giovedì 21 maggio 2020

SettimanaNews: Covid-19: le risposte della teologia

20 maggio 2020
di: Lluís Oviedo Torró

Scrivo questo articolo dopo due settimane di isolamento obbligato e nel mezzo di una delle peggiori crisi sanitarie, sociali ed economiche vissute dal nostro mondo negli ultimi decenni o almeno nelle società occidentali benestanti, in cui non abbiamo sofferto esperienze così negative forse dal difficile periodo delle guerre della metà del secolo XX.

Questa situazione invita a una riflessione e ad una analisi, anche se alcuni dicono che riguarda il dopo e che ora ci sono delle cose più urgenti. Tuttavia, riflettere “a caldo” può essere un esercizio utile e necessario in tempi difficili.

Qual è il compito della teologia
In questo momento si pone la domanda non retorica sul contributo che la teologia può apportare, se può offrire qualcosa, se questo esercizio riflessivo basato sulla fede non sia più un lusso, qualcosa di superfluo davanti a compiti più urgenti. Almeno, la fede cristiana e le sue pratiche possono risultare utili e necessarie per molti, per coloro che invocano il nome di Dio e di Maria e cercano aiuto e speranza.

Una prima risposta si intuisce dalla percezione dell’idoneità della fede in questo contesto: se la fede cristiana, e in generale le fedi religiose, hanno un significato e un ruolo importante in questi tempi difficili, allora anche la teologia continua ad essere necessaria e importante per orientare e incoraggiare gli sforzi di tutti nel fronteggiare la crisi che stiamo vivendo.

Questa è una delle situazioni che pongono un test alla fede e alla teologia, vale a dire che presentano delle condizioni davanti alle quali le Chiese e la riflessione cristiana devono rispondere in maniera efficace, altrimenti perderanno molta credibilità. Se la fede non è all’altezza delle circostanze per trasmettere speranza, conforto e incoraggiamenti in questi momenti speciali, allora rimane delegittimata. Qualcosa del genere avviene con la teologia: se non è in grado di fornire un’analisi e un discorso che possa interpretare e dare significato a questi “segni dei tempi”, allora diventa una riflessione sterile e inutile.

La crisi di prestigio della teologia viene alquanto da lontano: è stata favorita sia dalla critica e dalla svalutazione da parte dei discorsi scientifici e accademici più riconosciuti e intellettualmente brillanti, sia dalla sfiducia in ampi circoli cattolici che non capivano questo sforzo intellettuale. In parte fu colpa degli stessi teologi e della loro incapacità ad affrontare i problemi più seri che la fede viveva, offrendo diagnosi corrette e risposte o proposte per superare le situazioni più critiche.

La teologia in generale è rimasta chiusa in se stessa ed è diventata un esercizio autoreferenziale, con poco contatto con la realtà concreta e con i problemi della gente, e più ancora con quelli dei credenti. Infatti, dove stava la teologia mentre si svuotavano le chiese e si perdeva completamente la fiducia nella Chiesa? Dov’era durante la grave crisi degli abusi sessuali che hanno scosso molti ambienti cattolici?

Non possiamo sbagliare adesso; non mi piacerebbe se si chiedesse dove stava la teologia e dov’erano i teologi durante la pandemia, quando tutta la gente era in isolamento, i cristiani non potevano celebrare i sacramenti e molti erano in preda allo smarrimento.

La teologia ha davanti a sé la sfida di diventare un discorso molto più attento ai segni dei tempi e al loro contesto per fornire delle analisi che aiutino a comprendere situazioni difficili come quelle che stiamo attraversando, e per orientare le coscienze di fronte alla grande incertezza che stiamo vivendo.

Ora più che mai è necessario “rendere ragione della nostra speranza”.

Queste pagine si propongono di descrivere l’impegno della teologia nei riguardi della società e della Chiesa per fornire una riflessione ispirata alla Rivelazione cristiana e alla lunga esperienza di studio accumulata lungo molti secoli. Questa non è la prima volta che la teologia deve fare i conti con una grande epidemia o pestilenza o altre calamità che periodicamente affliggono l’umanità e ci interpellano sul nostro destino e sull’agire di Dio in un mondo che non controlliamo.

