Lilia Sebastiani "Clericalismo malattia della chiesa"
Nell’ultimo articolo abbiamo ricordato le severe riflessioni di papa Francesco sugli abusi commessi da ecclesiastici, e in particolare sulla loro radice, da lui riconosciuta nel clericalismo.
La cura additata, al di là dei provvedimenti da adottare caso per caso, è in primo luogo un sincero impegno di coscientizzazione su questa vera e propria malattia della chiesa, affiorante purtroppo anche in persone innocenti e insospettabili.
Non intendiamo relativizzare i casi di abuso, solo ricordare che non sono tutto. Sarebbe evasivo curare solo le manifestazioni prescindendo dalle cause, o ricondurre tutto il problema al peccato e alla debolezza di singole persone.
Dal clericalismo derivano l’abuso di potere e di coscienza e l’abitudine all’insincerità: possono sfociare nel crimine dell’abuso sessuale, ma anche in abusi di altro genere, meno riconoscibili e perseguibili – perché non sempre si configurano come reati –, ma non meno gravi. La riflessione è spesso scoraggiata dal suo essere una malattia antica, in cui le responsabilità sono a volte inestricabili. Si potrebbe definire il clericalismo in molti modi; per ora basti dire che è quell’abitudine mentale per cui negli ambienti e nelle strutture di chiesa, in linea di principio, il peggiore dei preti vale/conta sempre più del migliore dei laici quanto a credibilità, rappresentatività e forza decisionale.
Dopo aver preso le mosse dalle recenti dichiarazioni del papa (Rocca 15 maggio), occorre tornare indietro e chiedersi come è possibile che questa malattia del clericalismo («... una perversione nella vita della Chiesa..., in quanto perverte quella che è la natura della Chiesa, del santo popolo fedele di Dio» (1), dice papa Francesco, riconoscendola endemica nella vita consacrata, e tuttavia presente anche in molti che chierici non sono), abbia potuto mettere radici nella comunità dei credenti in Gesù di Nazaret.
Qui gettiamo uno sguardo sugli inizi della separazione dicotomizzante tra clero e laici.
Agli inizi la dicotomia non c’è. Perché non c’è ‘clero’, e non ci sono quelli che chiamiamo laici, nemmeno come idea. La differenza di fondo è tra essere e non essere cristiano: una scelta forte, che di per sé basta a configurare la fisionomia della persona e a fondare una vita ‘altra’. I ministeri ci sono, e gradualmente prendono forma assumendo una fisionomia stabile nella Chiesa, ma non sono ancora sacralizzati.
una digressione su ministri e ministre
Si sa che la parola ministro (minister) deriva da minus, che significa ‘meno’ (come ‘maestro’, magister, da magis, ‘più’). Ma le parole non hanno solo un significato e un’etimologia: hanno una pluralità di significati, hanno una storia e delle risonanze. Dopo la fine dell’antichità, e anche prima, minister comincia a evolversi: dal significato di servo a quello di ‘maggiordomo’, di amministratore di fiducia, di collaboratore più influente, più autorevole di chi comanda..., fino a diventare ‘uno che comanda’ semplicemente.
In latino minister – finché significa semplicemente servo ed esprime un ‘meno’ – ha il suo femminile, regolarissimo: ministra. Poi, via via che il ministro non è più uno che obbedisce ma, sempre più, uno
che ha potere, la parola perde il femminile: ministra scompare dall’uso.
Quando poi viene ripescata, e siamo ormai nei nostri tempi e la parola appunto include l’idea di un potere, sembra che sia ‘strana’, che suoni male. (Come mai non suonava affatto così male, quando significava serva?). Nel linguaggio dell’informazione la parola viene reintrodotta negli anni ’80-’90, all’inizio però in modo critico, leggermente caricaturale.
Solo di recente ha riconquistato la sua neutralità di messaggio; forse nemmeno del tutto. Così anche le (non moltissime) donne che ricoprono la carica di ministro tuttora preferiscono, di solito, venire indicate con il termine al maschile, come se fosse più rispettoso nei loro confronti o più serio e affidabile, e pazienza se dovesse succedere di sentir dire «il marito del ministro» – e succede! – dove non si tratta di una coppia omosessuale.
padri maestri guide
Ovviamente nella chiesa ci sono persone diverse, e quindi differenti carismi, capacità, funzioni; in ogni organismo complesso c’è chi deve assumersi delle responsabilità per tutti. Il pericolo si delinea quando vi entra lo spirito di potere, e soprattutto quando la funzione viene sacralizzata. In prospettiva cristiana, l’unica differenza tra le persone, è data dalla pienezza di risposta allo Spirito: che guida ogni persona e le chiese e la storia, senza sovrapporsi alle scelte umane, senza svuotarle... Ma anche la risposta allo Spirito è una realtà incompleta e dinamica in cammino di trasformazione, non può etichettare nessuno.
