Intervista a Salvatore Martinez
«Per un cristiano, il bene comune nasce dalla capacità di rendere socialmente visibile il contenuto morale della fede: finché non sapremo rimpatriare questa verità continueremo a permettere l’accentuarsi dell’individualismo e degli interessi di parte, di pochi, di alcuni, oserei dire dei mediocri o peggiori». Questo è il punto di partenza del ragionamento di Salvatore Martinez, presidente nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo, che in questa intervista interviene sul tema dell’attuale crisi della società italiana sottolineando in particolare la responsabilità di ogni battezzato e richiamando l’esempio offerto cento anni fa da Luigi Sturzo con il suo Appello ai liberi e forti.
Guardando alla società italiana emerge un dato che ha una sua ambiguità, anche inquietante, cioè il dato dell’identità come risposta alla globalizzazione, ma una risposta che talvolta si colora di chiusura e violenza.
Nelle pagine di questo giornale ho letto un approfondimento del concetto di “identità” da parte di De Rita e Zamagni. Condivido il loro approccio e la preoccupazione che l’identità cristiana non sia precisata dentro il destino di una comunità, così che venga inficiato il suo ineludibile dinamismo missionario. Occorre però ribadire che è in crisi l’identità cristiana. Una grave crisi, figliata dalla crisi spirituale che è madre di tutte le sterilità e le inadempienze che il nostro tempo vive. Una crisi spirituale che sta attraversando il cuore degli uomini e delle istituzioni umane e che trova un paradigma dominante nella separazione dell’etica dalla metafisica, dell’etica dallo spirituale. Quando ciò accade, come sta avvenendo nella nostra epoca, la conseguenza prima e diretta è il cambiamento della visione del reale, della percezione delle relazioni. Separando il senso morale dal valore dell’esistere si finisce con il perdere la tensione verso le virtù; si smarrisce la passione per la conversione personale e comunitaria; si allenta il senso del dovere, del sacrificio, della responsabilità, della comunione interumana, del bene comune. L’uomo, così, da “prossimo” diventa “remoto” e la sua dignità, specie quando impoverita o sfruttata, diviene un problema da risolvere, ridotta a questione meramente politica o economica. Definire la nostra identità “cristiana” non significa appena aggettivarla, ma sostanziarla, personificarla nell’esigente legge dell’incarnazione. La nostra è un’identità segnata e significata, terribilmente segnata e significata. Può essere accolta o rifiutata, così da renderci partecipi dello stesso destino di Cristo, ma non potrà essere cancellata dalla storia, perché «Dio resisterebbe ancora nei cuori!», come notava Romano Guardini. Il cristianesimo ha un costitutivo dinamismo missionario e universalistico, che però, per essere fedele alla propria indole, deve essere sviluppato non con la forza, ma per le vie dell’amore e della libertà, come ci testimonia ferialmente Papa Francesco. Soltanto il recupero di questa identità profonda può, sul lungo periodo, evitare sia la decadenza della nostra civiltà, sia la riduzione del Vangelo a un repertorio di “consigli per gli acquisti” di un benessere terreno. Zygmunt Bauman richiamava l’attenzione sul tema dell’identità, che, nel tempo liquido, finisce con il rivelarsi come «qualcosa che va inventato, piuttosto che scoperto; qualcosa che è ancora necessario costruire da zero». Sarebbe terribile per noi laici cristiani accettare supinamente questa evidenza. In realtà si può parlare d’identità in due modi: o in termini “speculativi” o in termini “contemplativi”. In termini speculativi, per la sociologia corrente, l’identità è un problema. Più la vita si fa liquida, più le radici vengono estirpate, più le memorie vengono adulterate o cancellate e più l’uomo — ridotto «ad una sola dimensione», come evidenziava Herbert Marcuse — finisce con il diventare un serio problema a se stesso. Dobbiamo parlare d’identità in termini contemplativi, e così essa diviene sinonimo di “identificazione”. Identità, dunque, non come qualcosa che va inventato o scoperto, ma come Qualcuno che va incontrato, accolto, amato, servito: è il mio io che si fa tu; è il mio essere vivo nell’altro. Il cristiano, solo contemplando, interiorizzando, assimilando il Dio che ama e la fede che ripone in Lui, può vedere la storia sfigurata dal male con uno sguardo trasfigurato dal bene, e così proiettare in modo deciso sulla storia, su ogni uomo, lo stesso amore che riceve da Dio. Solo attraverso questa dimensione soprannaturale, ancor meglio da questa sintesi tra divino e umano, tra soprannaturale e naturale, tra fede e vita, tra spirituale e sociale, tra amore per Dio e amore per il prossimo, l’identità risorge e si rende agibile nei nostri corpi comunitari e sociali.
