giovedì 7 giugno 2018

CORPO ED ETERNITÀ IN SAN BONAVENTURA di Padre Domenico Poletti

Una riflessione sul senso e il destino del corpo umano dopo la morte è essenziale perché riguarda
ogni persona umana nel suo destino umano ed eterno, che ne sia o non ne sia consapevole. Queste che presentiamo sono alcune brevi considerazioni a partire dal pensiero del Dottore Serafico che, alla luce della Rivelazione biblica, sottolinea l’inscindibile unità tra anima e corpo.

Nei suoi scritti Bonaventura torna con insistenza sull’unità della persona umana che è corpus. In un contesto culturale come quello del suo tempo - che tendeva a contrapporre dualisticamente la dimensione corporea-materiale a quella spirituale svincolata dalla materia -, egli, ricentrando la teologia sulla Parola di Dio, ribadisce che la contrapposizione tra anima e corpo è estranea alla tradizione biblica. Anzi, con le sue riflessioni sull’incarnazione del Verbo eterno del Padre, dà un impulso decisivo alla comprensione del cristianesimo come una “religione corporale”. 

Il Dottore Serafico respinge ogni considerazione negativa della corporeità: respinge con grande chiarezza, per esempio, l’idea che la procreazione attraverso la congiunzione dei due sessi sia una conseguenza del peccato. Ritiene invece che sia la struttura naturale-personale della creazione che nell’unità dei corpi dona piacere e vita (in II librum Sententiarum). Il corpo umano per il Nostro è il più completo fra tutti i corpi, centro del mondo sensibile e sintesi della creazione. Questa idea sarà ripresa, valorizzata e sviluppata, oltre due secoli più tardi, dalla riflessione cristiana degli umanisti. Per spiegare l’unità tra corpo ed anima, Bonaventura attinge al pensiero filosofico medievale che si rifà prevalentemente ad Aristotele, ma lo rielabora in chiave personale. 

Il fondamento biblico su cui poggia la sua riflessione teologica lo spinge ad andare oltre l’ilemorfismo aristotelico, dell’unità tra materia e forma come due principi separati; la stessa anima per lui non è solo “forma”, ma sostanza trascendente del corpo, cifra della dignità della persona umana. L’uomo è pertanto essenzialmente spirito e materia nell’unità sostanziale del corpo, tanto che l’uomo non ha un corpo ma è il proprio corpo. 

Quanto al destino del corpo, il Dottore serafico è molto chiaro nell’affermare che l’anima, la realtà che sopravvive al momento della morte, è incompleta e, quindi, non pienamente appagata fino alla risurrezione della carne: «Se infatti essenzialmente l’anima ha un’inclinazione verso il corpo, mai essa si quieta completamente, a meno che non le venga ridato il corpo. I filosofi ignorano invece l’eternità certa» (da Collationes in Hexaemeron sive illuminationes Ecclesiae). Pur con un linguaggio datato, Bonaventura cerca di esprimere l’unità dell’anima con il corpo, non più visto come una prigione o un decadimento, ma come espressione della persona. Senza il corpo non c’è la persona, non c’è nemmeno l’anima nella sua perfezione. 

La verità che il corpo è destinato a risorgere non è solo una verità di fede sul fondamento della Rivelazione, ma anche una verità antropologica sul fondamento del fenomeno uomo. Bonaventura riconosce l’immortalità dell’anima - meglio dire l’incorruttibilità dell’anima, perché l’immortalità è da riservarsi solo a Dio - non per dipendenza dal pensiero greco, ma per una esigenza intrinseca al cristianesimo. L’incorruttibilità dell’anima e la risurrezione dei morti (della carne, del corpo) non sono due visioni alternative, come spesso si è sostenuto - soprattutto oggi diversi autori mettono in contrapposizione l’antropologia biblica unitaria e l’antropologia greca dualista -, ma sono da integrare all’interno di una visione fondata sulla Risurrezione di Gesù Cristo. 