Un passo del vangelo di Matteo (23,8-10), tanto famoso quanto apparentemente ininfluente nel vissuto ecclesiale, ricorda per bocca di Gesù a quelli che credono in lui di non chiamare «padre» nessuno sulla terra, e nemmeno «maestro» o guida. Ovviamente ciò non nega la paternità nel senso familiare e affettivo, e nemmeno l’importanza di una continuità e delle radici, del resto necessarie per poter andare oltre; non nega che dei maestri veri ci siano, per fortuna (e dei testimoni, in quanto tali superiori ai maestri, come ricordava Paolo VI); ma ricorda che queste figure non vanno assolutizzate e che nessuno resta o dovrebbe restare dipendente da padri o maestri per sempre – per quanto grandi e autentici possano essere affetto e riconoscenza ed eredità spirituale. Ed essere padre o maestro di qualcuno, pur se è importante e necessario, non fonda nessun primato.
Nella comunità dei discepoli di Gesù l’unico primato è quello del servizio.
Nessuno l’ha negato mai, a parole. Ma sappiamo che di rado questa grande verità è stata visibile e riconoscibile, soprattutto quando dagli individui si passa alle realtà istituzionali, che maggiormente fanno e segnano la storia. Non si può dire in senso forte «siamo/siete padri», «siamo/siete maestri», nemmeno quando si esercita davvero una paternità, con amore e per amore, o quando si insegna qualcosa a qualcuno sia pure molto bene. Anche perché chi è maestro in un campo, di solito, in altri campi ha bisogno di maestri; del resto anche nel proprio ne ha bisogno, se non vuole isterilirsi o essere una vox clamans in deserto.
Nel senso forte semmai si può dire solo «siamo fratelli/sorelle», e comportarsi di conseguenza. Vivere da cristiani ha bisogno di una riduzione dei ‘padri’ intesi come principio di autorità, di una valorizzazione dell’atteggiamento materno anche da parte degli uomini e delle istituzioni, e soprattutto di un incremento di fratelli e sorelle.
(Non dimentichiamo mai di esplicitare il femminile, per favore! È pericoloso considerarlo contenuto nel maschile: a forza di esser contenuto viene assorbito..., alla fine sparisce).
chierici/laici: da dove la dicotomia?
Nel Primo Testamento la parola sacerdote, come il ruolo, è molto presente e importante, anche se singole figure sacerdotali non sempre compaiono in luce positiva; e comunque nell’Alleanza il ruolo del sacerdote è molto inferiore a quello del profeta – pensiamo ai due fratelli Aronne e Mosè. Nel Nuovo però le cose cambiano.
La parola hierèus, sacerdote (connessa con hieròs, ‘sacro’) viene usata in un senso diverso.
A volte può ancora indicare le ben note figure sacrali giudaiche o pagane, quasi sempre però in modo critico se non negativo. Si può dire che l’unico sacerdote proprio ‘buono’ offerto dai vangeli sia Zaccaria, il padre di Giovanni Battista. Anche lui teologicamente non esente da qualche ombra, come si vede nella sua relativa esitazione iniziale ad aprirsi al nuovo di Dio: a causa di questa esitazione dovrà restare muto fino alla nascita del figlio, perché chi non ascolta con cuore aperto non è in grado di annunciare.
Nella parabola del buon Samaritano, in cui il laico-irregolare-samaritano è figura di Gesù, i due ‘uomini del sacro’, sacerdote e levita, proprio a causa del culto e dell’obbligo di purità non possono perder tempo a soccorrere un ferito mezzo morto – che, chissà, potrebbe anche essere morto del tutto,
perciò contaminante per chi lo tocca... –, e rappresentano un completo fallimento nella ‘prossimità’. I sacerdoti di Gerusalemme poi (influenti, ricchi, sadducei negatori della risurrezione finale e, per opportunismo, un po’ collaborazionisti dei romani) sono presentati come nemici di Gesù, attivi nel volere la sua morte. Luca nel libro degli Atti dirà che nella primissima comunità cristiana di Gerusalemme «anche molti sacerdoti si accostavano alla fede» (At 6,7): compiaciuto e un po’ sorpreso, come chi racconta un miracolo della Parola.
La parola sacerdote nel NT è usata con senso pieno solo in riferimento a Cristo e a tutto il popolo cristiano. Per i ministeri ecclesiali, quando cominciano a esserci (apostolo profeta e maestro, nelle comunità paoline; episcopo presbitero e diacono a partire dalla fine del I secolo), i primi cristiani adottano termini non sacrali, presi dal linguaggio corrente e dall’amministrazione civile: apostolo è l’inviato, chiunque lo invii; l’episcopo è il sovrintendente, il presbitero, mutuato dal giudaismo sinagogale, è l’‘anziano’, diacono significa servitore – e il servizio, diakonìa, diventa un valore centrale nel vissuto cristiano.
