova, ed essere svegli equivale a rendersi conto di questa permanente novità.

Gli sviluppi, certo, direte; non tutto sta nel cominciare, le cose devono anche continuare. Ma gli sviluppi sono più che dei rinnovi dell’inizio, sono inizi rinnovati. Cosa sto iniziando io ora, in questo momento? Questa è una buona domanda, per esempio. Quali sono le mie principali esperienze iniziatiche? Un’altra domanda. A cosa permetto di cominciare dentro me? Perché ogni mattina comincia un nuovo giorno, sì: ma comincio anch’io con esso? Mi siedo a meditare come se non avessi meditato mai? Mi preparo la colazione come se stessi scoprendo il miracolo del latte, del caffè, del burro, del pane? Cammino per la mia casa come se fossi un esploratore?

Senza la disposizione a cominciare in ogni istante non c’è nulla da fare, non c’è possibilità di una vita spirituale. E cominciare significa chiudere al passato e aprirsi all’inatteso, poiché è solo nell’inatteso che ci attende la vita.


3. Dopo quest’alba (e sta sempre albeggiando nell’anima degli illuminati), i protagonisti: Maria Maddalena da una parte, e Pietro e Giovanni dall’altra. La donna ha avuto l’esperienza e la condivide con gli uomini, ai quali competerà più avanti l’espressione: l’espressione letteraria (Giovanni) e quella comunitaria e istituzionale (Pietro). Parola e Corpo: Giovanni e Pietro.

Ma il silenzio, l’esperienza, spetta a Maria Maddalena. Esperienza ed espressione, donna e uomo, si necessitano e si completano mutuamente.


4. La notizia che porta la donna, la cui diffusione renderanno poi possibile gli uomini, non è portata tranquillamente, ma di corsa. È una notizia urgente, non può aspettare. E qual è – si può sapere – questa notizia? È che vive, che siamo vivi, che siamo nella vita, che la vita è e che noi partecipiamo di questo essere.

Sapere questo è ciò che di più urgente si possa e si debba sapere, per questo corre la Maddalena, non sia mai la gente muoia senza sapere di essere stata viva.

La fede nasce da una corsa e ci porta a correre. "L’amore del Cristo ci spinge", diceva l’apostolo Paolo. Il cuore di ogni innamorato esplode, lo sapete perfettamente tutti voi che qualche volta vi siete innamorati. Esplode la nostra fede, o l’abbiamo ammaestrata?


5. Corre la donna, corrono anche gli uomini. Si dirigono verso il luogo della morte, dato che è lì dove, secondo quanto gli è stato detto, è stata trovata la vita. Questo è fondamentale. Vuoi vivere? Recati nel luogo della morte. Vuoi amare? Preparati al dolore. Vuoi conoscere il resuscitato? Entra nel sepolcro, nel tuo sepolcro, quello in cui ti stai sotterrando da anni e dove ti sei semi-putrefatto. Lì, nella tua oscurità, è dove ti attende la vita. La luce è l’ombra illuminata. Il resuscitato è la morte vinta. Lo Spirito ti attende proprio nel luogo da cui fuggi, affinché tu sappia che Egli è più forte di ciò che tanto ti terrorizza.

Non possiamo essere esperti di Dio senza conoscere il cuore delle tenebre. Non è che dobbiamo cercarle, questo no. Vengono da sole, anche senza invito. Basta aprire gli occhi e guardare: l’oscurità è lì, è sempre lì, sibillina, in attesa, pronta a divorare la sua preda. Ma basta fermare lo sguardo per scoprire che il cuore dell’oscurità è la luce.


6. Ora sì: senza fiato per la corsa, i discepoli vedono il sudario e i teli. Vedono, la fede è un nuovo modo di vedere il mondo. Certo, il mondo era già lì, è sempre stato lì; ma chi ha fede è come se lo vedesse per la prima volta, dato che vede realmente quel che si trova lì, ciò che senza fede non avrebbe potuto vedere.

E cos’è quel che vede, cos’ha di speciale? Vede il sudario e i teli, cioè vede le impronte dell’amore. Perché quel sudario e quei teli sono la scia fisica che è rimasta dell’amore professato verso Gesù da alcune delle sue discepole. E ora i discepoli lo vedono. Non vedono l’assenza del maestro, bensì la presenza dell’amore. E in questo amore che vedono, perché lo vedono realmente in quei teli e in quel sudario, vedono anche il loro Maestro, che è la persona dell’amore.

Tu vedi l’amore? Lo vedi? L’amore in una telefonata, in un saluto del vicino, nel cellulare che squilla, nella caffettiera fumante… Vedi tu l’amore nel letto ben rifatto, nella tavola ben imbandita, nella pioggia che picchietta sulla finestra, nel tuo cane che scodinzola? In cosa vedi tu l’amore? Non ti rendi conto che la fede serve a vedere l’amore?


7. Solo allora, quando hanno visto, i discepoli hanno compreso la Scrittura: Egli sarebbe dovuto resuscitare dai morti. Solo quando vediamo comprendiamo ciò che ci hanno raccontato coloro che hanno visto. E ci emozioniamo nel comprendere che le parole sacre sono vive. Le parole sono vive se ci aiutano a resuscitare i morti che abbiamo dentro.

La Scrittura è un tesoro, ma dobbiamo purificare il nostro sguardo per poterlo leggere. In quali parole vedi tu l’amore, in quali gesti? Non ti rendi conto che la fede serve a essere amore?

(traduzione di Massimo Marini)



Pablo d'Ors

Pablo d’Ors (1963) nasce a Madrid da una famiglia di artisti e scrittori. Discepolo del monaco e teologo Elmar Salmann, è sacerdote cattolico dal 1991. Cercando il silenzio ha raggiunto a piedi in pellegrinaggio Santiago de Compostela, ha attraversato il deserto del Sahara, ha soggiornato sul monte Athos. Nel 2014 ha fondato l’associazione Amici del Deserto, con cui condivide l’avventura della meditazione. Nello stesso anno papa Francesco lo ha nominato consultore del Pontificio Consiglio della Cultura. 

sabato 27 febbraio 2021

L'Osservatore Romano: Maria Ignazia Angelini Osb, monaca di Viboldone, Colui che sa togliersi i sandali


24 Febbraio 2021

“Non abbiamo mai visto nulla di simile”, esclamavano con stupore i primi uditori di Gesù, delle sue parole traboccanti autorità “altra”, mai conosciuta. Chi ha la grazia di accompagnare cammini di fede, processi che conducono verso la libertà di aderire nella fede al Signore Gesù, conosce questo stupore, unico: sia pure da abissi di smarrimento o ribellione, l’esito è ogni volta nuovo, è grazia: una nascita. Dall’alto. Lo stupore della nascita, penso sia l’unico sentimento di fondo paragonabile a quello che vive chi accompagna un itinerario spirituale ove si manifesta, drammatica e bella, l’azione dello Spirito Santo in dialogo con la libertà umana.

Nascere di nuovo. Impossibile, dice Nicodemo l’uomo “maestro in Israele” (Gv 3, 10), l’uomo inizialmente nascosto nella notte. L’uomo vissuto. Srotolare con la forza del Soffio il codice della propria vita in modo che la scrittura leggera che vi è impressa si animi, riceva inchiostro dall’assenso libero alla volontà di Dio: impossibile. E per di più, quando uno è “vecchio”. Proprio il vissuto di questa “eccedenza” è la grazia di luce di ogni autentico accompagnamento del processo di scoperta del “segreto” (Mt 6, 6), del ritorno a se stesso (Lc 15, 17). Nuova nascita, dall’Alto.

La prima nascita dell’essere umano è (secondo il maestro spirituale della tradizione siro orientale, Filosseno di Mabbough) quella dal grembo materno, la seconda dalle acque del battesimo, la terza è “l’appropriazione del mistero” (Evangeli gaudium, 171): l’esperienza battesimale interiorizzata attraverso quel momento cruciale della libertà che aderisce in modo totale all’immersione nel mistero di Gesù: «Si tratta nella terza nascita di sperimentare, attraverso il travaglio della libertà, che lasciamo l’uomo vecchio, attraverso il dolore delle lacrime, attraverso la preghiera istante a Dio, attraverso l’ammirazione e la contemplazione della signoria di Dio sulla nostra vita; in un rapido correre dell’uomo nascosto nel cuore verso il Signore» (Filosseno, Om. IX , 266-67).

