Il compito degli evangelizzatori nell’attuale crisi epocale
Quando Francesco dice di vedere «la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia» suggerisce che a essere gravemente ferita oggi è la stessa vita umana, la sua possibilità, la sua legittimità e il suo significato. È importante domandarsi allora, per discernere che cosa l’ha ferita e continua a ferirla, qual è la battaglia alla quale può riferirsi il Papa. Alla luce di quanto ho potuto leggere e su cui ho potuto riflettere, cercherò d’interpretare — con grande libertà — questa battaglia in due modi, o, se si preferisce, a due livelli di profondità. In primo luogo, potrebbe alludere alla globalizzazione economica e finanziaria, generatrice di esclusione e d’iniquità nel mondo. In secondo luogo, potrebbe riferirsi alle due grandi guerre del XX secolo e ad altre violenze, che hanno segnato il tramonto delle grandi illusioni e ideologie del mondo moderno, e il progressivo avvento di quello che possiamo chiamare il nichilismo postmoderno.
Prima di affrontare queste due interpretazioni, conviene chiarire che il fatto di parlare di malattia o di ferita epocale non significa essere ciechi o indifferenti alle molte e meravigliose realtà, frutto della creatività umana, che popolano il nostro mondo e che ci permettono, in molti ambiti, di vivere meglio che in passato. «A nulla serve — dice Kasper — limitarci a criticare il mondo moderno e le persone di oggi (tra cui ci siamo anche noi); dobbiamo volgerci con misericordia verso la situazione attuale e affermare che, sulla nebbia che avvolge il nostro mondo, e spesso anche sulle tenebre di quest’ultimo, regna il volto di un Padre che è magnanimo e benevolo e conosce e ama ogni singolo individuo, un Padre che sa di che cosa abbiamo bisogno [...]. Per questo la Chiesa non deve fare prediche dall’alto del pulpito a quanti l’ascoltano con l’atteggiamento di chi crede di sapere tutto». È vero, un atteggiamento meramente critico, esercitato da una pretesa onniscienza screditatrice, è sterile e ingiusto. Ma, allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere che oggi è in atto una crisi grave, profonda. E bisogna cercare di discernerla evangelicamente, evitando avvilenti pessimismi ma anche falsi ottimismi. Queste considerazioni potrebbero essere un primo elemento da tener presente nella nostra Facoltà «ospedale da campo», nella nostra teologia attenta alla finalità evangelizzatrice della Chiesa.
Passiamo ora al primo livello d’interpretazione. Seguendo gli orientamenti del secondo capitolo della Evangelii gaudium e del messaggio del 1° gennaio in occasione della xlVII Giornata mondiale della pace, si può pensare che la ferita del mondo attuale abbia a che vedere con una crisi dell’economia, ossia, del significato che questa ha ormai assunto per l’umanità: non più l’attività attraverso la quale gli individui e le società usano e gestiscono le risorse per soddisfare i propri bisogni, ma quella comprensione totalizzante e riduttiva dell’uomo come mero homo œconomicus, un essere di produzione e consumo, asservito a desideri e appetiti elementari, stimolati dall’insaziabile strategia competitiva e commerciale di un “macchinario” che genera esclusione e sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. A questa triste realtà — nella quale l’essere umano si trasforma in un oggetto monouso, un “avanzo” — fa insistentemente riferimento Papa Francesco: «Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”» (Evangelii gaudium, n. 53).
In questa situazione, che si è globalizzata, i poveri subiscono l’iniquità. E i più ricchi subiscono, molte volte senza saperlo, la schiavitù di «nuovi idoli... [il] feticismo del denaro e [la] dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano» (ibidem, n. 55). A loro si rivolge in modo particolare Francesco: «La mia parola non è quella di un nemico né di un oppositore. Mi interessa unicamente fare in modo che quelli che sono schiavi di una mentalità individualista, indifferente ed egoista, possano liberarsi da quelle indegne catene e raggiungano uno stile di vita e di pensiero più umano, più nobile, più fecondo, che dia dignità al loro passaggio su questa terra» (ibidem, n. 208). Seguendo questa linea di pensiero, possiamo domandarci con Kasper: «Di che cosa ha bisogno un essere umano in quanto essere umano e che cosa gli corrisponde per poter vivere degnamente, il che vuol dire anche: con misurata autodeterminazione?». E afferma: «quello che corrisponde all’uomo come uomo non sono né possono essere soltanto beni materiali... Quello che corrisponde all’uomo in quanto uomo, e ciò significa in quanto essere libero, è, soprattutto, il riconoscimento della sua dignità umana. Quello che si deve a ogni essere umano in virtù della sua dignità sono il rispetto, l’accettazione e l’affetto personali».
A partire da questo primo avvicinamento alla ferita epocale, facciamo un ulteriore passo e affrontiamo il secondo livello d’interpretazione della stessa. In realtà si tratta di ciò che si nasconde dietro la prima interpretazione: nella crisi dell’economia si manifesta una crisi antropologica, una crisi riguardo alla comprensione che l’uomo attuale ha di se stesso. Anche di questo Papa Francesco parla nell’intervista, quando afferma: «Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi». [...]