A questo riguardo propongo quattro chiavi o modelli che hanno aiutato e possono continuare ad aiutare a dare un significato a questa crisi che attraversiamo e proporre un insieme di opzioni affinché i credenti possano scegliere quella, o quelle, che trovano più adeguate o che facilitino la loro ricerca di significato.

Io intendo il compito della teologia in questo momento come una riflessione che aiuta i nostri contemporanei a dare un senso a ciò che avviene a partire dal riferimento a un Dio che ci salva. Queste chiavi sono, per seguire un certo ordine: in primo luogo, quella apocalittica che anticipa una finale attraverso catastrofi; la seconda, l’invito alla conversione a partire da segni efficaci; la terza, quella pasquale o del sacrificio che dà vita al di là della morte; e la quarta, quella dell’incarnazione o dell’accompagnamento delle sofferenze e delle speranze umane. Presenterò in ciò che segue un’analisi non esaustiva di queste chiavi applicandole a questa situazione concreta.

La chiave apocalittica
Senza dubbio questa è la chiave più immediata e probabilmente la più utilizzata da molti secoli in occasione di altri episodi di peste o di grandi calamità. Difatti è la più giustificata nei testi del Nuovo Testamento ed è facile da applicare in momenti di grande difficoltà.

A grandi tratti, la mentalità apocalittica intende la storia come un processo di decadenza; anche se in apparenza si registrano dei progressi, in realtà le cose peggiorano, la società e la cultura si allontanano sempre più da Dio, aumentano il peccato e la corruzione, e la fede progressivamente si spegne; solo pochi resistono, tra l’incomprensione generale e persino nella persecuzione.

Tutto indica, quindi, in un ambiente apparentemente tranquillo e soddisfatto. una profonda distorsione delle menti e dei cuori degli abitanti di questo mondo, che si sono allontanati da una vita virtuosa vissuta nella fedeltà alla volontà divina. Davanti a questo panorama non resta altra scelta che confidare in un cambiamento radicale che tocchi i cuori di tutti.

Lo scenario apocalittico attira l’attenzione sulla catastrofe, la grande crisi che anticipa la fine dei tempi e una grande rigenerazione finale. Appaiono, è chiaro, i temi del castigo e della correzione divina, temi che riecheggiano episodi dell’Antico Testamento, e una mentalità giustizialista, nel senso che Dio presenta il conto per le colpe e i delitti già in questa vita, nella condizione storica, oppure attende i tempi finali per fare giustizia ai suoi eletti. Questa chiave è stata in effetti ripetutamente applicata nel corso della storia e in mezzo ai grandi mali che l’umanità ha sofferto, e particolarmente le comunità cristiane.

È fin troppo facile comprendere in chiave di castigo e di purificazione l’ambiente che abbiamo vissuto fino a poco fa nelle società occidentali: troppa frivolezza, troppa corruzione a molti livelli o in molti ambiti – compreso quello ecclesiale –, troppo allontanamento da Dio e dalla sua Chiesa. Non è strano pertanto che Dio si sia stancato di questa umanità, che la sua ira esploda e ci corregga con un’epidemia che obbliga a ripensare tutte le certezze che avevamo acquisito, a riconoscere tutti gli errori di questi anni e a tornare a Lui.

La psicologia cognitiva applicata allo studio della religione indica che certe reazioni o percezioni più immediate nel campo religioso seguono delle linee più dirette o “facili”: si tratta di comprendere Dio come “uno che agisce” dietro a tutto ciò che accade e non c’è una spiegazione più convincente, e la nostra relazione con Lui in termini di scambio, di premio o di castigo, come conseguenza del nostro comportamento. L’intuizione religiosa si sente più a suo agio applicando queste categorie ed è più facile interpretare ciò che avviene come castigo divino per i peccati della gente che non cercando altre spiegazioni più complicate e sottili, più teologicamente elaborate.

