Negli ultimi giorni, due interviste, rilasciate rispettivamente dal Superiore generale della FSSPX (qui), sulla quale ho già scritto alcuni giorni fa (qui) e dal Prefetto della Congregazione del culto (qui) hanno chiarito molto bene le progressive difficoltà con cui la Chiesa cattolica può sopportare il permanere di un accesso al Vetus Ordo tridentino accanto e in parallelo a quel Novus Ordo, voluto dal Concilio Vaticano II e realizzato dalla Riforma liturgica ad esso successiva. Proprio il rapporto con il Concilio Vaticano II sta al centro delle opinioni espresse dai due esponenti ecclesiali:
a) Don Davide Pagliarani, nella sua lunga intervista, ha chiarito che, sulla base del rifiuto più completo della lettera e dello spirito del Concilio Vaticano II, solo il VO può garantire la identità cattolica. Per questo, ad avviso del capo dei lefebvriani, non ha alcun senso tentare una riconciliazione con la Chiesa di Roma, finché essa difende i documenti del Concilio Vaticano II. Pertanto celebrare con il VO implica, necessariamente, la condanna sia della lettera, sia dello spirito del Vaticano II.
b) Con una posizione diversa, ma profondamente consonante con la prima, il card. R. Sarah ha censurato chi ritiene di ostacolare il VO e ha sostenuto che, se interpretato “nello spirito del Vaticano II”, il VO possa offrire ancora frutti di pastorale e di spiritualità ingenti. A suo avviso non vi sarebbe alcuna contraddizione tra lo “spirito del Vaticano II” e la celebrazione col VO.
Mi pare che entrambe queste posizioni, pur nella loro differenza, vivano un problema insormontabile con il Concilio Vaticano II: il primo ne contesta apertamente la lettera e lo spirito, mentre il secondo pretende di “onorarne lo spirito”, ma ne dimentica e ne rimuove la lettera. Infatti il Concilio Vaticano II ha chiesto, esplicitamente e autorevolmente, di superare il VO, perché inadeguato alla esperienza di Cristo e della Chiesa di cui vive la fede cristiana. Tutti coloro che, in modo poco riflettuto, pensano di poter “conciliare” NO e VO debbono fare i conti, esplicitamente, con questa espressa volontà del Concilio, che ha chiesto di “riformare il rito romano in vista della partecipazione attiva dei suoi membri”, superando la loro qualità di “muti spettatori”. E per questo ha preteso una riforma profonda degli Ordines rituali. Il VO è apertamente e dettagliatamente contestato dal Concilio Vaticano II, soprattutto da SC48 e seguenti.
L’azzardo voluto, in modo contingente, dal MP “Summorum Pontificum” nel 2007 mirava ad una riconciliazione con il mondo del tradizionalismo. In realtà, come è evidente dopo 12 anni, questa generale liberalizzazione del VO ha solo fomentato ostilità verso il Concilio Vaticano II, ha aperto lotte piuttosto che portato pace. Ciò è dovuto ad un equivoco di fondo: non solo lo spirito, ma la lettera del Concilio non permette di essere aggirata per troppo tempo. Se si lascia ancora in piedi una forma rituale che è stata ufficialmente superata da una nuova, si illude una parte del corpo ecclesiale che sia aggirabile il Concilio e tutto ciò che questo significa. Fino ad incitare alla aperta ribellione contro un papa come Francesco, che fa del Concilio Vaticano II l’orizzonte ordinario del suo magistero. Vi è un legame molto più profondo di quanto non si creda tra resistenza a Francesco e frequentazione abituale del Vetus Ordo.
Pertanto è giunto il momento di trarre le conseguenze da questa imbarazzante situazione di equivoco. Il cammino della Chiesa esige, oggi in modo ancora più forte di ieri, che la liturgia cattolica si riconosca, in modo universale, solo in una forma, quella ordinaria. L’accesso a forme superate del rito cristiano deve essere subordinato, caso per caso, al giudizio dei vescovi locali, che possono valutare le singole circostanze eccezionali e concedere in forma limitata un accesso ad esse.
Questa verità, che negli ultimi 12 anni si è cercato in tutti i modi di negare, trova il suo fondamento non solo nella “contingenza” e nella “occasionalità” del Motu Proprio del 2007 (Summorum Pontificum, di papa Benedetto XVI), ma anche nelle solenni dichiarazioni del Motu Proprio del 1960 (Rubricarum Instructum, di papa Giovanni XXIII). Infatti, la correzione che il MP del 1960 è oggi in grado di offrire al dibattito distorto dell’ultimo decennio consiste in una limpida logica di “senso comune”. Quando fu fatta l’ultima edizione del “messale di Pio V”, nel 1962, la si fece in modo interlocutorio, in attesa che il Concilio – che allora era già indetto anche se non era ancora iniziato – delineasse quegli “altiora principia” in base ai quali sarebbe stata fatta la vera riforma del messale. Pertanto non solo la lettera e lo spirito del Concilio Vaticano II non può concepire una “vigenza parallela” tra NO e VO, ma lo stesso documento che ha prodotto il Messale del 1962, che oggi si pretenderebbe vigente “per sempre”, lo intende come “provvisorio” a “ad tempus”.
Grazie alle due interviste pubblicate di recente, e grazie al preciso ricordo dei due “motu proprio”, da correlare l’uno all’altro, possiamo oggi scoprire che il cammino del Vaticano II non permette di concepire un normale accesso al VO, se non mettendo in questione il Vaticano II, non solo nel suo spirito, ma anche nella sua lettera. Se possiamo capire che il Superiore dei Lefebvriani possa essere tanto critico con il Vaticano II da negarne tanto la lettera quanto lo spirito, cercando un sollievo e una resistenza soltanto nel VO, più difficile è comprendere come un Prefetto di congregazione possa dire di difenderne lo spirito, ma ne contraddica in modo tanto sconcertante la lettera.
Il “magnum principium” della riforma liturgica affermato dal Vaticano II – ossia la “actuosa participatio” – impedisce un accesso indifferenziato e incontrollato al VO. A maggior ragione con i più giovani. Questa verità oggi deve essere ripristinata con urgenza e con fermezza. Essa è decisiva per quel disegno di “chiesa in uscita” che il magistero di Francesco ha tratto, con limpida consequenzialità, dalle parole del Concilio Vaticano II. Le stesse parole che, con altrettanta consequenzialità, prendono congedo dalle forme tridentine di Chiesa e di vita cristiana.