Ignis vibrante lumine
linguae figuram detulit,
verbis ut essent proflui
et caritate fervidi.
Fuoco vibrante e splendido
forma di lingue assume:
parole ardenti scorrono,
la carità s’infervora.
La seconda strofa dell’Inno di Lodi (Beata nobis gaudia) offre un grappolo di figure che descrivono in maniera condensata la modalità e l’effetto della discesa dello Spirito Santo.
Due sono le immagini base: il fuoco e la lingua; due sono le conseguenze del loro apparire: la ricchezza del linguaggio e l’ardore della carità. Sono i due aspetti di uno stesso prodigio, due forme in cui si materializza la presenza dello Spirito: il linguaggio dell’annuncio, sostanziato e reso “vero” dai gesti di carità.
Ho sempre avuto difficoltà a parlare dello Spirito Santo con la lingua della “teologia”, parola che metto tra virgolette per non offendere tanti teologi dei giorni nostri, ma anche perché, purtroppo, negli anni dello studio me ne è stata offerta una versione indigesta e indigeribile.
Erano tempi in cui si pensava che la “ragione” fosse lo strumento principe per spiegare i “misteri” della fede. Stagione conclusa – spero –; modalità che per me è finita molto presto nel dimenticatoio, vista l’impossibilità di tradurla in catechesi viva e vitale, e provvidenzialmente travolta in me mediante un contatto assiduo con gli scritti dei Padri e degli autori monastici medievali.
La mia percezione è da moltissimo tempo in accordo totale con quanto scrive Isacco della Stella, che identifica tre teologie: quella apofatica, che, rispettando il mistero, parla di Dio al negativo, affermando ciò che egli non è; quella razionale (vedi sopra), da lui definita “povera e angusta”; e quella simbolica che parla per immagini (Sermone 22,9). Da tutti i punti di vista, sia per l’esplorazione del mistero sia per la sua trasmissione nella catechesi, è quest’ultima che si rivela essere la più feconda, la più utile e, alla fine, paradossalmente, la più “pratica”.
Il fuoco
Partiamo dalle immagini, dunque. La strofa mette al centro quella del fuoco che, insieme all’acqua e al vento, è una delle metafore più note per dare allo Spirito il nome di realtà che conosciamo bene. Si tratta peraltro di realtà “elementari” nel senso che, insieme, costituiscono il fondamento stesso della creazione. È noto, infatti, che fin dall’antichità l’universo era inteso come composto da quattro “materie”: la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco, appunto. Assumere queste immagini per descrivere lo Spirito è già un dichiarare che proprio lo Spirito è all’origine di tutti gli esseri (Gen 1,2), e tutti li sostiene e li riempie (Sap 1,7).
Questa strofa mette al centro il fuoco, cui aggiunge, anche se in modo obliquo e suggestivo, qualche riferimento all’acqua, come si vedrà.
Il fuoco è qualificato in modo straordinario, e forse non è neanche la prima cosa che viene in mente. Si tratta certo di una “luce”, e questo potrebbe anche essere scontato, ma è una luce che “vibra”, letteralmente che “scintilla”, come significa il verbo in latino.
Qui appare un primo collegamento tra il fuoco e l’acqua, perché lo scintillio luminoso evoca sia la goccia di rugiada sospesa su un filo d’erba, e che la luce dell’alba rende iridescente, sia il tremolio vivacissimo e incessante delle onde di un lago o del mare quando sono ferite dal sole.
Questo vibrare, già di per sé segno evidente di una “vita”, che è “movimento”, assume nel secondo verso la figura più precisa delle “lingue”, secondo il racconto di At 2,3. L’immagine introduce la funzione dello Spirito direttamente nel campo del linguaggio propriamente detto. E però, di che lingua si tratta?
Ho trovato nella Lettura che il Breviario riporta per la memoria di san Norberto di Xanten (6 giugno) una sintesi davvero mirabile di cosa operi quello che lì è chiamato verbum Dei ignitum, parola infuocata di Dio. Sono indicati tre effetti della sua azione: «brucia i vizi, acuisce le virtù (acuens virtutes), arricchisce di sapienza le anime ben disposte».
Qui tornano alla mia mente immagini legate all’infanzia e al mondo del villaggio contadino degli anni ’40 in cui sono nato e cresciuto.
La prima riaccende nella memoria i fuochi che ardevano sulle colline quando si bruciavano i rami secchi dopo la potatura delle viti. Inevitabile riprendere da Gesù la stessa immagine della potatura (Gv 15,) che egli utilizza per insegnare che, come per le viti, così per noi certi tagli sono necessari per eliminare quanto rischia di soffocare la crescita e, di riflesso, per rendere più vitale la pianta chiamata a portare frutti.
