venerdì 14 dicembre 2018

L'Osservatore Romano: Il dono dell’oscurità, Giovanni della Croce e la guarigione della memoria

In un mondo in cui per molte persone la confusione fa parte della realtà quotidiana e in cui a volte si producono ferite poi dimenticate per anni, fino a quando non tornano ad alzare la loro testa minacciosa, sapere come affrontare i ricordi dolorosi e come permettere loro di guarire ci aiuterà a vivere una vita più piena. Gesù ha detto: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Giovanni 10, 10). La vita spesso presenta delle sfide. Se c’è stato un avvenimento doloroso nel nostro passato, o se stiamo vivendo un’esperienza preoccupante nel presente, non riusciremo a vivere appieno la nostra esistenza a meno che non l’affrontiamo in profondità. Qualcosa ci trascinerà giù, come un peso straordinario che rende più difficile respirare, più difficile camminare, più difficile trovare pace e gioia, forse addirittura più difficile amare.


Sono nata nel giorno in cui si ricorda san Giovanni della Croce. Mi piace pensare che sia diventato la mia guida prima ancora che io sapessi qualcosa della vita. Anni fa qualcuno mi ha chiesto: «Quindi conosci san Giovanni della Croce?». E io ho risposto: «Penso che lui mi conosca meglio di quanto io potrò mai conoscere lui». In questo stesso spirito, qualsiasi cosa dirò qui sarà sempre poco, e sarà piuttosto un incoraggiamento e un invito a rivolgersi direttamente a lui per imparare di più da lui. Per una pura coincidenza, il mio nome deriva da “Giovanni”, il che mi lega ancor più al giorno in cui si celebra la sua memoria. Comunque, quando sono nata i miei genitori non erano a conoscenza di questo legame con san Giovanni della Croce. Ancor prima di iniziare a studiare formalmente la sua vita e la sua dottrina lo consideravo un amico, qualcuno vicino a Dio che si preoccupava di me, che mi guidava, spesso in silenzio e anche senza che io ne fossi consapevole.

Più tardi nella vita ha iniziato ad affascinarmi e ad attrarmi, ma solo negli ultimi anni questa amicizia ha cominciato a crescere a un livello più profondo e meno intuitivo. Poco più che trentenne ho completato un dottorato incentrato in modo particolare sulla guarigione dei ricordi dolorosi e san Giovanni della Croce è stato uno degli interlocutori nella mia ricerca. La mia tesi si fondava sull’esperienza di Restoration Ministries, un piccolo ma importante gruppo cristiano nordirlandese che negli ultimi trent’anni ha lavorato per la pace, la reintegrazione e la guarigione. La gente in Irlanda del Nord conosceva il buio e sapeva quanto a volte è difficile aggrapparsi alla speranza.

Thomas Merton ha detto che «non si può conoscere davvero la speranza a meno che non si scopre quanto la disperazione le assomigli» (Hidden Ground of Love). Ciò significa conoscere l’ombra e il dolore della nostra esistenza, e in essi trovare la luce. Giovanni ci mostra che anche nei momenti più bui della vita, la luce e l’amore di Dio sono vicini. Il reverendo Ruth Patterson, direttrice di Restoration Ministries, ripete spesso che siamo i prediletti di Dio, verità che coincide con la convinzione di san Giovanni della Croce che l’amore di Dio porta guarigione e trasformazione.

Nel corso della vita, alcune persone prenderanno coscienza delle cose accadute in passato che hanno influito negativamente su di loro. Tra queste ci sarà chi vorrà fare qualcosa a riguardo. Ma non tutte lo faranno. E anche quelle che hanno la volontà di farlo, non sempre sanno come. La guarigione richiede tempo. Non è insolito che ci siano uno, due o perfino diversi ricordi sepolti nel nostro subconscio. Personalmente ho maggiore familiarità con i ricordi nascosti che riemergono, sorprendendomi più con il loro bisogno di guarire, che con la consapevolezza costante che c’è qualcosa che devo affrontare. Fino a quando i ricordi sepolti non riaffiorano, spesso possiamo essere in qualche misura inconsapevoli che siano avvenuti. Dico “in qualche misura”, perché comunque essi influenzano il modo in cui agiamo nel mondo. Questi ricordi non sono riposti solo nella nostra mente, ma anche nel nostro corpo e nelle nostre emozioni. In altre parole, sono riposti nella nostra anima. Secondo la comprensione classica, l’anima incorpora le facoltà dell’intelletto, della memoria e della volontà, e tutte e tre attraversano una purificazione che Giovanni ha definito la notte buia dell’anima.