Gesù dice a Nicodemo, «maestro in Israele» e perciò dotto nelle cose di Dio, al cercatore notturno delle tracce del Vivente (Gv 3, 7): non si può essere credenti se non attraverso il “rinascere” dall’alto, di nuovo. È il battesimo, la seconda nascita, che dà pienezza alla Promessa racchiusa in ogni umano nascere. Ma il battesimo, da evento puntuale, si distende in un processo: nascere dall’alto, nascere al soffio dello Spirito implica un cammino della libertà. Al cui dinamismo la presenza di un “altro come me” (Antonio, Apoftegmi, 1) è indispensabile catalizzatore. Colui che assiste questo processo di nascita, ha il compito delicatissimo, auto implicativo fino al segno ultimo, del Testimone. Testimone sensibile dell’opera di Altri, lo Spirito del Signore.

Nella sua sapienza di Maestro unico, senza pari, Gesù stesso è entrato nel mondo preceduto e accompagnato da altri. Il suo legame con il precursore, in mite contestazione del magistero elitario farisaico, è l’archè tou euangelliou, secondo Marco, e anche nel quarto vangelo. E ha voluto che nessuno dei suoi discepoli fosse solo, nessuno senza altri ad assistere, con arte maieutica, al suo rinascere alla vita. Mai senza l’altro. Per vie impensate e varie, tutte, tutti nasciamo e rinasciamo, grazie a presenze ostetriche, maieutiche della nascita dall’alto. Zattere viventi — secondo la bella immagine di Gregorio di Nissa — , come quel cestino di giunchi (Es 2, 3) che, grembo arrischiato di nuova nascita, fu veicolo alla vita di Mosè salvata dalle acque.

«Il particolare tipo di generazione al quale noi ci riferiamo, non ha origine da cause esterne, come capita nella generazione corporale di una nuova creatura. Il suo frutto proviene invece da un atto libero della volontà. Noi siamo perciò in certo senso padri di noi stessi, potendoci generare quali ci vogliamo e darci in libertà il volto del desiderio (…)». Ebbene a propiziare la nascita di Mosè, funzione vitale ha «il cesto che è formato dall’intreccio di molti giunchi, che rappresenta l’opera educativa, costituita da varie discipline e capace di tenere a galla sopra le onde chiunque a essa si affida» (Gregorio di Nissa, Vita di Mosè).

Tristemente, ci dicono che tante violenze si consumano in ambito sanitario nella sala parto, approfittando del momento di massima vulnerabilità di una donna che genera e di massima e arrischiata impotenza del fragile nuovo nato. È pianto, che possa accadere attorno alla nascita simile mancanza di rispetto. Ogni nascita di figlio d’uomo è momento sorgivo, e al tempo stesso momento della massima vulnerabilità. Ebbene: quando l’accompagnamento perde la dimensione del rispetto sacro per una libertà in divenire, per una coscienza umana in formazione, mancando lo stupore sacro per l’insuperabile mistero, si può scadere in assurde costrizioni: «La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri — sacerdoti, religiosi e laici — a questa “arte dell’accompagnamento”, perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cfr. Es 3, 5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana» (Evangelii gaudium 169).

Una libertà in divenire è — nel segreto — l’evento che anima, sospinge e capovolge il mondo. La drammatica radicale di ogni umana esistenza. Ma nasce vita solo se è il Soffio di Dio a muovere la generazione.

Benedetto dice dell’arte spirituale come semplice opera di artigianato “economico”: parla di “guadagnare” le anime (Regula monasteriorum 58, 6; cfr. 1 Cor 9, 19). Che vuol dire? Sono un prezioso tesoro, le “anime”. Che magma informe all’inizio, essendo formate a immagine e somiglianza della divina Koinonia, lasciate a se stesse rischiano di smarrirsi. Occorre estrarre il diamante dal carbone.

«Benché suoni ovvio, l’accompagnamento spirituale deve condurre sempre più verso Dio, in cui possiamo raggiungere la vera libertà. Alcuni si credono liberi quando camminano in disparte dal Signore, senza accorgersi che rimangono esistenzialmente orfani, senza un riparo, senza una dimora dove fare sempre ritorno. Cessano di essere pellegrini e si trasformano in erranti, che ruotano sempre intorno a sé stessi senza arrivare da nessuna parte. L’accompagnamento sarebbe controproducente se diventasse una specie di terapia che rafforzi questa chiusura delle persone nella loro immanenza e cessi di essere un pellegrinaggio con Cristo verso il Padre» (Evangelii gaudium 170).

«Più che mai abbiamo bisogno di uomini e donne che, a partire dalla loro esperienza di accompagnamento, conoscano il modo di procedere, dove spiccano la prudenza, la capacità di comprensione, l’arte di aspettare, la docilità allo Spirito, (…). Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più che sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale. L’ascolto ci aiuta ad individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla tranquilla condizione di spettatori. Solo a partire da questo ascolto rispettoso e capace di compatire si possono trovare le vie per un’autentica crescita, (…). Da qui la necessità di «una pedagogia che introduca le persone, passo dopo passo, alla piena appropriazione del mistero» ( EG 171).

Ma l’arte di accompagnare, oggi, è come privata nel suo orizzonte di senso, in un “tempo deprivato” (Friedrich Hölderlin), cioè in un mondo in cui pare non esserci posto per Dio. E neppure per padri. In un’epoca ove l’autoreferenzialità è scambiata per libertà, quale posto per chi accompagni il processo della nuova nascita?

Un nuovo modello di uomo deve forgiarsi da questa crisi e questa necessità interpella la Chiesa, che ne siamo più o meno consapevoli.

Proviamo a sintetizzarne, in modo schematico, i tratti della crisi: un’esistenza schiacciata sul presente, auto referenziale e priva di narrazioni; nomade e in cerca di un altrove spirituale indefinito; incondizionatamente fiduciosa nel potere della tecnica; sedotta dal liquido potere della comunicazione mediatica. E tuttavia è proprio nella nudità del deserto dell’Assenza che possono essere rintracciate con più lucidità le radici. Ma occorre vegliare.

Grande attenzione al mistero del nascere, richiede l’arte dell’accompagnamento. L’arte maieutica non è una tecnica. Diffida anzi radicalmente da ogni tecnica. La tecnica uccide l’arte spirituale ammantandola di paludamenti vani, siano essi psicologici, sociologici, religiosi o che altro. Di conseguenza, le figure di accompagnamento, oggi, sono molteplici, settoriali, “tecniche”.

Splende invece la semplicità alternativa della figura di guida spirituale cristiana. La sua forma è comunque, pur nel variare delle concrete attuazioni, segnata dalla capacità di ascolto dischiusa dalla fede, dalla testimonianza non virtuale dell’esperienza, dalla radicale umiltà del testimone: “lui deve crescere, io diminuire” (Gv 3, 30). Ascolto generativo: che attraverso domande trae fuori dal travaglio della ricerca il nascosto di Dio — la chiamata —; e il nascosto dell’umano: la libertà che, timorosa e attratta, nasce alla scelta. All’alleanza.

Innumerevoli testimonianze nella storia della spiritualità cristiana ci sono trasmesse in tal senso. Ritengo siano particolarmente illuminanti le figure degli antichi padri del deserto egiziano: suggestivamente tali testimonianze parlano in modo paradossale, parabolico della figura del “padre”. In tal modo rivelano che l’arte della guida spirituale non è tecnica, ma paradosso: accompagnare togliendosi. In tal senso san Gerolamo spiegava che “abusive” e quasi “indulgentia”si chiamano “padri” coloro che accompagnano la nascita alla libertà spirituale (in Mt 23, 8): ove si indica il senso paradossale, per sé improprio, del titolo di “abba”, allusivo al mistero affidato alla potenza dello Spirito di Dio.

