mercoledì 28 novembre 2018

SERMIG, Flaminia Morandi: Al posto tuo

 Prega per me! Ti ricordo nelle mie preghiere!, dicono i cristiani gli uni agli altri e a chi non crede, per cercare di toccarli con l’amore che ha toccato loro. Non è una frase indifferente: al contrario, è carica di una potenza soprannaturale di cui forse non è del tutto consapevole chi la pronuncia. 

Pregare per qualcuno è una forma di identificazione, un far proprie le sofferenze degli altri, una sorta di solidarietà nella sofferenza che ha per effetto quasi uno “scambio” mistico. Nei Detti dei Padri del deserto abbondano storie di questo tipo: un monaco pecca, l’altro finge di avere commesso anche lui lo stesso peccato. Fa penitenza per l’altro, fino a liberarlo dal suo peccato ricorrente. Lo scrittore Martin Buber racconta di rabbi Sussja, che sentiva come propri i peccati di chi incontrava: «Sono disceso da tutti i gradini, ho legato la radice della mia anima alla radice della sua», diceva. Prendeva la colpa dell’altro su di sé fino a condannare se stesso. Nel III secolo Niceforo aveva avuto una lunga amicizia con il presbitero Sapricio, che poi era naufragata per un motivo meschino. Nonostante tutti gli sforzi di Niceforo, Sapricio si era sempre rifiutato di far pace. Quando era scoppiata la persecuzione, Sapricio aveva fatto apostasia: Niceforo, l’amico rifiutato, aveva dato la vita al suo posto ed era morto martire per la sua salvezza. 

Questa storia aveva profondamente segnato Mat’ Marija, al secolo Elizaveta Jur’evna Scobkova, un’intellettuale russa fuggita dalla Russia bolscevica. A Parigi, al tempo della furia nazista, aveva fondato un centro di accoglienza salvando numerosi ebrei, fornendo loro documenti falsi, soprattutto certificati di battesimo falsi. Era stata arrestata e deportata a Ravensbruck e lì, il venerdì santo del 1945, si era offerta al posto di una donna a morire nella camera a gas. Senza arrivare al sacrificio estremo della vita per l’altro, come Cristo, il primo martirio di scambio è quello del padre spirituale. San Ioannikos il Grande, IX secolo, aveva tra i figli spirituali una monaca tormentata dal pensiero della lussuria. Un giorno le disse di stendere una mano sul suo collo e pregò fortemente che la tentazione della monaca ricadesse su di lui. E così fu. Noi oggi intendiamo il padre spirituale come uno che elargisce consigli personali da una distanza di sicurezza, ma nella tradizione cristiana non è così: davanti a Dio egli è un anadochos, un garante, uno che prende sulle proprie spalle il carico dell’angoscia e della colpa dei suoi figli spirituali. Uno che si offre a rispondere per loro nel giudizio, uno che li ama come se stesso. Anche noi comuni cristiani, quando diciamo «prego per te», inconsapevolmente ci offriamo a prendere su di noi il dramma dell’altro. Se non lo facessimo, non ci sarebbe Chiesa.