C’è un nucleo dentro di noi, la parte più profonda del nostro essere, che non viene toccato dalle nostre scelte di vita. Non viene scalfito dai torti che ci vengono fatti o da quelli che facciamo, né dalle ferite. È puro e brilla come un diamante nel nostro cuore. Afferma l’impronta di Dio nella nostra natura e proclama la verità del nostro essere creati a immagine di Dio. Sappiamo tutti fin troppo bene che l’immagine di Dio dentro di noi deve essere resa durante la vita presente, e in un certo senso ciò significa permettere a questo nucleo del nostro essere di crescere. Riportare il diamante interiore al suo pieno splendore può essere un processo molto doloroso, addirittura straziante.

Non iniziamo a guarire fino a quando non siamo pronti a farlo. La guarigione più profonda dei ricordi, la notte buia, non è una cosa che possiamo orchestrare. Giungerà, sempre che lo farà, solo quando Dio saprà che siamo pronti. Se fossimo noi a valutare la nostra prontezza, non riterremmo mai che è arrivato il momento giusto per affrontare il dolore nella misura profonda richiesta dalla notte oscura. Il cammino della guarigione esige coraggio.

Ogni esperienza di guarigione è diversa. Per undici anni mi sono confrontata con gli effetti di una cosa dolorosa accaduta tanti anni fa, ma non ero pronta a ricordare ciò che era davvero accaduto. Quando — avevo una ventina d’anni — è sorta in me la consapevolezza di un trauma, sapevo che si trattava del ricordo di un abuso che avevo il terrore di ricordare.

Il ricordo è riaffiorato a ondate nel corso degli anni; come se togliessi uno strato dopo l’altro, scoprendo mano a mano il suo nocciolo. Poi, una sera d’inverno, nel mio nuovo appartamento, mi sono molto allarmata a causa dei rumori che sentivo sia fuori sia dentro casa. Una parte di me sapeva che ciò stava innescando un ricordo traumatico della mia prima infanzia. Ma non riuscivo a distinguere la realtà dal ricordo. Quella notte non dormii.

Il giorno dopo il padrone di casa mi assicurò che la zona era sicura. E rammentai che i ricordi sepolti riaffiorano solo quando l’ambiente è sicuro. Ebbi paura. Di notte affrontavo l’intensità di emozioni legate al ricordo, terrori e flashback, ma il ricordo stesso si presentava durante il giorno, nel tempo di preghiera, mentre parlavo a Gesù. Temevo che, semmai avessi ricordato ciò che era accaduto, l’intensità del dolore mi avrebbe uccisa. Attraverso gli abusi qualcosa dentro di noi muore, una parte di noi viene portata via. Da bambina penso di aver percepito questa violazione come una “morte”. Mentre il ricordo riaffiorava in quell’inverno, la sensazione che emergeva da dentro di me era di terrore che qualcuno venisse a uccidermi. Poiché ero stata rassicurata sul fatto che il luogo in cui vivevo era sicuro, decisi di convivere con quel sentimento, per quanto terrificante fosse. Rimasi seduta in sua compagnia per molte notti, incapace di dormire. Raccontavo a Gesù ogni pensiero che mi veniva in mente. Quando ero sopraffatta, ricorrevo al respiro profondo per calmarmi.