Si guida, in radice, mediante il silenzio, soglia benedetta dell’ascolto: solo imparando il silenzio partecipe, antenna percettiva del parlare di Dio, si matura verace accompagnamento: «Il padre Teofilo arcivescovo si recò un giorno al monastero. I fratelli riunitisi dissero al padre Pambone: “Di’ al Papa una parola di edificazione". L’anziano rispose: “Se il Papa non è edificato dal mio silenzio non potrà esserlo dalle mie parole”» (Teofilo 2).

Mediante la testimonianza della vita, è guidata la maturazione di un autentico stile spirituale: «Un fratello chiese a padre Poemen: Dei fratelli vivono con me. Vuoi che dia loro ordini? No, gli dice l’anziano. Fa’ il tuo lavoro tu, prima di tutto; e se vogliono vivere, penseranno loro a se stessi: “Ma sono proprio loro, padre, a volere che io dia loro ordini. Dice a lui l’anziano: No. Diventa per loro esempio vivente, non uno che dà leggi».

E mediante la preghiera: «Una volta Abramo, il discepolo di padre Sisoes, fu tentato dal demonio. L’anziano vide che era caduto, e levatosi in piedi tese le mani al cielo dicendo: “O Dio, sia che tu voglia, sia che tu non voglia, non ti lascerò se non lo guarirai...”. E all’istante fu guarito» (Sisoes 12).

Oggi più che mai l’ora della povertà, soprattutto in ambito educativo, richiede padri e madri temprati all’arte spirituale dalla meraviglia generativa, dalla forza performativa dell’umile amore: «Un anziano ha detto: I padri sono entrati nella vita per il loro rigore. Noi, se possiamo entrare, è per la mitezza» (Coll. Alfabetico-Anonima, 1665).


di Maria Ignazia Angelini

Osb, monaca di Viboldone 

L'Osservatore Romano: Pier Giorgio Gawronski, Le chiese vuote e l’Umanesimo integrale

22 febbraio 2021


La secolarizzazione in Europa sembra non conoscere soste. Nei Paesi del Nord la pratica religiosa è da tempo su livelli bassi (Scandinavia, Regno Unito, Olanda: minore del 10 per cento), e ciononostante continua lentamente a calare (Germania, Francia); non resiste neppure la tradizionale tendenza femminile alla religiosità.

La novità è che ora crolla anche il numero di coloro (non praticanti) che si definiscono “cristiani”. Le stesse tendenze, da livelli più alti, si registrano in Irlanda e nei Paesi mediterranei.

In Italia i “praticanti” sono scesi in dieci anni dal 33% al 27%; tra i giovani (18-29 anni) i praticanti sono solo il 14%, e continuano a calare di quasi il 3% l’anno. E i dati ufficiali sulla religiosità sono persino sovrastimati.

Nel cosiddetto Sud del mondo due tendenze demografiche frenano la secolarizzazione. In America latina (Messico), Africa (Sud Africa), Asia (Filippine), i dati disponibili non rilevano cali della religiosità. Succede così che la migrazione da quei Paesi attutisca il processo di secolarizzazione dei Paesi di destinazione. Inoltre, i migranti che arrivano in Italia (il 52% dei quali non è musulmano, ma cristiano) praticano più dei nativi; e gli italiani “praticanti” sono più prolifici degli atei. Ma questi fenomeni non sono sufficienti a invertire il trend: le chiese continuano a svuotarsi.

Nei Paesi nordici si chiudono i luoghi di culto, si accorpano le parrocchie, si sperimentano nuovi tipi di “comunità parrocchiali” nei luoghi di lavoro; le Confessioni protestanti minori si fondono fra loro o confluiscono in quelle maggiori; ciò non cambia le tendenze di lungo termine. Le Chiese devono dunque interrogarsi più profondamente sulle cause del loro declino.

L’analisi sociologica sembra mostrare che la secolarizzazione colpisce di più: i Paesi protestanti e ortodossi, che non quelli cattolici; e i Paesi più “avanzati” in base al reddito, mentre incerto è il ruolo dell’istruzione. Ma le correlazioni statistiche non spiegano cosa c’è dietro.

Nel corso degli anni c’è chi ha posto l’accento soprattutto sulla identità (cattolica), sbiadita e inquinata dal benessere e dal liberalismo. Semplificando: la tesi era che una linea di fermezza e rigore dottrinale avrebbe potuto restituire credibilità e appeal alla Chiesa cattolica.

Successivamente l’accento si è spostato e oggi sembra prevalere la visione opposta: se non si ascoltano “i segni dei tempi”, non si è capiti dalle “nuove generazioni”. Così, oltre ad “attualizzare il messaggio”, le Chiese cercano di “modernizzare la comunicazione”. Come si può pensare di intercettare i giovani quando questi comunicano sulle piattaforme digitali, se il messaggio religioso viaggia in modo tradizionale? Ma gli strumenti digitali non possono creare un interesse se questo non c’è. Altre questioni sul tappeto sono il “maschilismo” di alcune Chiese, la morale sessuale, il celibato dei preti, il rapporto con il potere economico e politico. Ma nessuna sembra spiegare davvero la questione. E statisticamente non ottengono risultati soddisfacenti né le Chiese più “moderne”, né quelle più “conservatrici”.

Nasce dunque spontanea la domanda: l’uomo moderno ha ancora bisogno di Dio e della religione? Dai dati riportati sembrerebbe di no.

L’invito di Gesù è sempre lo stesso: «Chi vuol venire dietro di me prenda la sua croce e mi segua» (Lc 9, 23). A ben vedere però, i giovani europei sono solo sopraffatti da mille cose — una fra tutte è l’abuso di audiovisivi —, in famiglie dove figure genitoriali deboli stentano a trasmettere concretamente i valori che hanno conosciuto e sperimentato: tra questi, l’esperienza religiosa. Spesso sono abbandonati alla noia, alla pigrizia, alle scorciatoie e al vuoto. Ma gli operatori giovanili riportano che i giovani hanno fame di infinito, di bellezza, e di Dio; si interrogano su chi sono, da dove vengono, dove vanno, che senso hanno l’impegno, il dolore, l’amore, chi li ama, e chi no. Quando emergono queste domande latenti, diventano più interessati alle relazioni con gli adulti, con il diverso, con il Mistero. Difatti, grande successo hanno i raduni internazionali delle Giornate mondiali della gioventù; e nelle Chiese sono ancora vitali molti gruppi giovanili, laddove si intrecciano relazioni concrete.

Quali dunque i possibili rimedi contro la secolarizzazione? La “fotografia” della prima Chiesa di Gerusalemme che emerge dalla lettura degli Atti degli Apostoli, può essere d’aiuto (2, 42-47). Schematizzando, la prima comunità cristiana perseverava in 4 cose: la trasmissione del messaggio di Cristo; l’unione fraterna, stare, mangiare insieme; condividere i beni materiali «secondo il bisogno di ciascuno»; l’Eucaristia, frequentare insieme il tempio.

La pratica religiosa delle Chiese moderne è incentrata sulla liturgia domenicale, che privilegia fortemente il primo punto. Ma già quando si passa al secondo si nota una profonda divaricazione: nella pratica religiosa moderna manca la relazione umana. I membri della prima Chiesa cristiana socializzavano, erano amici, o stavano dentro a un meccanismo che favoriva l’amicizia a priori. Si può immaginare uno che dice all’altro: “mio figlio è malato, sono preoccupato”, il confronto fra persone diverse per età, classe sociale, cultura e provenienza, «come in una famiglia accogliente in cui ciascuno può essere sé stesso, con i suoi dubbi e le sue domande, senza timore di essere giudicato» (Frère Alois, Taizé). Infatti all’epoca le confessioni — o lo status di penitente — erano pubbliche.