Giuseppe De Rita su queste pagine ha affermato che per il buon governo c’è bisogno di due autorità: una civile e una spirituale-religiosa. Quella civile garantisce la sicurezza, quella spirituale offre un orizzonte di senso. L’uomo ha bisogno di tutte e due le cose. Se invece si esclude una delle due, la società soffre, diventa schizofrenica. In questo sarebbe il ruolo della Chiesa nell’attuale situazione italiana.
De Rita ha ben spiegato la necessaria collaborazione e non contrapposizione tra le due autorità, quella civile e quella spirituale. La questione, del resto, è sempre esistita, dando gli esiti più diversi nel corso dei secoli. L’umanesimo cristiano rimane, di fatto, la risposta storica più eloquente alla ricerca del “bene comune” e al servizio dell’uomo, perché questi sia salvato dai mali che lo affliggono. È in questa direzione universale che si combinano efficacemente le due espressioni civile e spirituale. La Costituzione italiana, peraltro, codifica per ogni cittadino «il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (art. 4 comma 2). Un principio che faremmo bene a evocare con più frequenza e rispetto, a non calpestare sulla scia di una malintesa esclusione della fede dalla vita pubblica e di una progressiva riduzione della libertà religiosa. Il rischio è la perdita di slancio e d’incidenza delle buone prassi derivanti dall’idealismo cristiano, quelle pratiche che ne segnano il più evidente realismo nell’impegno volontario, generoso, gratuito, feriale di milioni e milioni di cittadini italiani ed europei, a partire dalla ricchezza educativa e rieducativa che i corpi intermedi offrono nella costruzione e nello sviluppo dello Stato sociale. In occasione del Convegno nazionale ecclesiale di Firenze, nel 2015, Papa Francesco ha riassunto questo ragionamento in una lapidaria e stringente affermazione: «I credenti sono cittadini». A me pare riduttivo leggere la situazione della società italiana solo all’insegna delle povertà emergenti; l’Italia è per me il paese delle ricchezze negate! Occorre però riarmonizzare “fede e diritti umani” con nuove evidenze comunitarie, politiche e sociali. È la prima sfida che impegna i laici cristiani oggi. Abbiamo sempre cercato, in nome della laicità, la giusta armonia tra fede e ragione; entrambe, se adempiono al criterio postulato da san Tommaso — cioè che «solo il falso è contrario al vero» —, non solo possono ritrovarsi sempre più alleate nel tempo della crisi e del disimpegno civile, ma determineranno un nuovo, comune impegno di credenti e non credenti intorno all’uomo, alla salvaguardia e alla promozione della sua dignità integrale e trascendente. Del resto, per un cristiano, il bene comune nasce dalla capacità di rendere socialmente visibile il contenuto morale della fede: finché non sapremo rimpatriare questa verità continueremo a permettere l’accentuarsi dell’individualismo e degli interessi di parte, di pochi, di alcuni, oserei dire dei mediocri o peggiori. Occorre ricordare che don Luigi Sturzo, in un’epoca non meno problematica della nostra, accettava l’idea che si definisse “cristiana” una democrazia solo se il suo profilo si fosse delineato non entro temi confessionali, quanto, piuttosto, dentro principi eticamente validi, spiritualmente stringenti, capaci di contenere il dilagare dell’immoralità pubblica e le derive sociali derivanti dall’orgoglio umano, sempre generatore di ingiustizie sociali, esclusioni e povertà. Altro che schizofrenia: l’autorità spirituale dà a Cesare quel che è di Cesare e l’autorità civile non permette che si dia a Cesare quel che è di Dio! È dal basso, dunque, che deve prodursi una nuova alleanza intorno a quell’uomo che autorità civile e spirituale devono insieme servire, a partire da un nuovo ethos comunitario e sociale. Così si potrà ridare gambe alla fede e terreno ai piedi; così si può riaffermare la convenienza dell’identità cristiana tra la nostra gente, nel cuore della gente, nella vita delle nostre comunità, prima che nei palazzi del potere e nelle istituzioni politiche.
Il Papa propone ormai da anni il tema anzi il metodo della sinodalità, cioè il camminare insieme, il conoscersi, il fare qualcosa insieme, alto e basso che si intrecciano armoniosamente. Si avverte però un po’ di fatica a capire bene come realizzare questa sinodalità all’interno della Chiesa e della società, come mai?