Per le funzioni ecclesiali si evita con ogni cura, senza eccezioni, il termine ‘sacerdote’ proprio del regime del sacro. È un regime che Gesù ha delegittimato per sempre. Le cose cambiano soprattutto quando da un cristianesimo di élite, eroico e almeno implicitamente critico verso il mondo circostante, si passa a un cristianesimo di massa. Non tutti hanno scelto di essere cristiani, non tutti si
comportano di conseguenza, non tutti sono testimoni... Allora sorge il monachesimo, per il bisogno di ricordare le esigenze della vita nuova in Cristo. All’inizio non ha a che fare con il sacerdozio: nemmeno nel senso di Ordine sacro. Dopo il Mille però la chiesa comincerà a ordinare quasi tutti i monaci e a ‘monasticizzare’ i preti, con pesanti conseguenze.
duo sunt genera christianorum
Il monaco camaldolese Graziano, autore verso il 1140 di un Decretum molto famoso (che influisce per secoli nella legislazione ecclesiastica, visibilmente almeno fino al Codice di diritto canonico del 1917), appare, se non come l’iniziatore, come il codificatore dei ministeri sacralizzati. E il passo più famoso del Decretum Gratiani è quello che comincia con l’espressione famosa e lapidaria: Duo sunt genera christianorum.
Duo genera: due tipi, due categorie, due classi, due ‘caste’. Ci sono gli «uomini sacri» per definizione; e ci sono i laici, non considerati sacri da nessuno (certo nemmeno da loro stessi), anche se battezzati.
«Ci sono due classi di cristiani. Una è quella che, assegnata al servizio divino e dedita alla contemplazione e alla preghiera, conviene si astenga da ogni stordimento di cose temporali; e questi sono i chierici e i votati a Dio, come i conversi. Infatti klèros in greco corrisponde a sors in latino: perciò uomini di tal sorta si chiamano clerici, cioè eletti per sorteggio. Tutti loro infatti Dio li ha scelti per suoi…».
E quegli altri, invece, a chi appartengono?
A parte il fatto che Graziano, il quale è monaco, considera nella prima classe, anzi in business, solo i monaci – le cose che dice infatti non sembrano interamente riferibili ai preti – dire che Dio ha scelto per sé i chierici trasmette l’idea che tutti gli altri siano ‘massa’ non solo indifferenziata ma profana, siano estranei alle cose di Dio… (no, non diciamo un po’ antipatici a Dio, ma ci manca poco).
«E questi in effetti sono re, cioè governano se stessi e gli altri nelle virtù. E così hanno il regno in Dio: e questo esprime la corona [dei capelli] sul loro capo. Hanno questa corona secondo l’uso della chiesa romana come segno del regno che si attende in Cristo. La rasatura del capo inoltre esprime la rinuncia a tutte le cose temporali. Essi, accontentandosi di avere da mangiare e da vestirsi, senza avere alcuna proprietà fra loro, devono avere tutte le cose in comune».
E poi… ecco i laici: «C’è però un’altra classe di cristiani, e questi sono i laici. Infatti laos in greco è populus in latino. A questi è consentito possedere beni terreni, ma solo per uso […]. A questi è concesso prendere moglie, coltivare la terra, giudicare fra uomo e uomo, sbrigare i processi, mettere le offerte sugli altari, pagare le decime; e così potranno salvarsi, purché abbiano evitato i vizi operando il bene».
La loro fisionomia di cristiani si riduce a una modestissima serie di concessioni e di obblighi, in cui l’essere cristiani non sembra neppure determinante. Ecclesialmente parlando, possono solo mettere le offerte sugli altari e pagare le decime. La santità non è per loro; e tuttavia «potranno salvarsi», grazie, purché si comportino bene, il che significa in sostanza obbedire alle direttive degli uomini di prima classe. E, soprattutto, pagare.
Sappiamo che nonostante l’affinamento del linguaggio ecclesiale dopo il Concilio, nonostante il diffondersi di un concetto biblico importante qual è quello di popolo di Dio, continua ad essere ben difficile per chiunque dare della parola laico una definizione che non sia in negativo, fondata su ciò che non è, su ciò che non può fare.
Un’altra cosa va sottolineata, perché non a tutti è nota. Per noi oggi risulta naturale, dicendo laici, intendere uomini e donne, anzi, sembra che le donne siano laiche proprio per loro natura ‘cromosomica’, e non possano essere altro; invece nei primi secoli della chiesa, con nostro stupore, quando si parla di laici sembra di trovarsi dinanzi a una categoria particolare all’interno dell’insieme dei cristiani, caratterizzata (almeno nella chiesa di Roma) da certi diritti/doveri e prerogative. In breve, i laici hanno il dovere di pagare le decime, e il diritto di accedere «se ne saranno degni» alle cariche ecclesiastiche. Il fatto che vi possano accedere finisce col collocarli praticamente al primissimo livello o livello zero della gerarchia ecclesiastica: un livello indifferenziato e potenziale, da cui comunque sono escluse le donne. Anche perché di solito non sono libere di disporre di sé e dei propri beni, e non pagano nemmeno le decime alla chiesa: sono proprio fuori-casta. Escluse insieme ai minorenni, ai malati di mente e alle persone di condizione servile. (2- continua)
Lilia Sebastiani
Nota
(1) Papa Francesco, La forza della vocazione: la vita consacrata oggi, interv. con Fernando Prado, EDB 2018.