Riflettiamo un momento sul concetto di “amicizia a priori”. Per fare degli amici non basta assemblare gente come in un villaggio turistico: si diventa “amici” quando si condivide un’esperienza umana realmente — non solo potenzialmente — importante. Sia i cristiani del I secolo che quelli del XXI hanno in comune (“condividono” passivamente) la fede in Cristo. Ma i primi cristiani condividevano (attivamente) oltre alla dottrina anche l’esperienza quotidiana dell’incarnazione nella loro vita, della Salvezza che viene dallo Spirito. E questa era un’esperienza umana mai scontata: la città terrena «non è una società di genti installate in dimore definitive, ma di genti in cammino» (Maritain). La vita cristiana e la fede nel primo secolo, era anch’essa non lineare: fatta di dubbi, contraddizioni, timori, incertezze, fallimenti, oltreché di gioia e, speranza. La complessità di ogni cammino di fede individuale era condivisa, grazie a una disponibilità reciproca “a priori”. Perciò anche un forestiero appena arrivato poteva essere immediatamente inserito in questo processo di condivisione, da cui nascevano: il consiglio (la “correzione fraterna”), l’incoraggiamento, e la testimonianza reciproca sulla presenza dello Spirito Santo: nutrimenti essenziali di ogni cammino di fede.

Nelle odierne messe domenicali invece partecipano per la maggior parte sconosciuti che resteranno sempre tali. All’uscita dalla messa salutiamo talvolta i nostri conoscenti ed amici che abitano nel quartiere, è vero; ma lo facciamo spesso con un filo di imbarazzo, quasi scusandoci di confessare la fede, e ci affrettiamo a parlare d’altro: «Come stanno i figli, come va il lavoro, quando partite per le vacanze...». Questo perché tali amicizie, nate fuori dalla chiesa, anche quando coinvolgono i credenti, non si basano sulla fede comune, ma su altre situazioni comuni a credenti e non credenti: l’amore per le passeggiate in montagna, un interesse professionale ecc. Le condivisioni fondative dell’amicizia si realizzano oggi per la maggior parte in occasioni sociali dove — per un giusto rispetto del pluralismo ideologico — non è politically correct parlare della presenza viva di Gesù nella propria vita.

Anche la condivisione dei beni (terzo punto) oggigiorno appare improponibile, salvo che in forme tiepide e minimaliste. Innanzitutto per mancanza di informazioni: come determinare “il bisogno di ciascuno”, se non si conoscono gli altri? La risposta al “bisogno” sfugge alle regole semplici: come “l’uguaglianza” dei redditi, delle ricchezze, o dei consumi. Forse che un uomo privo di gambe non ha bisogno di supplementi di reddito — per pagarsi delle protesi o un taxi — per potersi recare al lavoro come tutti gli altri (A. Sen)? In secondo luogo, le relazioni umane e spirituali fra i primi cristiani rendevano più naturale la risposta al bisogno anche materiale dell’altro: la condivisione non era un obbligo ma un atto d’amore. E come dice san Paolo, puoi fare qualsiasi cosa, ma se non lo fai per amore non vale niente (e spesso fai bene a non farla). Al contrario, la carità oggi è diventata anch’essa una transazione anonima poco attraente.

Quanto al quarto punto, del “pregare insieme”, si ha spesso la sensazione che i fedeli domenicali preghino da soli; che pur partecipando insieme alla Messa, pur recitando le stesse preghiere nello stesso momento, si sentano fondamentalmente soli. Anche l’Eucaristia, pur chiamandosi “comunione”, è purtroppo spesso vissuta come un accesso individuale alla grazia, con la presenza più o meno casuale di altri che, simultaneamente ma per conto proprio, ricevono il medesimo sacramento.

I giovani, assetati di autentica comunione, sono sempre meno interessati a questo modo di stare insieme. E la secolarizzazione è la spia di una grave sofferenza anche dei fedeli che perseverano nella fede. Com’è possibile che la religione dell’Umanesimo integrale abbia disumanizzato le sue pratiche? Senza relazioni umane profonde, la comunità religiosa non è tale, e perde di senso. I cristiani hanno bisogno di condividere la fede e la preghiera: altrimenti la fede si inaridisce. Certo, la condivisione può avvenire e in parte avviene ancora in famiglia. Ma nell’Europa contemporanea anche le famiglie hanno smesso da tempo di essere un luogo privilegiato dove condividere la quotidianità della fede: le coppie sono spesso miste; e comunque una condivisione “a due” sarebbe limitata.

Perché allora la religiosità organizzata intorno alla funzione domenicale è stata vitale fino a 50 anni fa? Forse, il mondo era fatto di tanti “piccoli villaggi”, nei quali le comunità locali già erano costituite prima di entrare in chiesa, dove “si sapeva tutto di tutti”. A Roma, per esempio, in quartieri come Trastevere e Garbatella, molte case avevano all’ingresso due scalini; e ancora negli anni Cinquanta, fra il tardo pomeriggio e l’inizio della sera, gli abitanti uscivano per sedersi a conversare; la strada era un luogo pubblico. L’assenza di opportunità favoriva la socializzazione. La funzione religiosa domenicale era perciò il culmine di una vita in comune; e l’assemblea dei fedeli a buon diritto poteva dirsi “comunità”.

La rottura delle relazioni sociali locali determinata dall’interconnessione globale, dalla pervasività del mercato (e delle automobili), dall’elevata produttività del fattore umano, in Occidente può aver snaturato la liturgia domenicale, trasformandola suo malgrado in un rito anonimo di fedeli anonimi. In un mondo che cambia, la staticità della pratica religiosa ne determina la crisi.

Stando così le cose, la migliore risposta alla secolarizzazione non è né inseguire né respingere la modernità, bensì di reagire all’individualismo, all’atomizzazione, all’evanescenza delle relazioni nelle Chiese. La vita non può essere tenuta al margine della Chiesa, solo commentata, giudicata, o perdonata dal clero. I cristiani hanno bisogno di esplorare, riflettere, e parlare fra loro del loro essere cristiani.


di Pier Giorgio Gawronski

giovedì 28 gennaio 2021

L'Osservatore Romano: Dietrich Bonhoeffer, Il cristiano serve il suo tempo

L’omelia inedita tenuta il 23 settembre 1928 dal teologo protestante davanti ai genitori 


