martedì 5 febbraio 2019

Il libraio, Alberto Maggi: Fare il male nel nome di Dio, travisando la sua Parola

"Finché le religioni non avranno il coraggio di ammettere e dichiarare ufficialmente che il testo sacro al quale esse s’ispirano, insieme a pagine indubbiamente sublimi, contiene anche elementi spuri, scorie che ne infettano la grandezza e avvelenano l’animo di chi ispira il proprio comportamento a una scrittura ritenuta sacra, finché non ci sarà questo passo, le cosiddette “religioni del Libro” saranno sempre causa di sofferenza e di morte, in nome di Dio...". 


PAROLA DI DIO? DIPENDE…

Finché le religioni non avranno il coraggio di ammettere e dichiarare ufficialmente che il testo sacro al quale esse s’ispirano, insieme a pagine indubbiamente sublimi, contiene anche elementi spuri, scorie che ne infettano la grandezza e avvelenano l’animo di chi ispira il proprio comportamento a una scrittura ritenuta sacra, finché non ci sarà questo passo, le cosiddette “religioni del Libro” saranno sempre causa di sofferenza e di morte, in nome di Dio. Il motivo, infatti,per il quale si è permesso, giustificato e persino comandato ogni crimine in nome di Dio, è che “così è scritto”, e le sacre scritture, da fonte di vita si trasformano in strumenti di sofferenza e di morte.

Ma non è sufficiente spurgare le scritture da arcaici elementi tribali, dalle superstizioni, dai tabù, dall’atavico odio etnico, occorre anche che quel che è stato scritto sia rettamente e continuamente interpretato, altrimenti una comprensione meramente letterale della scrittura anziché comunicare vita, può causare morte, come ben si rese conto l’apostolo Paolo (“La lettera uccide”, 2 Cor 3,6).

Come “chi non ama non ha conosciuto Dio”(1 Gv 4,8), così tutto quel che non è per il bene dell’uomo, non proviene da Dio, anche se è scritto e al Signore viene attribuito. Certamente per compiere questo passo ci vuole molto coraggio, e Gesù l’ha avuto, pagando con la vita. Il Cristo ha avuto la temerarietà di dichiarare che non tutto quel che è scritto nei sacri testi proviene da Dio. Per questo non ha posto un libro,per quanto sacro, quale codice di comportamento per i credenti, bensì il bene dell’uomo.

Per Gesù non basta che un testo sia considerato sacro, occorre anche che l’uomo venga considerato sacro. Il criterio di quel che è bene e quel che è male, permesso o no, non si basa per Gesù sull’osservanza o no del Libro, ma sulla pratica dell’amore. Per questo Gesù ha relativizzato l’importanza della Legge divina, attribuendo a Mosè, e non a Dio, alcune parti della stessa: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così”(Mt 19,8). Secondo la tradizione religiosa, ogni singola parola della Legge veniva da Dio stesso. Mosè aveva avuto il semplice ruolo di esecutore della volontà di Dio, ed era inammissibile affermare che alcune parti provenivano da Mosè anziché dal Signore (“Chi assicura che la Torah non viene dal cielo, almeno in quel testo e che Mosè e non Dio l’ha detto…verrà sterminato in questo mondo e nel mondo a venire”, Sanhedrin B. 99°). Lo scontro più clamoroso tra Gesù e il Libro è stato sul tema, importantissimo per i Giudei, delle regole di purità rituali che si facevano discendere direttamente da Dio.

Nel Libro del Levitico, considerato Parola di Dio, sono elencati gli animali che si possono mangiare perché considerati puri e quelli dei quali è proibito cibarsi in quanto immondi (Lv 11). Per Gesù, la purezza o meno dell’individuo non consiste in quel che mangia, ma nel suo comportamento: “Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?… Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo” (Mc 7,19.20), smentendo, di fatto, il Levitico (“Così dichiarava puri tutti gli alimenti”,Mc 7,19). Pertanto, i testi sacri si rivelano nel loro più vero e profondo significato solo se letti nell’ottica dello Spirito che li ha ispirati, ovvero l’amore incondizionato del Creatore verso le sue creature. Per questo la Parola di Dio si svela solo a quanti mettono il bene dell’altro al primo posto nella loro esistenza. Quando ciò non accade, si rischia di disonorare la persona per onorare Dio (Mc 7,10-12) e, per essere fedeli al testo scritto, di tradire l’uomo vivente.

SACRAMENTI E CUPIDIGIA

“Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina” (At 3,6). Così disse Pietro allo storpio presso la porta del tempio di Gerusalemme, e l’infermo riprese non solo a camminare, ma addirittura a saltare, lodando Dio (At 3,8). Pietro, fedele all’insegnamento del suo Maestro di non accumulare tesori sulla terra (Mt 6,19), ha comunicato vita a chi la sentiva mancare. Poi i successori di Pietro hanno progressivamente abbandonato l’insegnamento di Gesù tradendolo spudoratamente, e la Chiesa si è trovata non solo a non riuscire a far camminare quanti ne erano impediti, ma, sovraccarica di oro e d’argento, è divenuta un ostacolo per quanti volevano procedere spediti nel cammino del vangelo.

Infatti, già dai primi secoli, dimentichi dei severi moniti di Gesù sulla tentazione della ricchezza (Lc 6,24), i papi, e con loro tutta la gerarchia, hanno fatto la loro tragica scelta. Gesù ha ammonito che “Non potete servire a Dio e mammona” (Lc 16,13). A queste parole tanto chiare e severe, “i farisei, che erano attaccati al denaro, si beffavano di lui” (Lc 16,14). Ma la Chiesa gerarchica non solo ignorò le parole di Gesù, ma fece il contrario, e senza esitare scelse mammona, il denaro, l’interesse, la convenienza, e per arricchirsi usò ogni mezzo, cominciando dalla menzogna. Infatti, con spregiudicatezza costruì un falso documento che ebbe gravi ripercussioni su tutta la cristianità.

Con la “Donazione di Costantino”, la Chiesa affermò che l’imperatore aveva donato a Papa Silvestro (+ 335) tutti i domini dell’impero. E la Chiesa, presa dall’ingordigia della ricchezza, si allontanò sempre più dal vangelo: chiamata a servire i poveri si fece servire da questi. Dimentichi di un Gesù che aveva detto che non era venuto per farsi servire ma per servire (Mt 20,24-28), la Chiesa si trasformò in una struttura di potere: il papa pensò a se stesso come imperatore o re (il papa-re), e ovviamente i cardinali erano principi, i vescovi conti, e per gli umili preti era comunque una notevole promozione sociale ed economica arrivare a essere parroci.