Ho tradotto alla lettera il verbo acuo riferito alle virtù, evitando la parafrasi che appare nel Breviario italiano, perché un’altra immagine legata al fuoco mi è tornata alla memoria. Ed era quando, nella fucina di casa, il papà, dopo aver scaldato e ammorbidito sui carboni il tondino di ferro, lo batteva con il martello per trasformare in “punta” la terminazione piatta. Acuire le virtù significa, credo, portarle a un punto di malleabilità che le renda utili e funzionali (non è un esito scontato!), e per questo occorre passare attraverso il fuoco, quello dello Spirito.
Dopo la purificazione dai vizi e l’affinamento delle virtù, siamo pronti a offrire quella “sapienza” che arricchisce le anime ben disposte. Qui ritrovo il fuoco della cucina, quel fuoco che serve a rendere i cibi commestibili, e pure gustosi. È il caso di ricordare che sapienza non significa solo conoscenza, ma anche sapore, quello che deriva da ciò che si conosce, e che passa in chi riceve tale conoscenza. Anche a questo serve il “sale” che riceviamo nel battesimo (Mt 5,13), che viene ad aggiungersi all’acqua e al fuoco che ci trasmettono lo Spirito della rinascita a vita nuova.
Il fervore della carità
Gli ultimi due versi traducono sinteticamente il duplice frutto che deriva dalla discesa in noi dello Spirito di Pentecoste. Si tratta di acquisire, nutrire e alimentare un nuovo linguaggio: quello delle parole e quello del comportamento.
Nella traduzione, il poco spazio ha costretto a eliminare quell’ut (affinché) che dirige inequivocabilmente sugli apostoli e sul giorno di Pentecoste il realizzarsi di questi due effetti. Il risultato, però, che rende più generica l’affermazione dell’inno, non contraddice il testo: solo ne fa un’affermazione che si estende a tutti i cristiani di tutti i tempi.
La prima conseguenza in chi riceve lo Spirito è che egli diventa una fontana di parole. L’immagine liquida è nell’aggettivo proflui, che indica uno scorrere generoso, come si è cercato di rendere nella traduzione.
Non si tratta, ovviamente, di qualsiasi parola: quella dello Spirito non è la scuola del cicaleccio futile, delle chiacchiere vacue e delle vanterie esibizioniste, e ancor meno delle parole che disprezzano, che insultano, che deprimono.
Le sue sono parole di fuoco, del genere di quelle che funzionano come si è detto sopra.
Il loro scopo è illustrato nell’ultimo verso: il fervore (altra immagine di fuoco) della carità. Qui siamo al cuore del messaggio della Pentecoste, quello che si materializza nel fenomeno più noto legato a quel giorno: il convergere delle lingue in un’unica lingua, quella dell’amore, che tutti comprendono, e che affratella tutte le genti e tutti gli idiomi.
Cruciale è capire il legame inscindibile che unisce parola e gesto, due aspetti dello stesso fuoco che rende presente l’azione dello Spirito nel mondo. Capita ogni tanto che l’azione venga sbilanciata in un verso o nell’altro.
È uno squilibrio riconducibile a quell’altro binomio che rimane imprescindibile nella trasmissione del messaggio cristiano: la conoscenza e la pratica, la verità e la carità, la lingua delle parole e quella dei comportamenti. Tale binomio è già stato perfettamente intersecato nella Lettera agli Efesini, dove è scritto: veritatem facientes in caritate (Ef 4,15). La “verità” per essere tale va “fatta” (Gv 2,21), non basta proclamarla.
È stato ripetuto tante volte che è meglio «essere» cristiani che «dire di esserlo» (Ignazio di Antiochia), e tanto basti.
Accade addirittura che si predichi meglio con l’esempio che con le parole. Come disse Paolo VI nella sua enciclica dedicata all’annuncio del Vangelo: «La gente oggi ascolta più volentieri i testimoni che i maestri e, se ascolta i maestri, è soprattutto in quanto sono pure testimoni». Per questo nella Chiesa contano più i santi dei teologi, e il vertice è raggiunto da quelli che riuniscono in sé le due qualità.
Questi sono i vertici, ma a ciascuno di noi è chiesto, secondo le sue possibilità e le sue misure, di rendere visibile l’azione dello Spirito con la parola e con l’esempio, esempio che rende vera la parola, parola che spiega il senso, le ragioni, la praticabilità di ciò che si trasmette con l’esempio. Le due azioni sono necessarie, anche se possono appartenere a persone diverse e a diversi momenti. Tutto però si riunisce in una visione di Chiesa come di un’orchestra: gli strumenti e i timbri sono diversi ma, se c’è accordo, la musica che ne nasce è bella, e una sola (cf. 1Cor 12,4).