Con i piedi per terra

Essere «progressisti» o «conservativi»? Secondo Dietrich Bonhoeffer, il «bravo teologo protestante» secondo la definizione di Papa Francesco, l’alternativa non è corretta. O meglio, la si deve superare in nome del «qui e ora» che il cristianesimo chiede a ogni credente: «Vuoi Dio? Allora rimani nel mondo», perché «solo nel tempo trovi Dio e l’eternità». Questi passaggi sono tratti dall’omelia inedita (pubblicata per gentile concessione dell’editore) risalente al periodo che Bonhoeffer trascorse a Barcellona. Datata 23 settembre 1928, si tratta di un’omelia del giovane reverendo pronunciata davanti ai genitori. Un testo che impreziosisce una bella e densa antologia di scritti di Bonhoeffer, da poco in libreria per Edizioni Paoline con la cura del teologo pisano Elvis Ragusa. Con i piedi per terra. Un cristiano di fronte a Dio e alla storia  (Milano 2020, pagine 340, euro 36) è una raccolta ragionata di testi, omelie e conferenze di Bonhoeffer tutte incentrate sul confronto vis à vis  con il tempo che l’autore aveva davanti. Un tempo tragico, un periodo drammatico della storia mondiale: la conclusione della prima guerra mondiale (in cui il teologo protestante perse un fratello e tre cugini), la stagione politica alquanto turbolenta della Germania di Weimar, l’ascesa del nazionalsocialismo e il progressivo trionfo totalitario di Adolf Hitler. Nei mesi scorsi, nell’arco di soli quattro giorni, Papa Francesco ha citato in due occasioni Bonhoeffer. Il 12 settembre, nell’udienza alle Comunità Laudato si’, ha affermato: «Prendo una frase del teologo martire Dietrich Bonhoeffer: la nostra sfida, oggi, non è “come ce la caviamo”, come noi usciamo da questa realtà; la nostra sfida vera è “come potrà essere la vita della prossima generazione”: dobbiamo pensare a questo!». E qualche giorno dopo, il 16 settembre, durante l’udienza generale, ha ripreso l’autore di Sequela  (citato a sua volta anche da Benedetto xvi ): «Lo diceva un bravo teologo protestante tedesco, Bonhoeffer, il problema è quale sarà l’eredità, la vita della generazione futura. Pensiamo ai figli, ai nipoti, cosa lasceremo se sfruttiamo il creato». Ragusa, nella dotta introduzione che fa dialogare gli eventi della storia mondiale con il procedere dell’argomentazione teologica di Bonhoeffer, precisa di non voler trasformare il teologo di Resistenza e resa  in un indovino o in un profeta divinatorio. Ma fa venire i brividi leggere quanto Bonhoeffer ebbe modo di pronunciare il 13 gennaio 1933, esattamente il giorno dopo del giuramento di Hitler come cancelliere. Parlando dell’Etica politica  di Friedrich Gogarten, dice: Gogarten «trascura l’ambiguità dello Stato. Egli giustifica lo Stato sempre come qualcosa che c’è già. In questo modo ad esso è attribuito un diritto assoluto. (...) È possibile che esso corrisponda alla dottrina luterana, ma non è neotestamentario. Infatti, lo Stato può assumere anche la forma del maligno. Può essere e fare il più gran male possibile. Naturalmente anche una tale maligna potenza può essere messa al servizio di Dio». Così quasi preannuncia l’eresia di una chiesa filo-nazista alla quale egli si oppose, dando vita alla «Chiesa confessante», in prima linea nel difendere gli ebrei perseguitati dal nuovo corso politico di Berlino. L’antologia curata da Ragusa fa affiorare anche un dettaglio biografico curioso di Bonhoffer: la sua passione per l’India. Nell’ottobre 1931, dopo un periodo trascorso negli Stati Uniti, scrisse ad un amico: «Viste da Oltreoceano sia la nostra situazione sia la nostra teologia appaiono fenomeni alquanto provinciali e nemmeno si sospetta che in tutto il mondo proprio la Germania, e lì in particolare, solo un paio di teologi, abbia capito cosa sia il Vangelo. (...) Vorrei conoscere un altro grande Paese per vedere se da questo verrà la grande soluzione: l’India». Mentre pochi anni dopo (l’11 settembre 1934) annota di essere tormentato «dalla decisione se rientrare in Germania per dirigere un seminario di predicazione cui si deve vita, se rimanere qui [Londra] o andare in India». Restano, comunque, queste pagine un’ottima occasione per avvicinare di nuovo il pensiero di un gigante della teologia novecentesca, capace di forgiare espressioni diventate patrimonio comune della teologia di oggi: la «grazia a caro prezzo», il «Dio tappa buchi». Ma anche un’immagine di Chiesa stupenda e coraggiosa, laddove Bonhoeffer spiega che la comunità dei credenti, di fronte alle ingiustizie del mondo, dovrebbe «gettarsi lei stessa tra i raggi della ruota» per bloccare il meccanismo di sopraffazione e di violazione del debole che spesso sembra regnare nella storia del mondo.

di Lorenzo Fazzini



Per vivere una vita cristiana

Moderno o antico — questa domanda è oggi più che mai in primo piano a tutti gli interessi, non solo nelle questioni di moda o di salute, ma in tutte le aree degli interessi umani, nella scienza, nella letteratura, nella religione. E su questa parola gli spiriti divergono: alcuni gridano assolutamente per ciò che è moderno, altri, che sono coscientemente fuori moda, guardano indietro ai bei vecchi tempi in forma mascherata. Alla domanda: «Vuoi essere una persona moderna?», alcuni rispondono: «Sì», sicuri di loro e altri invece: «No», anch’essi sicuri di loro. Come fa colui che si definisce cristiano? Come si confronta con i cambiamenti dei tempi? Il cristiano deve pensare in modo conservativo o progressista, deve essere antico o moderno? La domanda fondamentale di ogni cristiano è evidentemente la domanda di fronte all’eternità. Come raggiungo l’eternità in mezzo al tempo? Qui, nel continuo cambiamento del divenire e del trascorrere, non c’è nulla di eterno, che rimane, probabilmente c’è — una via — fuori dal tempo, indifferenti a tutto ciò che accade qui, vivere solo nell’eternità.


Si tratta di fuggire il tempo tiranno. D’altra parte, la nostra parola ci chiama: volete trovare l’eternità, allora adesso servite il tempo. Questa parola deve risuonarci come un’enorme contraddizione: Vuoi cose eterne? Allora rimani nel transitorio. Vuoi cose eterne? Allora rimani nel temporaneo. «Vuoi Dio? Allora rimani nel mondo». Sembravamo già in grado di alzarci fuori dal mondo su una scala di virtù verso il cielo. La sponda del mondo era già scomparsa in lontananza e ci siamo spinti lì, in spazi eterni, ancora metà umani, già metà dio — poi la Parola ci ha scagliati indietro dal nostro volo, siamo caduti dall’alto e ci ritroviamo nel mondo. Se vuoi essere eterno, allora servi il tempo, così suona nelle nostre orecchie. Servite il tempo — perché? Perché solo nel tempo trovi Dio e l’eternità. È la volontà nascosta di Dio che si lascia trovare nel tempo; noi troviamo la volontà di Dio solo in Gesù Cristo. Nulla di ciò che esiste nel tempo è divino, nemmeno la Chiesa né la nostra religione. Tutto ciò è soggetto alla fugacità, eppure in tutta la transitorietà del singolo, dell’individuo, è contenuta una parte della volontà di Dio, un pezzo di eternità. Il tempo è come un pozzo profondo e inesauribile, attraverso le cui acque brilla l’oro del fondo mai raggiunto; è come la roccia di montagna attraverso la quale non si vedono le vene d’oro nelle profondità. Tutto l’imperfetto è però almeno immagine del perfetto, tutto il transitorio è un simbolo dell’eterno. «Ogni attimo è diretto a Dio», ha detto un grande storico; vale a dire che ogni attimo nasconde un pezzo di eternità, che è da trovare; Dio governa sopra ogni attimo. L’attimo, il presente, è la parola decisiva a cui punta il nostro testo. Servi il tempo, cioè ogni tempo, cioè il presente. In altre parole, il presente è santo, è sotto l’occhio di Dio, è consacrato, è illuminato di luce eterna. Il presente è l’ora della responsabilità di Dio con noi, ogni presente; oggi e domani, il presente in tutta la sua realtà e diversità; c’è solo un’ora davvero significativa in tutta la storia del mondo: il presente. Chi fugge dal presente fugge dall’ora di Dio; chi fugge dal tempo fugge da Dio. Servite il tempo! Il Signore del tempo è Dio, la svolta del tempo è Cristo, il vero spirito del tempo è lo Spirito Santo. Così in ogni attimo si nasconde questa triplice dimensione: che io riconosca Dio come il Signore della mia vita, che mi sottoponga a Cristo come punto di svolta della mia vita, dal giudizio alla grazia, che [io] provi a fare spazio e forza allo Spirito Santo in mezzo allo spirito del mondo. Servite il tempo; cioè servite Dio, il Signore, Cristo il riconciliatore, lo Spirito, il Santo del nostro mondo. Solo quando permettiamo al presente di adempiere al suo scopo, viviamo una vita cristiana, serviamo il tempo. Servire il tempo — e questo ci riporta alla prima domanda — non vuol dire farsi suo “schiavo”, non vuol dire approvare ciò che è moderno, solo perché è “moderno”. Il servizio include la forza della propria volontà e dei propri pensieri, e non la debolezza di coloro che corrono dietro, di coloro che urlano insieme agli altri; non significa: “servite la moda”, ma servite il tempo.


La moda è ciò che fanno le persone e quindi può essere tanto buona come spregevole. Il tempo è ciò che fa Dio e servire il tempo non significa servire le persone, ma servire Dio. Quindi il cristiano non è né moderno né antico, ma serve il suo tempo, cioè non gli importa delle persone, ma di Dio. Tuttavia così serve “il suo tempo”, cioè si mette in mezzo ad esso, nei suoi compiti e difficoltà, nella sua serietà e nella sua indigenza e serve; è un uomo contemporaneo nel senso più profondo; che si tratti di indigenze “politiche”, “economiche”, di decadenza “morale” e “religiosa” o di preoccupazione per la nostra gioventù adolescenziale — ovunque è chiamato a immergersi nell’indigenza del presente. Entrate con tutto l’amore e tutta la forza che è a vostra disposizione. L’acqua del pozzo del tempo è diventata torbida, in modo che non vediamo più l’oro del fondo eterno; facciamo in modo che il pozzo sia di nuovo puro e limpido, facciamo in modo di trovare un pezzo di eternità nel tempo, scaviamo così in profondità, fino a trovare le fonti eterne. L’amore, però, fa parte del servizio come la cosa più importante; cioè, ama il tuo tempo, in modo da poterlo servire.


