L’amore che Dio dà all’uomo per salvarlo
È un «piccolo trattato sulla divina e sulla umana misericordia» il volume Il volto della misericordia (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2018, pagine 187, euro 9,90) scritto dal predicatore della Casa pontificia. Il libro è dedicato a Papa Francesco «che ha messo la misericordia al centro della vita e della riflessione della Chiesa». Pubblichiamo il capitolo dedicato alla conversione di Matteo.
C’è qualcosa di commovente nella chiamata di Matteo il pubblicano (Matteo, 9, 9-13). È una pagina autobiografica, la storia dell’incontro con Cristo che cambiò la sua vita. «Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì». Il Caravaggio ci ha lasciato una tela famosa su questa scena. Il futuro apostolo è seduto a un tavolo. Sopra di esso, oltre alle monete, ci sono penna e calamaio (gli serviranno un giorno per un altro scopo). Una luce parte dal volto di Cristo, segue il movimento della sua mano e cade, illuminandoli, sui volti di Matteo e degli altri che sono seduti con lui al tavolo delle imposte. Un modo suggestivo per dire che la chiamata esteriore è accompagnata da una luce interiore. Senza questa, del resto, non si spiegherebbe la prontezza con cui Matteo “si alza”, lascia tutto e segue Cristo, senza bisogno di spiegazione alcuna.
Il dialogo invisibile tra Cristo e il futuro apostolo è tutto affidato al gesto delle rispettive mani. Quella di Cristo, in piedi, si protende in direzione di Matteo, in segno però più di elezione che di comando (nessun indice puntato verso Matteo, ma solo una mano tesa). A questo gesto corrisponde quello di Matteo che si porta la mano al petto, come chi si stupisce della scelta e dice: «Io? Sei sicuro che vuoi proprio me?».
Di fronte al rifiuto del giovane ricco di seguirlo, Gesù aveva osservato con tristezza che «è più facile che un cammello entri per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli». Agli apostoli che gli chiedono: «E chi potrà salvarsi allora?», egli rispose: «Impossibile agli uomini, non a Dio» (Matteo, 19, 24-26). La chiamata di Matteo è la riprova che a Dio è possibile salvare anche un ricco. Il confronto con l’invito rivolto al giovane ricco ci dice qualcosa anche di Matteo, della sua apertura a Dio. Non era affatto scontato che Matteo rispondesse con tanta prontezza alla proposta di Gesù. All’invito di Gesù: «Vieni e seguimi», il giovane ricco «se ne andò triste»; Matteo «si alzò e lo seguì».
Il comportamento di Matteo ha dell’inverosimile. Possiamo immaginarcelo seduto, intento a riscuotere i dazi, a contemplare rapito le monete che i commercianti depongono sul tavolo. È al massimo dell’euforia, quando tutto ciò che fino a quel momento ha dato senso alla sua vita perde valore. Matteo si alza, abbandona ogni cosa e segue Gesù. Non ha assistito ad alcun miracolo; siamo quasi agli inizi del ministero pubblico di Gesù ed egli non è ancora famoso: come si spiega tanta prontezza? Caravaggio ha colto nel segno: lo sguardo di Gesù. Le traduzioni dicono: «lo vide», ma forse meglio sarebbe tradurre «lo guardò». Il Venerabile Beda dice che lo guardò «con sguardo di misericordia e di elezione», miserando et eligendo: le parole che Papa Francesco ha scelto come motto del suo stemma papale.
L’episodio della chiamata di Matteo non è ricordato principalmente per l’importanza personale che rivestiva per l’autore del Vangelo, tanto è vero che anche Marco e Luca lo riferiscono, chiamando Matteo con il suo secondo nome di Levi (cfr. Marco, 2, 14; Luca, 5, 27). L’interesse è dovuto alla frase che Gesù pronunciò nel corso del «grande banchetto» che Matteo offrì «nella sua casa», prima di congedarsi dai suoi ex colleghi di lavoro, «pubblicani e peccatori». Come spesso, un episodio evangelico è tramandato grazie a un logion di Gesù legato a esso. Il fatto serve da cornice al detto. Alla reazione scandalizzata dei farisei per essere entrato in casa di un pubblicano e aver mangiato con i peccatori, Gesù risponde: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Noi siamo talmente assuefatti alle parole del Vangelo che le troviamo scontate e naturali, anche quando esse sono obbiettivamente “scandalose” e dovrebbero almeno suscitarci degli interrogativi. Dio preferirebbe i peccatori ai giusti? Allora a che scopo la Legge e i comandamenti? Sono proprio le domande inquietanti che ci conducono a scoprire, a volte, le risposte liberanti del Vangelo. La spiegazione della frase di Cristo è semplice. Gesù non è venuto a chiamare i giusti (come se esistessero giusti prima di lui e senza di lui), ma è venuto a fare i giusti. Scrive l’apostolo nella lettera ai Romani: «Non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue» (Romani, 3, 22-25).