In tutti i modi, non è il caso di sottovalutare la prospettiva apocalittica, che è stata fonte di speranza e motivo di coraggio per molte generazioni di cristiani e che rivendica giustizia per le vittime e per gli innocenti in una storia piena di sofferenza e di ingiustizia.

Questa visione contribuisce a relativizzare il presente, la storia in tutto ciò che può essere ritenuto grande o prezioso: tutto viene ridotto – eccetto l’amore e la fedeltà – quando si anticipa la fine dei tempi, quando l’unico che conta è il Dio che si affaccia al termine della strada e ci incoraggia ad avvicinarci a lui.

Di conseguenza, non sarebbe consigliabile scartare questa grande visione con tutto ciò che comporta per incoraggiare i credenti e anche in connessione con la chiave successiva che intende tutto questo come un segno che richiede la conversione.

Lo scenario apocalittico invita ad anticipare un futuro finale di consumazione che, anche se non avviene immediatamente, contribuisce tuttavia a illuminare la vita dei cristiani nei momenti di forte prova e a fornire la risorsa più necessaria: la speranza per coloro che confidano in Dio.


Un segno che invita alla conversione
Anche questa è una chiave fortemente radicata nella Rivelazione biblica, in cui molti momenti di grande difficoltà sono percepiti non tanto come castighi ma come segni che invitano alla conversione, a un cambiamento radicale di prospettiva e a un comportamento diverso. Questa linea di lettura si trova spesso nei profeti dell’Antico Testamento, ma è anche una chiave presente nei Vangeli che, di fronte a varie difficoltà, invitano alla conversione e alla sequela di Cristo.

È piuttosto evidente che la tradizione cristiana ha inteso ripetutamente le grandi prove storiche che la Chiesa o la società hanno sofferto come inviti a rivedere comportamenti tranquillamente accettati e radicati, per volgere lo sguardo a Dio e cambiare idee e atteggiamenti fino a poco prima scontati.

La pandemia ci offre un’occasione unica per mettere in atto una riflessione urgente di fronte alla deriva dubbiosa che stava assumendo il mondo occidentale. Dal punto di vista della psicologia cognitiva, il tema è chiaro: quando le cose si mettono male, sorge spontaneo l’interrogativo: in che cosa abbiamo sbagliato? che abbiamo fatto di male per meritare questo?

Certamente una mentalità del genere può essere ritenuta ingenua o il frutto di una mente che ha bisogno di identificare i colpevoli o i protagonisti del male, anche davanti a processi naturali la cui colpevolezza non può essere attribuita in maniera immediata. Di qui l’abbondanza e la popolarità delle teorie cospirative.

La visione teologica deve essere molto più sottile e non cadere in uno schema cognitivo troppo rozzo o ingenuo. Non cerca i colpevoli e non è questa la natura del “segno di conversione” ma un’opportunità che può comportare una determinata crisi o un male storico per cambiare o migliorare, ciò che per noi implica tornare a Dio, accogliere la sua parola; in altri termini, qual è il vantaggio o il beneficio, la lezione che possiamo ricavare da qualcosa di tanto negativo.

Non mancano certo ragioni, quando si guarda in maniera critica la nostra cultura, per trovare processi o atteggiamenti che venivano accettati in maniera pacifica e che richiedono invece una conversione. C’è molto da scegliere, tuttavia uno sguardo teologico dovrebbe segnalare i motivi che destano le maggiori preoccupazioni.

Dal mio punto di vista, la cultura recente era entrata in una fase di fiducia esagerata nelle capacità umane, basata sui mezzi tecnici, come l’intelligenza artificiale per superare tutti i nostri limiti, risolvere tutti i problemi che si ponevano e perfino raggiungere l’immortalità. Ho letto in questi ultimi anni molti libri che descrivevano grandi aspettative fondate sulla capacità scientifico-tecnica di migliorare il mondo, di raggiungere la perfezione. I sogni dell’illuminismo diventavano alla fine realtà, e l’umanità era in grado di superare i suoi mali, perfino i suoi livelli di male morale, cosa che renderebbe molto più accessibile la piena felicità.