Non mettiamoci fuori dagli eventi della modernità! Tutti noi abbiamo la responsabilità della colpa e della miseria di tutti noi, c’è di nuovo da imparare a capire «cos’è la solidarietà all’interno dell’umanità». Tenersi fuori e dire: oggi io non ho nulla a che fare con ciò che accade, è troppo riprovevole per me che mi intrometta in questo, significa «non servire ma giudicare». Sii fraterno: servi il tempo! Il senso più profondo, però, si rivela solo quando consideriamo che non solo il mondo ha il suo tempo e le sue ore, ma che la nostra stessa vita ha il suo tempo e la sua ora di Dio, e che dietro i tempi della nostra vita diventano visibili le tracce di Dio; che i pozzi profondi dell’eternità sono sotto i nostri sentieri e ogni passo riporta una debole eco dell’eternità. Significa solo comprendere la forma profonda e pura di questi tempi per presentarla nella nostra condotta di vita; solo così nel mezzo del nostro tempo incontreremo la santa presenza di Dio. Il mio tempo è nelle tue mani. La mia infanzia, la mia giovinezza, la mia adultità e la mia vecchiaia. Servi il tuo tempo, la presenza di Dio nella tua vita; Dio ha santificato il tuo tempo; ogni tempo, rettamente compreso, porta direttamente a Dio; e Dio vuole che siamo del tutto ciò che siamo. «Sii del tutto bambino», finché sei un bambino, nel gioco e nella gioia, nella ricettività e nella gratitudine, nell’abbandono alla volontà di coloro che ami; «sii del tutto un ragazzo», nell’indipendenza e nella sicurezza, nel coraggio e nel dispetto, che è idoneo al ragazzo; nella forza, ma anche nella sottomissione a colui che adori come tua guida, e per quanto realizzi lo scopo di quel tempo tuo che Dio ti dà, sei radicato nelle profondità dell’eternità.


Porta tutte le gioie e le sofferenze del tuo tempo, riempi l’essenza di ciò che la gioventù è nella sua necessità e nella sua libertà, così è posto su di te il compiacimento di Dio, così sei giunto dal tempo all’eternità. Siate uomini e donne, siatelo del tutto entrambi, nella vostra entità creata da Dio. Siate persone con la propria volontà, con le proprie passioni e le proprie preoccupazioni, la propria felicità e la propria miseria, la propria serietà e la propria incoscienza, il proprio giubilo e il proprio lamento. Dio vuole vedere le persone, non i fantasmi che rifuggano dalla terra; Dio ha amato la terra e ci ha fatti dalla terra, ha reso la terra nostra madre, lui, che è nostro Padre. Non siamo creati come angeli, ma come figli della terra con la colpa e la passione, con la forza e le debolezze, ma siamo figli della terra amata da Dio, amati da Dio, specialmente nella nostra debolezza, nelle nostre passioni, nella nostra colpa; Dio ci ama specialmente nella nostra attitudine ribelle sulla terra — nel tempo, nel nostro tempo; Dio ci vuole nel rimanere nella nostra Madre Terra e ciò che ha donato, nella solidarietà con gli umani, anche dove sono deboli, in fratellanza con il nostro piccolo, debole tempo, e illumina i nostri cuori con un poco d’eternità che infrange ogni tempo. C’è un’antica leggenda greca che racconta del gigante Anteo che era così forte che nessuno poteva batterlo. Molti avevano tentato la lotta e si erano rivelati inferiori, fino a quando arrivò uno che, durante la lotta, tirò su il gigante da terra e improvvisamente ebbe successo su di lui; era finita per lui la sua forza, che scorreva in lui solamente per il fatto che stava con i piedi saldi a terra.

Questa leggenda del gigante Anteo è estremamente profonda. Solo colui che sta con entrambi i piedi sulla terra, che è e rimane del tutto figlio della terra, che non fa tentativi disperati di volare verso altezze che sono irraggiungibili per lui, che si accontenta di ciò che ha e vi resta fedele con gratitudine, questi ha tutta la forza dell’umanità, questi serve il tempo e quindi l’eternità. Poi, però, ci accadrà che nel tempo, per la sua transitorietà, volgiamo sempre di nuovo gli occhi verso il tempo che verrà alla fine dei tempi. Servite il tempo, l’ora che Dio vuole avere con il vostro popolo, con voi stessi; siate uomini del santo presente, che non torna mai più, come quel samaritano compassionevole era l’uomo del presente, in modo da diventare uomini dell’eternità. Il Signore del tempo è Dio. La svolta dei tempi è Cristo. Il vero spirito del tempo è lo Spirito Santo.

di Dietrich Bonhoeffer

venerdì 15 gennaio 2021

L'Osservatore Romano: Reinhard Marx. Via, verso nuove sponde!

«Fratelli tutti» - Per una lettura dell’enciclica di Papa Francesco




 «Se l’era moderna, così assorta a sviluppare e a progettare l’uguaglianza e la libertà, vuole affrontare bene le sfide che ci aspettano, da ora in avanti deve aggiungervi la fratellanza, con altrettanto slancio e tenacia. La fratellanza darà alla libertà e all’uguaglianza il loro giusto posto nella sinfonia» (p. 11). Pongo questa citazione, tratta dal libro Ritorniamo a sognare (14) di Papa Francesco, che ha risvegliato grande attenzione in tutto il mondo, all’inizio della mia riflessione sull’enciclica Fratelli tutti, presentata a ottobre. Scelgo questo spunto di riflessione perché, tra l’altro, con la pubblicazione ravvicinata di un’enciclica e poi di un libro, Papa Francesco chiarisce la sua posizione in modo convincente anche attraverso il suo agire: egli si rivolge — come dice espressamente anche l’enciclica — a tutti gli uomini, al mondo intero. L’enciclica, e ancor più il libro, raccolgono le prime riflessioni e ulteriori pensieri di Papa Francesco dinanzi alla pandemia da coronavirus, che continua a tenere il mondo col fiato sospeso e che inciderà sulla nostra vita — personale, sociale e come comunità mondiale — anche “dopo-covid”.


In un certo senso, con il suo libro Ritorniamo a sognare Papa Francesco svolge una sorta di lavoro di traduzione dell’enciclica. Sembra quasi che voglia assicurarsi che tutti comprendano veramente che desidera superare dei confini anche nel suo pontificato, invitandoci ad agire come lui nei nostri rispettivi ambiti di responsabilità. Questo tema di base è suggerito già dal primo titolo interno di Fratelli tutti, che è «Senza frontiere» (Fratelli tutti, n. 3).


Come con l’enciclica Laudato si’ Papa Francesco si inserisce chiaramente nella tradizione della dottrina sociale cattolica e si ricollega a san Francesco d’Assisi, soprattutto al suo invito a un amore «che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio» (Fratelli tutti, n. 1). In tal senso, un segnale particolarmente forte di Fratelli tutti è sicuramente il suo riallacciarsi all’incontro con il Grande imam Ahmad Al-Tayyeb ad Abu Dhabi nel 2019 e al Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Con questo riferimento, Papa Francesco sottolinea nuovamente che le religioni non devono servire a dividere e a rafforzare le ideologie, ma essere tutte al servizio dell’unica famiglia umana, e respinge in modo chiaro ogni tentativo fondamentalista di strumentalizzare la religione per i propri fini.