Gesù non nega che esistesse prima di lui una certa giustizia, «la giustizia che deriva dall’osservanza della legge» (cfr. Filippesi, 3, 6); riconosce volentieri tale giustizia nei farisei, che continua, perciò, a chiamare, senza ironia, “i giusti”. Solo cerca di spiegare loro che questa giustizia non basta a salvare perché non può dare la vita. Doveva servire solo a fare «desiderare la grazia» e riconoscerla al momento della sua venuta. Fallito questo scopo, si trasforma in pseudo-giustizia, in giustizia che perde, anziché salvare. Fu il dramma degli oppositori di Cristo; di essi l’apostolo dice mestamente che «ignorando la giustizia di Dio, cercano di stabilire la propria» (Romani, 10, 3). Tutto questo lo vediamo già nella vita di Matteo. L’incontro con Cristo, da «pubblicano e peccatore» lo ha reso «giusto» e rendendolo giusto ha fatto di lui una persona nuova, un apostolo di Cristo. Se fosse rimasto un esattore delle tasse, Caravaggio (per nominare la più piccola delle sue glorie) non si sarebbe interessato di lui, il mondo non saprebbe neppure che è esistito un certo Matteo detto anche Levi.
Ci resta da chiarire un punto oscuro. Alla luce di quello che abbiamo detto, che significa la frase di Osea, ripresa da Cristo: «Voglio l’amore e non il sacrificio»? Forse che è inutile ogni sacrificio e mortificazione e che basta amare perché tutto sia a posto? Non manca chi interpreta proprio così e lo insegna agli altri. Di questo passo si può arrivare a rigettare tutto l’aspetto ascetico del cristianesimo, come residuo di una mentalità afflittiva o manichea, oggi superata.
Di nuovo, una domanda inquietante diventa occasione di una scoperta illuminante. Anzitutto c’è da notare un profondo cambiamento di prospettiva nel passaggio da Osea a Cristo. In Osea, il detto si riferisce all’uomo e a ciò che Dio vuole da lui. Dio vuole dall’uomo amore e conoscenza, non sacrifici esteriori e olocausti di animali. Sulla bocca di Gesù, il detto si riferisce invece a Dio. L’amore di cui si parla non è quello che Dio esige dall’uomo, ma quello che dà all’uomo. «Misericordia io voglio e non sacrificio», vuol dire: voglio usare misericordia, non condannare. Il suo equivalente biblico è la parola che si legge in Ezechiele: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva» (33, 11). Dio non vuole “sacrificare” la sua creatura, ma salvarla.
Con questa precisazione, si capisce meglio anche il detto di Osea. Dio non vuole il sacrificio “a tutti i costi”, come se si dilettasse nel vederci soffrire; non vuole neppure il sacrificio fatto per accampare diritti e meriti davanti a lui, o per malinteso senso del dovere. Vuole però il sacrificio che è richiesto dal suo amore e dall’osservanza dei comandamenti. «Non si vive in amore senza dolore», dice la Imitazione di Cristo (III, 5) e la stessa esperienza quotidiana lo conferma. Non c’è amore senza sacrificio. In questo senso, Paolo ci esorta a fare dell’intera nostra vita «un sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Romani, 12, 1).
Sacrificio e misericordia sono entrambi cose buone, ma possono diventare l’uno e l’altra cose cattive, se mal ripartite. Sono cose buone, se (come ha fatto Cristo) si sceglie il sacrificio per sé e la misericordia per gli altri; diventano tutte e due cose cattive se si fa il contrario e si sceglie la misericordia per sé e il sacrificio per gli altri. Se si è indulgenti con se stessi e rigorosi con gli altri, pronti sempre a scusare noi stessi e spietati nel giudicare gli altri. Non abbiamo proprio nulla da rivedere, a questo riguardo, della nostra condotta?
Non possiamo concludere il commento della chiamata di Matteo senza dedicare un pensiero affettuoso riconoscente a questo evangelista che ci accompagna così spesso, con il suo Vangelo, nel corso dell’anno liturgico. Lo facciamo con alcuni versi a lui dedicati da Paul Claudel (il poeta dice di preferire per Matteo il simbolo del bue, anziché quello più tradizionale dell’uomo o dell’angelo): «È Matteo, il pubblicano, che ebbe per primo l’idea, conoscendo la forza di uno scritto, di fissare in nero sulla carta Gesù, ciò che esattamente aveva detto e i loro occhi avevano contemplato. Per questo, riprendendo lo strumento che serviva un tempo ai suoi calcoli, coscienzioso, sereno, imperturbabile come un bue, comincia ad arare il suo gran campo di carta bianca. Traccia un solco, torna a capo, ne inizia un altro, così che nulla sia omesso di quello che la memoria gli offre e il santo Spirito gli detta. Non per il suo tempo solamente, ma per tutta la Chiesa che verrà».
di Raniero Cantalamessa