Queste vedute grandiose hanno avuto come conseguenza un’emarginazione sempre più accentuata della fede religiosa e del cristianesimo in particolare come religione di salvezza. Non avremmo cioè bisogno di una salvezza da parte di istanze soprannaturali se potessimo raggiungerla con i nostri stessi mezzi. Si stava impossessando di alcuni settori intellettuali quasi un sentimento di onnipotenza e un autore di grande successo ha persino osato parlare di Homo Deus (Yuval N. Harari, 2017).

Tutta questa illusione di grandezza, di divinizzazione assurda è svanita in pochi giorni, e ha lasciato il posto a un senso di grande fragilità, all’idea che la grande civiltà occidentale ha i piedi di argilla ed è molto vulnerabile davanti a qualsiasi frangente, ad un imprevisto, poiché non abbiamo in assoluto il controllo della situazione per quanto progrediscano la nostra scienza e le nostre tecnologie, certamente necessarie.

Mi viene in mente un altro fatto storico degli inizi del secolo scorso che si tradusse in una grande reazione teologica e in un forte cambiamento sociale e religioso. Mi riferisco alla ricezione della Grande Guerra (1914-1918) da parte di un gruppo di giovani teologi con a capo Karl Barth. Non è difficile rintracciare in quella reazione teologica temi che possono esserci familiari.

Il giovane Barth scrisse il suo famoso commento alla Lettera ai Romani proprio alla fine di quella guerra catastrofica (1919) che portò via milioni di giovani vite, come un atto di protesta contro la fiducia che ispiravano i progressi sociali, economici e scientifici della cosiddetta “cultura liberale” e la compiacenza che mostrava una parte della teologia accademica del suo tempo verso queste tendenze e verso una cultura fiduciosa nel progresso umano.

Quel caso ci indica probabilmente come la teologia colse in quella situazione così drammatica un’occasione per ripensare non solo un modello tecnologico, ma un’intera cultura troppo sicura di sé, che si allontanava anche da Dio. Ci voleva una correzione epocale, una rivendicazione della fede cristiana in termini radicali e dirompenti.

È certo che le grandi difficoltà e prove storiche hanno ravvivato la fede di tante persone e anche in questo tempo molti nostri contemporanei stanno volgendo lo sguardo a Dio, pregano più intensamente e cercano di incoraggiare tutti con la loro fede e speranza. In questa ottica non possiamo comprendere l’attuale crisi come un castigo di Dio, ma come un’opportunità per tornare a Lui, per cambiare la nostra vita attribuendo più spazio a ciò che veramente conta e lasciando da parte i falsi idoli che hanno potuto sedurre in questi tempi con le loro promesse di vita felice e persino di immortalità.

È troppo facile trovare risonanze bibliche in questa prova, ma è più adeguato – teologicamente parlando – cercare ragioni per superare ciò che sta accadendo, che permettano di correggere tendenze sbagliate e offrire motivi di speranza basati su Cristo e sulla sua grazia.

Un altro tema che si aggiunge a quello della conversione lo si deduce dalla situazione obbligata di isolamento che tutti viviamo. Questa esperienza ha dato luogo ad atteggiamenti di austerità, ad una visione di essenzialità che invita a dare importanza alle cose che più contano e a lasciar da parte ciò che è secondario. Forse è un’occasione importante per discernere tra i valori che danno più significato alla nostra vita e ciò che è accessorio: a valorizzare la vita di famiglia e l’amicizia, al di sopra di altre realtà che in questi giorni diventano accidentali e remote.