Recentemente, incontrando i Vescovi italiani riuniti in Assemblea, il Papa ha precisato che il metodo sinodale ha come una doppia corsa: dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Se Sinodo, prima di ogni cosa, significa riunirsi per ascoltarsi e impegno a camminare insieme, allora certamente c’è molto da fare! Intanto nella reciprocità che il discernimento comunitario impone: le parti — gerarchia e laicato — hanno al contempo il bisogno di tornare a parlarsi e ad ascoltarsi, con simpatia, umiltà e fraternità nuove, perché il loro stare e camminare insieme sia profetico, sia risposta provvidenziale ai segni dei tempi. Quando affermiamo “dall’alto verso il basso”, intendiamo che è il Magistero a parlare; e allora i cristiani tutti hanno il dovere di porre attenzione a ciò che lo Spirito dice alle Chiese attraverso la voce del Successore di Pietro e degli Apostoli, i Vescovi. Quando diciamo “dal basso verso l’alto”, allora sono le comunità a parlare; a partire dalla vita della gente, delle famiglie, delle aggregazioni generate dalla fede. Spesso si confonde il Sinodo con il Concilio. In un Concilio si definiscono materie di fede e se ne aggiornano le definizioni a vantaggio di tutte le Chiese; in un Sinodo si definisce la vita di una comunità locale, si parte dalle esperienze e dalle soluzioni da porre in essere perché la fede non muoia, sia sempre viva, detta e data a tutti, soprattutto alle nuove generazioni sempre meno interessate e coinvolte. Se teniamo conto di questa distinzione, allora cambia lo sguardo, l’orizzonte dinanzi a noi e si comprende meglio il pontificato di Francesco: la questione antropologica, oggi, è prima sociale che teologale. Non sono i convegni e i documenti — questo per molti significa Sinodo — che possono riportare la fede nel petto della gente e la vita cristiana in una società che sta escludendo Dio dalla storia, facendo dell’uomo non «la principale risorsa dell’uomo stesso» (san Giovanni Paolo II), ma il principale nemico di se stesso. Concretamente, al Convegno di Firenze già menzionato, il Santo Padre ha esplicitato in modo chiaro il metodo che va “dal basso verso l’alto” e che ci permette di vivere con fiducia nella Provvidenza lo spirito sinodale, anche quando un Sinodo propriamente detto non è insediato. Papa Francesco ci ricorda che «occorre dialogare, non per parlare e discutere, ma per fare qualcosa insieme, costruire insieme, mettendo insieme tutte le ricchezze culturali di cui disponiamo». È questo il primo esodo da noi stessi, da ogni residuale autoreferenzialità nel tempo di “vacche magre” che viviamo, un’epoca che ci ha resi tutti più deboli e dunque meglio disposti a fare comunione; è questo il senso della “conversione pastorale” che il Papa invoca sin dall’inizio del suo ministero petrino con la Evangelii gaudium.
Quando si dice “Chiesa italiana” può scattare l’automatismo per cui si pensa alla Cei o al Vaticano, ma la Chiesa non è né l’una né l’altro, la Chiesa è il popolo di Dio. E allora quale può essere il ruolo del popolo cattolico in questa situazione critica dell’Italia?
Non ci resta che attuare le parole del Papa, dando alla nostra laicità cristiana una capacità propositiva nuova. Una felice concomitanza storica ci fa da stimolo. Ricorre quest’anno il centenario del celebre Appello ai liberi e forti con cui don Luigi Sturzo e altri dieci membri della Commissione provvisoria si rivolgevano al paese nel segno del neonato Partito Popolare italiano. L’Appello ai liberi e forti rappresenta un’affermazione ragionevole e vitale dell’identità cristiana; palesa un modo concreto ed efficace di essere laici, portatori sani di laicità nella storia; indica la possibilità di essere socialmente organizzati per rendere politicamente agibili i grandi valori del cristianesimo. A Caltagirone, a metà del mese prossimo, si terrà una rilettura dei dodici punti del programma che esplicitano l’Appello, per apprezzarne attualità e attuabilità. Ognuno di essi, uno dopo l’altro, mostra ancora lungimiranza politica e spirito profetico, una compiuta visione dello Stato e della società, un rimando concreto ai bisogni primari di una comunità civile. A Caltagirone, con uno straordinario concorso di volontà da parte dei massimi rappresentanti di tutti i mondi afferenti ai 12 punti programmatici, in spirito di condivisione e di collaborazione, leader, esperti, testimoni impegnati in ogni settore della vita pubblica si interrogheranno tra la gente per generare un nuovo dialogo culturale e sociale. Un segno di speranza creatrice; un gesto di corresponsabilità che, ci auguriamo, possa risvegliare una nuova passione per l’impegno e una sensibile discontinuità generazionale.
di Andrea Monda