giovedì 11 luglio 2019

Enzo Bianchi "La compassione perduta"

La Repubblica 10 luglio 2019
di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose

Chi stiamo diventando? Uno degli argomenti chiave nella complessa questione delle migrazioni riguarda la presunta minaccia alla nostra identità che l’afflusso di una certa tipologia – etnica, religiosa, reddituale – di stranieri rappresenterebbe per la società italiana.
Ma attualmente a preoccupare maggiormente non dovrebbe essere un’ipotetica futura "sostituzione" dell’italianità – qualunque cosa significhi questo termine – con elementi estranei alla storia e alla cultura del nostro Paese, quanto piuttosto un già avvenuto mutamento nel modo di pensare, di parlare e di agire fino a pochi anni fa patrimonio largamente condiviso.

Per anni ho insistito preoccupato sui piccoli passi quotidiani verso la barbarie: ormai vi siamo immersi, così che sentimenti ed emozioni di cui un tempo ci si vergognava, almeno in pubblico, ora sono esibiti come trofei di guerra. Specularmente, atteggiamenti di solidarietà, condivisione, bontà, compassione vengono sfigurati e irrisi. «Pietà l’è morta» si cantava durante la resistenza al nazifascismo, rivendicando il diritto a ripagare con la stessa moneta della spietatezza che si macchiava di crimini contro l’umanità.

Ora che da oltre mezzo secolo le nostre società e le legislazioni degli Stati hanno bandito questo concetto di «giusta vendetta», ecco che vediamo ogni giorno affermarsi un tacito proclama: «La compassione è morta». Sembra morto quel sentimento per cui, raggiunti dalla sofferenza di un altro, ci facciamo carico del suo dolore, fino a sentirlo con lui come nostro: il dolore dell’altro diventa il mio dolore. Compatire è essenzialmente "soffrire insieme": qualità umanissima che non è mai stato facile vivere in profondità, ma che oggi viene sbeffeggiata come buonismo da anime belle. Il contesto culturale, per lo meno dagli anni Sessanta del secolo scorso, ha creato una possibilità di percezione del male molto diversa dal passato: si pensi anche solo alla rimozione che le nostre società sanno fare della morte e, simultaneamente, alla spettacolarizzazione e all’esibizione della sofferenza, addirittura dell’orrido, del macabro in diretta, attraverso i mezzi di comunicazione.

Da un lato ci si abitua alla visione del male, tenendolo di fatto lontano attraverso la mediazione del mezzo di comunicazione; dall’altro si soffoca, riducendolo a un’emozione morbosa, ciò che dovrebbe invece essere una chiamata, una domanda a cui rispondere. I media diventano in realtà barriere, muri tra noi e il dolore altrui, e ci condannano sempre di più a un quotidiano di solitudine e di isolamento. Abbiamo paradossalmente difficoltà a diventare prossimi dell’altro: diventiamo con facilità prossimi virtualmente, e moltiplichiamo la nostra prossimità virtuale con contatti "liquidi", inversamente proporzionali alle relazioni concrete, "solide". E così la morte della prossimità è vissuta come negazione o "morte del prossimo".

Ma negli ultimi anni, in Italia come in molti paesi dell’Occidente, la situazione è ulteriormente precipitata: ci si vanta della spietatezza verso i più deboli, siano essi i poveri "di casa nostra", gli immigrati o gli appartenenti a determinate etnie. La solidarietà, lo storico "mutuo soccorso", il sostenersi tra esseri umani segnati dalla sofferenza, il "patire insieme" si è tramutato – dapprima nel linguaggio e poi nei comportamenti – in una ricerca ossessiva dello "star bene da soli", senza gli altri, anzi, contro di loro.

Se questo però è tragicamente il quadro prevalente, quello che si impone nei ragionamenti urlati di certa politica come dei mass media, non dobbiamo rassegnarci a trasformare questa deleteria tendenza maggioritaria in un sentimento universale.

È necessario uno sforzo di autentica resistenza non solo per sostenere in prima persona l’etica della compassione, ma anche per saper discernere, riconoscere, dare voce a chi la solidarietà verso i proprio fratelli e sorelle in umanità non ha mai smesso di mostrarla e continua a farlo nel silenzio di tanti o addirittura nel dileggio dei molti.

L’essere umano si sta mostrando sì capace di chiudere le viscere in un egoismo che lo disumanizza, ma può sempre aprire le proprie viscere per soffrire e gioire con l’altro, per vivere autenticamente: la compassione muore dove noi la uccidiamo giorno dopo giorno, ma la dignità umana è viva là dove anche una sola persona riconosce il proprio simile nella sofferenza, si china su di lui, lo abbraccia e, così facendo, lo salva.Perché «chi salva una vita, salva il mondo intero».