Senz’altro Fratelli tutti può essere letta come somma di quello che è stato finora il pontificato di Papa Francesco, come somma di ciò che egli vuole scrivere nell’album del mondo e anche della Chiesa stessa. Riallacciandosi all’enciclica Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI , che a sua volta si ricollega fortemente alla Populorum progressio di Paolo VI , Papa Francesco esorta la Chiesa a essere all’altezza del suo ruolo pubblico e a mettersi «a servizio della promozione dell’uomo e della fraternità universale» (Caritas in veritate, n. 11). Anche Fratelli tutti si inserisce nella lunga tradizione dell’annuncio sociale della Chiesa e porta avanti in modo coerente l’idea dello sviluppo integrale della persona.


Dalle prime voci critiche su Fratelli tutti, si è appreso che la fratellanza sociale non è una categoria classica della dottrina sociale, e che il concetto della solidarietà e della giustizia sociale è sufficiente per quanto viene qui definito, che non ha bisogno di altre nozioni. La solidarietà, come spiega anche il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, è un principio sociale ordinatore e una virtù morale che «assurge al rango di virtù sociale fondamentale poiché si colloca nella dimensione della giustizia, virtù [...] per eccellenza” (n. 193). Come già Caritas in veritate, anche Fratelli tutti rafforza il principio etico sociale della solidarietà che, appunto, non si esaurisce nel fatto di essere una categoria giuridicamente esigibile e, se necessario, socialmente garantita, bensì fondamentalmente formula ed esige benevolenza nei confronti di tutti. La fratellanza sociale riprende una categoria fondamentale filosofica della benevolenza, l’amicizia, così come descritta per esempio anche da Aristotele nell’Etica Nicomachea, come gentilezza con la quale per principio andiamo incontro agli altri con un atteggiamento di amabilità, accettazione e riguardo. In effetti, senza questa amicizia non può esserci una vera comprensione dell’altro, che è una delle basi della buona convivenza tra le persone.


Di fatto, Papa Francesco scrive nell’album del nostro tempo una cosa che ha una valenza universale e atemporale, sulla quale per principio tutte le persone di buona volontà dovrebbero essere d’accordo: «Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”» (Fratelli tutti, n. 198). Sono molto grato che Papa Francesco con la sua enciclica metta ancora una volta in primo piano questo atteggiamento in apparenza tanto ovvio per trattare con gli altri, ovvero la disponibilità al dialogo, offrendo in tal modo, proprio in un tempo in cui i populismi, i nazionalismi e le ideologie si stanno rafforzando, un orientamento che, appunto, non evidenzia ciò che divide, bensì cerca sempre ciò che unisce, che è in comune. Per questo atteggiamento è però sempre necessario il libero consenso ad accettare e rispettare la diversità di tutte le persone. Secondo me è questo il “buon senso” necessario per superare, o nel migliore dei casi evitare, la divisione all’interno degli Stati e delle società, ma anche a livello mondiale. Di fatto, vedo lo stesso pericolo che vede Papa Francesco in Ritorniamo a sognare: «L’assenza di un dialogo sincero nella nostra cultura pubblica rende sempre più difficile generare un orizzonte condiviso verso il quale inoltrarci tutti insieme» (p. 87).


L’orizzonte condiviso indica la direzione piena di speranza per poter allestire la “casa comune del creato” in modo favorevole e per il bene di tutti gli uomini, a partire da una visione positiva della persona, da un’antropologia radicata nella fede nel Dio Creatore (cfr. Laudato si’, n. 13). Sulla falsariga della Laudato si’, nella sua nuova enciclica Papa Francesco esorta a un cambio di mentalità che deve condurre a una nuova idea di progresso dell’umanità dinanzi alle crisi esistenziali in tutto il mondo. In Ritorniamo a sognare parla addirittura delle «pandemie occulte di questo mondo» (p. 10), come la fame, la violenza e il cambiamento climatico che, nel loro alto potenziale di crisi, dobbiamo superare in modo fraterno e sostenibile come unica famiglia dell’umanità.


La “casa comune del creato” non può quindi essere definita nella modalità della divisione, bensì a partire dall’orientamento al bene comune, che non è inteso solo in modo formale e materiale. Le origini del principio del bene comune risalgono all’antichità greca e continuano a essere molto efficaci anche nella dottrina sociale della Chiesa. Papa Francesco riprende tale principio già nella Laudato si’, correlando a esso i principi sociali di personalità, solidarietà e sussidiarietà, ricomponendo per così dire il caleidoscopio della dottrina sociale della Chiesa a partire dalla Rerum novarum del 1891. La Laudato si’ definisce, come il concilio Vaticano II , il bene comune come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» (Gaudium et spes, n. 26).


L’esigenza di fratellanza e di dialogo in Fratelli tutti è però rivolta anche alla Chiesa stessa, che come comunità di persone non è immune dalle tentazioni dell’egoismo e dell’individualismo, dell’abuso di potere, dell’ideologizzazione e del fondamentalismo. La Chiesa non è immune da tutto questo né dalle relazioni intra-ecclesiali né nel suo rapporto con il mondo. Anche nella Chiesa serve il dialogo!


La tentazione della dissoluzione dell’Io, del Sé, è nota anche nella tradizione biblica, come emerge in modo straordinario in Fratelli tutti nella catechesi sulla parabola del buon samaritano. Di quanti passano a distanza dalla persona ferita, Papa Francesco dice: «erano persone religiose [...]: indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace» (Fratelli tutti, n. 74).


Anche le esperienze di abuso e violenza nell’ambito della Chiesa hanno mostrato dolorosamente — soprattutto alle persone colpite — quanto possa essere pericoloso il potere quando coloro che esercitano un ufficio o una responsabilità non conservano la consapevolezza dei limiti del loro potere e se il potere non viene controllato, quando la dignità della persona viene ignorata e lesa. Abbiamo imparato, e dobbiamo continuare a insistere su questo, che serve un nuovo modo di pensare che non sia orientato agli interessi di autoconservazione di alcuni, ma al bene di tutto il popolo di Dio. Per questo occorre la forza per il dialogo.


Un fondamento essenziale di tale atteggiamento rinnovato, che ha radici bibliche, è l’idea della Chiesa sinodale, l’antico principio della sinodalità che Papa Francesco riprende anche nel suo libro Ritorniamo a sognare: «Ho voluto ravvivare questo antico processo non solo per il bene della Chiesa, ma come servizio a un’umanità che è così spesso bloccata da discordie paralizzanti» (p. 93). Tuttavia, per essere credibile in questo servizio all’umanità, e quindi per preparare la strada alla buona novella di Dio, la Chiesa deve, in modo analogo, orientarsi a ciò anche nei suoi rapporti intra-ecclesiali. C’è ancora tanto da fare in questo campo.


Con Fratelli tutti e Ritorniamo a sognare Papa Francesco ancora una volta vuole approfondire e allargare l’orizzonte dell’annuncio e dell’azione della Chiesa: è uno sguardo più acuto per le periferie dell’umanità, dell’essere mondo e dell’essere Chiesa. E forse è anche motivato dal desiderio di condurre i necessari dibattiti all’interno della Chiesa in modo tale da non offuscare lo sguardo su ciò che è importante e significativo per la persona e l’umanità in generale. Alla base c’è la domanda centrale del perché esiste la Chiesa. E la risposta di Papa Francesco è altrettanto centrale e chiara: la Chiesa non esiste per se stessa, ma perché tutti gli uomini abbiano la speranza che emana dall’amore di Dio stesso! Partendo dal centro della fede, ovvero l’Incarnazione, la Croce e la Risurrezione, la Chiesa è strumento dell’unità di tutti gli uomini. È questo che dobbiamo farci scrivere molto chiaramente nell’album da Papa Francesco con Fratelli tutti.


di Reinhard Marx

Cardinale arcivescovo di München und Freising, in Germania

sabato 2 gennaio 2021

L'Osservatore Romano, Un’occasione preziosa per tornare a dire «io», Sergio Massironi

 La luce in fondo al tunnel sorge anche dall’assumere ciascuno il proprio compito



Qualcosa di profondo negli ultimi mesi è cambiato. Andiamo incontro al nuovo anno più consapevoli di quanto ci leghi un comune destino. Investiti da tragedie planetarie, sono molti a riconoscere, o almeno a invocare, la fine dell’autoreferenzialità e l’inizio di un tempo del “noi”. Conviene non gioirne troppo presto: perché si tratti di fraternità, l’essere insieme domanda una silenziosa rivoluzione nell’io. È a questo livello che il cristianesimo non può abbandonare il campo, in una partita che si gioca nel cuore dell’Occidente e che investe il soggetto. Si tratta di non abdicare e piuttosto di andare al fondo della modernità, delle sue istanze più radicali. Avendone rilevati i limiti, non ne va disinnescata l’originalità. Esiste infatti un noi, un prevalere del collettivo, capace di azzerare non solo la libertà, ma anche la giustizia. «Fratelli tutti» è un’espressione di cui va colto il carattere escatologico e paradossale, se vogliamo che il suo contenuto divenga progressivamente realtà. Solo una conversione può infatti modificare il nostro sentire.