La chiave pasquale: morte e risurrezione
Il terzo motivo più rilevante nel tentativo di illuminare gli avvenimenti che viviamo in questi giorni è quello pasquale. Questa chiave, a differenza delle due precedenti, non è tanto intuitiva o, in altre parole, è – cognitivamente parlando – più “faticosa” o meno “facile” da percepire. La dinamica che inaugura la pasqua di Cristo è, come piace dire ad alcuni psicologi cognitivi, piuttosto “controintuitiva”: la morte è condizione della vita; l’abbassamento e l’umiliazione sono condizioni dell’esaltazione e della gloria; la sofferenza è la via che conduce alla felicità piena; la tristezza lo è a sua volta della gioia. Queste sono categorie pienamente cristiane, ed è difficile trovare parallelismi o similitudini in altre istanze culturali o religiose; ci troviamo davanti ad un punto genuino o specifico della fede cristiana che ora è messo alla prova.

L’applicazione del principio pasquale è molto familiare ai cristiani: il passaggio dalla morte in croce alla risurrezione di Cristo ci invita a pensare che anche i momenti più negativi dell’esistenza personale e collettiva possono dischiudere a una vita nuova, persino oltre la morte.

Questo principio può essere inteso in varie maniere. La chiave escatologica è la prima: in senso cristiano, la morte fisica apre ad una vita nuova che anticipa la risurrezione di Cristo, ma è riservata a tutti coloro che lo seguono. Naturalmente questa chiave risulta un po’ limitata, anche se è importante ricordarla davanti alle migliaia di vittime della pandemia. I cristiani hanno il diritto di rivendicare che ciò non è la fine definitiva e che queste morti aprono la porta ad una vita diversa, in un’altra dimensione.

Non sarebbe fuori luogo recuperare in questi tempi il tono fortemente escatologico del messaggio cristiano originale che annuncia la vita dove altri vedono solo morte e dove non ci sarebbe nulla da offrire a tutti coloro che ci lasciano all’improvviso e in una grande solitudine. Essi non sono solo numeri di una triste statistica che getta tutti nello sconforto; nella prospettiva pasquale, sono uomini e donne chiamati alla vita nuova in Cristo, alla vittoria sulla morte.

Un’altra chiave di lettura della pasqua di Cristo è più ampia e non si riduce alla dimensione escatologica: tutto ciò che possiamo vivere di negativo o di doloroso rimanda ad un orizzonte di trasformazione con la promessa di una vita migliore.

Certamente l’esperienza umana che più si avvicina alla dinamica pasquale è quella dell’amore che si dona e del sacrificio per il bene degli altri. L’idea che certe espressioni di amore richiedono la negazione di se stessi, o la donazione di sé al di là dei propri interessi per accedere a stati più esaltanti e pieni, non è nuova né estranea a coloro che scoprono l’amore al di là delle forme superficiali o solo erotiche.

Tuttavia, la dinamica pasquale racchiude in sé una promessa che va oltre le esperienze dell’amore di abnegazione o del sacrificio a favore di altre persone, o almeno dà loro un senso pieno. Infatti, la pasqua offre un orizzonte o una garanzia che permette di attraversare qualsiasi forma di negatività e di sofferenza con la speranza che si cambieranno in gioia e pienezza; oppure offre a coloro che in questi tempi difficili si sacrificano per gli altri una garanzia che il loro amore non sarà inutile.

L’idea profonda della pasqua di Cristo è che tutto il bene che abbiamo potuto fare rimane per sempre, non vien meno, non muore, ma si proietta nell’eternità. In Cristo morto e risorto abbiamo la certezza che il nostro amore, provato nelle croci di ogni giorno, e tutto il bene compiuto sarà per sempre e non morirà mai.

La fede come incarnazione e accompagnamento
La quarta chiave teologica per dare significato di fede a questi tempi di prova ci invita a condividere e ad assumere sia i dolori, sia i gesti di donazione a volte eroici che osserviamo come manifestazione della grazia di Dio, come presenza del suo Spirito che vive tra noi. Si tratta di una chiave più riflessiva, che deriva da uno sguardo capace di percepire il dono di Dio e la sua misteriosa presenza negli avvenimenti che vive l’umanità, sia quelli positivi sia quelli negativi.