Va riconosciuto che, tra la morte e la risurrezione, la nostra vita non si interrompe; ma rimane l’anima come elemento che sopravvive nell’attesa della Risurrezione finale. L’anima, afferma Bonaventura, dopo la morte si trova in una situazione innaturale e mancante, ed è totalmente orientata all’unione con il suo corpo. L’uomo giunge al suo pieno e definitivo compimento soltanto con la risurrezione della carne. Contestare l’immortalità-incorruttibilità dell’anima (perché ha il sapore di un’antropologia greca e dualista), assolutizzando invece la fede nella risurrezione dei morti in nome dell’antropologia unitaria biblica, non risponde ad alcuni interrogativi di fondo che invece è necessario affrontare, benché non abbiano una soluzione certa e definitiva. 

Innanzitutto, come spiegare il “tempo intermedio” tra la morte e la risurrezione. È vero che il tempo è una dimensione che vale per noi viventi sulla terra, e che la morte fa uscire da questa dimensione quale la percepiamo; ma l’immortalità dell’anima è indispensabile perché la risurrezione abbia un senso nella permanenza della singolarità storica della persona. Se non vi fosse nulla che sopravvive alla morte e al di là della morte, la risurrezione sarebbe una nuova creazione, senza nessun rapporto con il mio “io”, con la mia persona e la mia esperienza storica. 

Ecco perché l’immortalità dell’anima non è solo una tesi filosofica, ma una esigenza della stessa fede cristiana. Va però affermato che l’immortalità dell’anima è da considerare all’interno della fede nella risurrezione dei corpi; chiaramente, il primato spetta alla risurrezione, secondo il kerigma dell’apostolo Paolo, e non all’immortalità dell’anima come nel pensiero greco. 

Un secondo interrogativo che si evidenzia è “quale corpo risorge”, ossia l’identità del corpo risorto, e che cosa in esso permane del corpo della vita terrena; più precisamente, cosa permane dopo la morte della materia che costituisce la persona. Senz’altro è da evitare ogni fisicismo e materialismo, insieme all’impossibile pretesa di conoscere e descrivere la modalità di esistenza dei corpi risorti; ma è altrettanto giusto e essenziale mantenere il “realismo” della risurrezione. 

Tenendo insieme l’immortalità dell’anima e la risurrezione dei corpi, nella reciprocità ermeneutica e nel primato dato alla risurrezione dei corpi, si comincia a comprendere che nella Risurrezione il soggetto umano trova il suo compimento. La fede nella risurrezione del corpo dice che anche la materia è coinvolta nell’eternità della salvezza, pur se non sappiamo in che modo vivrà il corpo risorto. Un’altra domanda che sorge spontanea, è come mai la vita eterna attrae così poco l’essere umano nel contesto culturale di oggi. Forse uno dei motivi di questa inappetenza per l’eternità è data dal fatto che il nostro corpo non è allenato a riconoscere e desiderare l’eternità con le sue “sporgenze” metafisiche e soprattutto, direi, non è preparato a recuperare l’originaria unità di eros e agape nell’amore, come ha più volte ricordato Benedetto XVI. 

«Tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione» (Deus caritas est, 5), e ciò in forza del fatto che l’eros (che sente ed esprime il nostro corpo) «promette infinità, eternità – una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere». Infatti l’amore che il nostro corpo sente ed esprime mira all’eternità; addirittura «l’eros vuole sollevarci in estasi verso il Divino» (DCE, 7). Come l’anima e il corpo costituiscono una unità, così occorre riscoprire l’amore umano nella sua unità originaria di eros e agape. L’amore vero è integrale, e non si possono separare l’eros e l’agape, come non si possono separare tra loro l’idrogeno e l’ossigeno senza privarsi con ciò stesso dell’acqua: indispensabile alla vita. (Rivista San Bonaventura Informa)