Ci sono dei segnali da cogliere in tempo. Sono numeri, dati. «L’anno della paura nera» come il Censis ha definito il 2020, porterà con sé conseguenze gravi e di lungo periodo: di esse impressiona quella che il 54° Rapporto antepone a tutte le altre, «la propensione a rinunciare volontariamente alla solitamente apprezzatissima sovranità personale: il 57,8 per cento degli italiani è disposto a rinunciare alle libertà personali in nome e a tutela della salute collettiva, lasciando al governo le decisioni su quando e come uscire di casa, su cosa è autorizzato e su cosa non lo è, sulle persone che si possono incontrare, sulle limitazioni della mobilità personale; il 38,5 per cento è pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, introducendo limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati e associazioni. La paura pervasiva dell’ignoto, osserva ancora il Censis, porta alla dicotomia ultimativa «meglio sudditi che morti». E porta a vite non sovrane, «volontariamente sottomesse al buon Levitano». Si tratta di un’analisi drammatica.


Nella popolazione tra i 18 e i 34 anni le due percentuali salgono rispettivamente al 64,7 e 44,6 per cento. L’Istituto di ricerca evidenzia il nesso tra questo tracollo dell’io e la crescita di un livore collettivo, descritto come una logica “o salute o forca”: richiesta di pene severissime per chi non rispetti le misure di contenimento o abbia mal gestito l’emergenza, del carcere per chi violi la quarantena, di negazione delle cure per gli anziani e per chi non si sia adeguatamente protetto; boom di simpatie per la reintroduzione della pena di morte. «C’è un rimosso in cui pulsano risentimenti antichi e recentissimi di diversa origine, intensità, cause»: così si presenta il collettivo cui urge guardare, per chiederci chi siamo e chi saremo. In che senso e in che modo dire “noi”?


Siamo a un tornante cruciale non solo dello Stato di diritto, ma della stessa missione ecclesiale: l’uno e l’altra sorgono dalla fine della paura, da un soggetto sorpreso dalla coscienza della propria dignità. Luce invece di tenebre. Mai come in quest’ora, esposti a un futuro spogliato di qualsiasi promessa, occorre riconoscere nei Lumi, cioè nella speranza, un punto di non ritorno. E parlare a un io divenuto troppo fragile, stimando coscienza e libertà come il Santo dei Santi, più di quanto non si sia fatto sin qui. L’individualismo — facile bersaglio — è solo una defigurazione: indebolimento, tradimento di quel compito che ciascuno è per sé stesso. Non conviene invocare un’epoca del noi, prima di aver colto che il fondamento della fraternità è una coscienza filiale, libera, singolare, grata, sovrana. Certamente l’Illuminismo ne ha colto l’importanza in modo parziale e astratto. E tuttavia non c’è vangelo se non a rivelare che Dio è lì dove ciascuno può esser presente a sé stesso. La maturità dei singoli fa tremare le istituzioni, mette in forse il potere, rompe la ripetizione, genera forme nuove di legame: può tuttavia sorgere diversamente una vita insieme realmente umana e inclusiva, che abbia il sapore della fraternità? Già nel 2013, la filosofa Roberta De Monticelli rilevava: «La nostra questione diventa quella dei nessi fra rinnovamento civile di una società e rinnovamento morale di ciascuno, fra la speranza civile e la speranza che ci tiene in vita come persone, o che ci manca, invece, e ci fa mancare di vita. Abbiamo bisogno di sentire che le nostre vite, e soprattutto quelle dei nostri figli, valgano la pena che costano, cioè abbiano senso».


Dopo il 2020, va presa di petto la rassegnazione che ci incupisce e percepito il rilievo collettivo della speranza. La consistenza dell’io, la sua resilienza, la lucidità della coscienza appaiono ormai questioni di valore politico, la cui sacralità non giustifica più una marginalizzazione del soggettivo nel campo delle opinioni. Prospettive forti di prima persona sono indispensabili a vincere il grigiore in cui il mondo si appiattisce e appare privo di valore: tutto annoia o disgusta, «sono tutti uguali», in-differenti. La comunione dei santi, nella fede cristiana, è la forma di un collettivo in cui il noi ha scongiurato quella banalità che — il secolo passato ce lo insegna — non genera altra banalità, ma il male più cieco. Il segreto della comunione dei santi sta nell’intreccio tra l’unicità compiuta di ciascuno, l’irripetibilità di ogni momento, il carattere escatologico del suo realizzarsi. È veramente un altro mondo che già agisce sul nostro, uno squarcio che dissolve la ciclicità del tempo, quanto ogni ingenua idea di progresso. Esposti all’incertezza — dopo un anno in cui non si è parlato che di malattia, di pericolo, di morti — la speranza collettiva sorge là dove dai numeri si passi ai volti e sia confessata l’insostituibilità di ciascuno. Il suo opposto, la disperazione, può assumere persino la forma liturgica con cui la distribuzione delle prime dosi di vaccino è stata celebrata nei giorni scorsi sui media: tonalità estranee a ogni ragionevole idea di scienza e di cura. Ci prende spesso, davanti allo schermo, la sensazione di un vuoto, quasi mancassero le cose di cui parlare, la capacità di vederle, di apprezzarle, di interrogarsi. Tutto allora diviene enfatico, ripetuto, gridato. Non c’è complessità, non c’è chiamata in causa, nulla da interpretare. La luce in fondo al tunnel è fatta sì di ricerca, di successi medici e talvolta persino politici, ma sorge essenzialmente dall’assunzione ciascuno del proprio compito. Questo deve dirci la morte: che la vita è nostra, è adesso, è chiamata. Occorre esserci, non abdicare, avvertire — mentre si è nel guado — di dovere a tutti la propria parola, la propria presenza. Il contrario è assistere dal proprio divano all’ineluttabile, invocando il Levitano, quel noi impersonale che solleva dal risponder di sé. La morte — se non rimossa — espone a un’esperienza inaggirabile di solitudine e introduce un ordine di valori e criteri di giudizio che costituiscono il più dinamico appello. La gravità di quell’ora — da guardare negli occhi — risveglia e motiva, non paralizza come il non senso, l’impotenza, lo star male. Chi farà circolare questa buona notizia, da tutti comprensibile? «Il tempo del sentire è tempo di crescita» ha scritto ancora De Monticelli. Ma ogni crescita è lenta. Una persona cresce in quanto cresce la sua consapevolezza. Il sentire non è legato all’azione né allo scopo, ma per questo chiede sosta, riempie il tempo vissuto e tipicamente acquieta, ci fa silenti. In questo sostare, in questa quiete, senza che ci sia volontaria introspezione, cresce anche il senso di sé, di ciò che più conta, di ciò che ci definisce. Cresce o entra in crisi, che è un altro modo in cui si matura. Per questo Agostino scrisse quella frase tanto nota e tanto fraintesa: In te ipsum rede – in interiore homine habitat veritas. Da chi è erede di una simile tradizione e testimone della sua fecondità, può venire nel nuovo anno un contributo essenziale, che superi i confini confessionali e investa la qualità della vita, approfondendo la nozione di salute, cioè di salvezza. Nulla è infatti disumano e impersonale come il balletto dei numeri, la conta dei morti, la statistica dei contagi che il 2020 ci ha tentato di considerare normalità. Fraterno è un mondo in cui io esista e — quando non sarò più — non sia anonimamente passato.


30/12/2020

di Sergio Massironi