Questa percezione si pone all’altro estremo rispetto alla mentalità apocalittica: dove l’apocalittico vede degenerazione e decadenza, colui che vive dentro la storia scorge l’opera di Dio, il suo amore presente in varie forme; dove il primo vede soprattutto esperienze di peccato, il secondo coglie espressioni della grazia; dove il primo vede negatività che invita a una fine catastrofica di purificazione, il secondo scorge molto amore e donazione, molta speranza.

L’esercizio teologico in questo caso si fissa su tutto ciò che rivela il meglio dell’umanità in mezzo alle sue ferite, perché assume una visione dall’interno di questa condizione umana, che rivela anche la sua grandezza.
Questa ottica coglie e applica nel suo significato forte la dichiarazione iniziale della costituzione dogmatica del Vaticano II, Gaudium et spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore… Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (GS 1).

La Chiesa perciò può leggere la situazione che vive l’umanità in questi tempi, con le sue luci e le sue ombre, dal di dentro e non dal di fuori, come chi giudica dall’alto. La fede cristiana discerne in ciò che sta succedendo i segni di vita che si riflettono in tutti gli sforzi che si compiono, in tutte le varie istanze di una società che si sente minacciata e insicura e persino terrorizzata. La fede impara in questa situazione a stare vicina e a condividere, a incoraggiare tutti e ad annunciare speranza.

Diversi teologi hanno insistito in questi ultimi anni nell’affermare che la missione di fede nel riconoscere l’azione provvidente di Dio non si identifica con lo straordinario, il soprannaturale o i limiti dei processi naturali, ma con la stessa dinamica della creazione e con gli sforzi della scienza, con il meglio dell’umanità che cammina verso il superamento del male. Questa è un’occasione unica per discernere la presenza di Dio sia in coloro che soffrono sia in coloro che amano e servono gli altri.

Note conclusive 
Questi tempi stanno mettendo a dura prova molte realtà, molte proposte, e non siamo sicuri di come vivremo, di come ci sentiremo dopo. È certo che un risultato importante di questo stato di cose è che ha obbligato a ripensare la fede cristiana come una “religione di salvezza” e non solo come una religione di carattere “spirituale”, come qualcosa che assomiglia all’esperienza estetica. In questo senso, le fede cristiana ricupera il suo carattere genuino, a condizione che sappia veramente aiutare la gente del nostro tempo ad affrontare e a superare queste difficoltà.

A questo proposito è opportuno ricordare che la fede religiosa si scopre meglio come un sistema di “superamento” (in inglese religious coping), vale a dire un insieme di risorse – convinzioni religiose, riti, preghiere – che aiutano coloro che se ne servono a superare situazioni difficili o di crisi.

Le ricerche effettuate in questi ultimi anni indicano che una strategia del genere basata sulla fede come aiuto significativo funziona meglio quando si combina con altre strategie, come quella terapeutica, l’amicizia o la conoscenza e lo studio.

Questo dato indica ancora che la fede cristiana è chiamata a camminare insieme ad altre espressioni positive, non a parte o in competizione con esse; è qualcosa che si deduce anche dalla situazione attuale in cui tutti dobbiamo offrire il meglio per far fronte alle nostre grandi sfide.

Un’ultima osservazione. Molti di noi sentono la mancanza nelle apparizioni pubbliche dei nostri governanti, soprattutto quando fanno gli annunci più drammatici e solenni, di una conclusione necessaria: «Che Dio ci aiuti». Sarebbe un segno di post-secolarizzazione reale e concreta, un modo di infondere speranza in tutti al di là delle divisioni.

  • Lluís Oviedo Torró, OFM, spagnolo, originario di Valencia, è professore di antropologia teologica presso l’Antonianum e la Gregoriana di Roma. Il presente articolo è stato ripreso dalla rivista Razón y Fe 2020, n. 1445.