È qui che la Chiesa, attraverso una teologia attenta e sensibile al dramma epocale, alla crisi antropologica, cercherà di sviluppare una razionalità allargata, ampia, inclusiva, che, a partire dalla fede, tocchi e curi la razionalità ferita dell’uomo attuale e gli presenti un orizzonte più grande di quello del nichilismo. Tale teologia, che può contribuire alla legittimazione dell’autenticamente umano, o dell’umano più che umano, non si dovrà allora presentare come “teologia da tavolino”, ossia, come un discorso teorico già conosciuto e decontestualizzato, astratto. Come afferma Gagey, «alla messa in discussione dell’uomo da parte del nichilismo, il credente sa che cosa rispondere. Sa che il fine ultimo dell’uomo sta nel Dio che gli dà Vita (san Giovanni), che gli apre le porte del regno (sinottici), che lo giustifica (Paolo). Ma oggi queste risposte suonano come risposte di catechismo dal momento che ancora non sono state pensate, ossia, non sono state sperimentate ed enunciate nuovamente a partire da un confronto rigoroso con il contesto contemporaneo in ciò che esso ha d’inedito nella storia dell’umanità. Quel che serve, come direbbe De Lubac, è l’intelligenza, per mezzo della fede, della condizione dell’uomo post-moderno.[…]
Infine, a partire da questa esperienza dell’amore di Gesù, la risorsa della vita teologale: fede, speranza e carità. Se a partire da esse riaffermiamo — come pensava Pascal — che l’uomo supera infinitamente l’uomo, allora potremo sospettare — come sostiene Bertrand Vergely — che il nichilismo attuale è mosso anch’esso — come noi credenti — sebbene oscuramente e senza riconoscerlo, dalla sete di assoluto: «non vuole nulla perché vuole tutto». Questa scoperta può segnare l’inizio di un incontro evangelizzatore inatteso e inedito con l’uomo postmoderno, incontro a cui potrebbe guidarci, con ineguagliabile maestria, il nichilismo evangelico di san Giovanni della Croce: «Per poter gustare il tutto, non cercare il gusto in nulla. Per poter possedere il tutto, non voler possedere nulla. Per poter essere tutto, non voler essere nulla. Per poter conoscere il tutto, non voler sapere nulla...». Da queste parole traspare il paradosso centrale della nostra fede: la pienezza sovrabbondante di Dio — il tutto, l’assoluto — si mostra e si offre a noi nel vuoto, o meglio nello svuotamento da ogni idolatria e da ogni antropolatria. Questo paradosso, questa razionalità paradossale, deve abitare e strutturare il pensiero teologico, rendendolo pienamente teologale.
Perciò, a mio giudizio, il riferimento a san Giovanni della Croce può risultare decisivo per far sì che la teologia adempia oggi alla sua funzione evangelizzatrice. Come segnala bene Alain Cugno, nel pensiero del mistico spagnolo c’è un’antropologia incentrata sul desiderio e sull’azione divinamente annichilatrice delle tre virtù teologali sulle potenze dell’anima: la speranza svuota la memoria, la fede provoca tenebre nell’intelletto, la carità crea nudità nella volontà. Vuoto, tenebre, nudità: si tratta di un nichilismo anti-idolatrico che, nella sua verità più profonda, è, paradossalmente, un anti-nichilismo, poiché in esso si realizza efficacemente la partecipazione della creatura umana alla kenosis pasquale di Cristo. Pertanto il suo compimento non sta nella distruzione bensì in una eminente decostruzione teologale che libera il desiderio dalla sua naturale immanenza per aprirlo paradossalmente, attraverso l’assenza dell’Amato, a una trascendenza che anticipa, fin d’ora, l’anelata unione con Dio, l’agognata coincidenza tra desiderio e pienezza. Questo evento ineffabile, lungi dal farci abbandonare la razionalità, ci permette di ritrovarla, ma ora allargata, ampliata, rinnovata a partire da Dio; e ci consente di sperimentare che ciò che sembrava superficiale e insipido ha, in realtà, una profondità infinita. Tutta la sfida sta nel riuscire a rendercene conto, nel diventare attenti a questo “non so che” di un sapore molto particolare e tenue, appena percettibile, un sapore dell’ordine del dilettevole e gioioso.
Mettendo in atto queste e altre risorse provenienti dalla sua ricchissima tradizione, la teologia renderà desiderabile tutto ciò che è cristiano, non solo a livello astratto, ma anche come antropologia vissuta, vissuta nella comunione festosa, in una nuova «immaginazione della carità» (Giovanni Paolo II). Jean-Luc Marion ha detto, in una recente intervista, che «per vivere umanamente, bisogna vivere un po’ divinamente». Questo vivere un po’ divinamente fiorisce là dove si riconosce che la creatura umana è divina, ossia amata, amata per qualcosa che la trascende. «L’amore non è qualcosa che dobbiamo difendere noi, ma qualcosa che ci difenderà... È così che si esce dal nichilismo».
Concludo questa riflessione, volta a proporre una teologia evangelizzatrice ed evangelizzata, evangelizzatrice perché evangelizzata anche dalla crisi epocale, il cui punto di partenza è la Chiesa come ospedale da campo, che cerca di discernere la ferita essenziale dell’uomo attuale, e che, alla fine, cerca di guarire e di ricreare la dignità dell’umano aprendolo, a livello individuale e comunitario, a un plus dilettevole di vita e di amore. L’essere umano non è abbandonato e solo in un universo indifferente dove nulla ha senso. Al contrario: «La verità più profonda sull’essere umano — afferma Kasper — è che Dio, nel suo amore, ci ha creati miracolosamente e che poi, quando ci siamo allontanati da lui, non ci ha dati per persi, ma anzi ci ha ristabiliti e ha ristabilito la nostra dignità in un modo ancora più meraviglioso... Questo messaggio del Dio della compassione lo possiamo proclamare in modo credibile solo se anche il nostro linguaggio è segnato dalla compassione».
07 maggio 2019
di Fernando J. Ortega