Da bambini, metter le mani nella terra aveva un fascino irresistibile. Sporcarsi e scavare, rompere la crosta dura del mondo, vedere che cosa c’è sotto, provare la consistenza di ciò che ci sostiene.
Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo (Matteo 13, 44). Quello che Gesù descrive non è più un gioco da bambini, eppure la gioia della sorpresa è la stessa. Il contadino ne è pieno, forse perché l’esperienza l’ha istruito: non c’è nulla di automatico nel trovare un tesoro. Crescere non comporta forse un disincanto? Semmai, il fatto che Gesù osservasse e accogliesse i più piccoli — e non solo contadini, pastori, pescatori, seminatori, donne di casa, giudici, rabbini o mercanti — dice qualcosa del regno di Dio. Così funzionano le parabole: irrompe nella vita degli ascoltatori l’inconsueto. All’adulto vacilla il mondo che credeva di dominare, come se tutto fosse da imparare da capo. Qualcuno non può tollerarlo e se ne va: ucciderebbe volentieri il provocatore. Chi non è rigido invece rimane, fiutando piuttosto l’affare e il fascino di un’innocenza ritrovata. C’è da stupirsi ancora.
Il 14 settembre dell’anno 320, a Gerusalemme veniva presentata ai fedeli “la vera croce” del Signore e cinque anni dopo, nello stesso giorno, si inaugurava la basilica del Santo Sepolcro. Appena avuta la libertà di vivere da cristiani pubblicamente — l’editto di Costantino è solo del 313 — nella città santa si iniziò dunque a scavare. La tradizione indica Flavia Giulia Elena, madre dell’imperatore, come la vera anima di quelle ricerche, per cui da allora, ogni 14 settembre, i cristiani celebrano il trionfo della croce. Fede che, evidentemente, non induce solo a guardare il cielo: volge invece di nuovo alla terra. Essa è tutt’altro che vuota, diversa da come il contadino si è abituato a vederla. L’archeologo non la rivolta allo stesso modo. Ai bambini è dunque concesso come un presentimento di ciò che la realtà tutta ci riserva.
Scavare. Si può vivere consumando notizie, incontri, responsabilità, piaceri, dolori — uno dopo l’altro — senza venirne modificati. Se colpiti nel cuore da ciò che riguarda Gesù Cristo, invece, la superficialità è interrotta.
Inutile nascondersi che, trattando del Regno, il Maestro parlasse anche di sé. Il mistero della sua identità scatena una curiosità raffinatissima, riappassiona alle cose della vita, infonde la certezza che sotto il sole esiste qualcosa di nuovo. La Bibbia aveva ospitato la voce di chi si rassegna al contrario: c’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Ecco, questa è una novità»? (Qoelet 1, 10); ma allora quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa (Qoelet 1, 3-4).
«Fare esperienza di qualcosa — ha scritto Martin Heidegger nel secolo scorso — si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio, significa che quel qualche cosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e trasforma».
Scavare diventa un’esigenza: là dove procedevamo sicuri, nel suolo che ogni giorno calpestiamo, si nasconde il mistero che tutto riscatta. Sant’Elena suggerisce che come all’archeologo è naturale procedere meticoloso, paziente, umile, determinato, così al cristiano è di vitale necessità impegnare schiena, mani, occhi, attenzione — ogni energia — per rinvenire nella sua terra le tracce del Dio vicino.
Alla precedente citazione si accosta allora senza forzature una convinzione di Simone Weil: «Se con vera attenzione si cerca di risolvere un problema di geometria e in capo a un’ora si è al punto di partenza, in ogni minuto di quell’ora si è comunque compiuto un progresso in un’altra dimensione, più misteriosa. Senza che lo si avverta o lo si sappia, quello sforzo in apparenza sterile e infruttuoso ha portato più luce nell’anima. Un giorno se ne ritroverà il frutto nella preghiera. E forse lo si ritroverà anche in un qualsiasi ambito dell’intelligenza, magari del tutto estraneo alla matematica».
«Adorare», insegnava Benedetto xvi ai giovani, in latino «significa portare alla bocca, baciare»; in greco «si usa un’espressione che richiama il prostrarsi a terra, confessando così col corpo un senso di autentica sproporzione». Segni fisici che, come spesso accade, dicono più di qualsiasi parola. Ebbene, da secoli la croce ritrovata è, soprattutto, croce adorata: legno da toccare, reliquia da venerare, materia che salva. Essa infatti è documento della Passione: parola che significa contemporaneamente amore e sacrificio, libertà e offerta di sé.
Teodoreto di Ciro, morto intorno al 457, riferendo una versione dei fatti di Gerusalemme divenuta comune, documenta questa originaria sensibilità: «Quando la tomba, che era stata così a lungo celata, fu scoperta, furono viste tre croci accanto al sepolcro del Signore. Tutti ritennero certo che una di queste croci fosse quella di nostro Signore Gesù Cristo, e che le altre due fossero dei ladroni che erano stati crocifissi con Lui. Eppure non erano in grado di stabilire a quale delle tre il Corpo del Signore era stato portato vicino, e quale aveva ricevuto il fiotto del Suo prezioso Sangue. Ma il saggio e santo Macario, governatore della città, risolse questa questione nella seguente maniera. Fece sì che una signora di rango, che da lungo tempo soffriva per una malattia, fosse toccata da ognuna delle croci, con una sincera preghiera, e così riconobbe la virtù che risiedeva in quella del Signore. Poiché nel momento in cui questa croce fu portata accanto alla signora, essa scacciò la terribile malattia e la guarì completamente».
Trattare narrazioni simili con senso di superiorità è per noi una naturale tentazione. Per secoli i cristiani ebbero nelle reliquie, specie dei martiri, i più grandi tesori. Certo, l’intelligenza richiede che ci si guardi dalla superstizione, si denunci l’idolatria, non si sconfini nella magia, ma non è segno di emancipazione il vivere di sola mente, come uscendo da un corpo che con tutta la carica dei sensi vuole incontrare la verità.
Adorare la croce è avere più che un’opinione su Dio: significa abbracciare l’umanità del Salvatore, tenerla presso di sé, aderirvi con ogni fibra del proprio essere. Un amore fisico perché umano, reale, coinvolgente. Esso predispone ad abbracciare la fisicità del fratello, a vedere, baciare, servire Cristo nel povero. Così fu, ad esempio, per san Francesco: «Felice di questa rivelazione e divenuto forte nel Signore, mentre un giorno calcava nei paraggi di Assisi, incontrò sulla strada un lebbroso. Di questi infelici egli provava un invincibile ribrezzo; ma stavolta, facendo violenza al proprio istinto, smontò da cavallo e offrì al lebbroso un denaro, baciandogli la mano. E ricevendone un bacio di pace, risalì a cavallo e seguitò il suo cammino. Da quel giorno cominciò a svincolarsi dal proprio egoismo, fino al punto di sapersi vincere perfettamente, con l’aiuto di Dio».
di Sergio Massironi