Decisi di permettere al ricordo di riaffiorare. Anche se non ho mai partorito, mi ha fatto pensare al travaglio; è stato doloroso ma buono, perché in esso c’era Dio. Quando la paura mi sfiniva, sapendo di non riuscire a rilassarmi abbastanza per dormire in camera qualche notte sono andata in bagno, l’unica stanza che potevo chiudere a chiave. L’ho fatto sei o sette volte nel corso delle settimane. Mettevo dei cuscini per terra, prendevo una candela, una coperta e un guanciale e dormivo sul pavimento. O così, o non dormire affatto.

So che qualcuno magari pensa che avrei potuto scegliere di fuggire da quel processo e non affrontare il ricordo. Ma mentre ciò avveniva, sapevo, nel mio intimo, di doverlo affrontare se volevo che mollasse la sua presa su di me. Avevo la profonda consapevolezza che il processo era stato iniziato da Dio per il mio bene, e volevo rispondere meglio che potevo. Inoltre, non ero del tutto sola. Alcune sedute di terapia mi diedero sostegno e mi aiutarono ad avere fiducia nel processo. Chiesi che si pregasse per me e alcune persone mi offrirono il loro appoggio. Sono state la mia ancora di salvezza, specialmente di notte.

Domandai a Gesù di starmi accanto mentre ricordavo, e non avrei mai potuto immaginare quanto sarebbe stato colmo di grazia quel momento, e quanto dolce; perché lui era con me. Nei mesi successivi mi dovetti confrontare con il dolore non elaborato e l’integrazione di ciò che ricordavo. Per la prima volta, dopo molti anni, riuscii a incominciare a lasciare quel ricordo al passato.

Più o meno quando il mio ricordo stava riemergendo, assistetti a un dibattito sulla notte oscura dalla prospettiva junghiana. L’oratore, Jasbinder Garnermann, disse che nella notte oscura ci troviamo «faccia a faccia con noi stessi». Lo scopo di questo cammino profondo di guarigione è di integrare quelle parti di noi che prima non conoscevamo. A un certo momento della vita finiamo con l’affrontare ricordi, ricordi che «abbiamo completamente dimenticato». Tuttavia, il «sentimento originale è lì, la carica originale è lì», nascosti in tali ricordi. Da bambini siamo privi di risorse per affrontare il rifiuto o traumi di qualsiasi genere, «quindi, l’unico modo in cui li abbiamo potuti affrontare per sopravvivere rimanendo psicologicamente integri è stato seppellendoli» (Jasbinder Garnermann). Ma diventando adulti sviluppiamo le risorse.

Gli esseri umani hanno una capacità immensa di sopportare il dolore. La guarigione giunge quando si permette ai ricordi di affiorare, sopportando il dolore mentre emerge nella sua carica originale. Sopportarlo serve a liberarlo. È un processo molto doloroso, ma è un processo che porta anche alla libertà interiore.

San Giovanni della Croce si preoccupa di purificare l’affettività dei ricordi. Evidenzia che «la confusione non nasce mai nell’anima se non attraverso le apprensioni della memoria. Quando tutto è dimenticato, nulla disturba la pace o muove gli appetiti». Miroslav Volf scrive in The End of Memory che «togliendo loro il cibo affettivo, i ricordi vengono indeboliti e giacciono dormienti». Affinché ciò accada, dobbiamo a poco a poco abbandonare il nostro bisogno di aggrapparci alle emozioni dei ricordi. Lo facciamo affrontando questi sentimenti profondi in tutta la loro intensità. Pian piano le emozioni si attenueranno.

La guarigione interiore, che include la guarigione dei nostri ricordi, è un cammino verso “casa”, verso il nostro vero essere. «Quando abbiamo abbastanza fiducia da entrare nel buio, nei luoghi reconditi del nostro essere e portarli fuori, alla luce, scopriamo di più su noi stessi e, poiché non vi siamo andati soli, anche se così potrebbe sembrare, scopriamo anche di più su Dio. È come se venissimo accolti nella nostra identità» (Ruth Patterson).

C’è un’intera gamma di tappe in questo cammino di guarigione, quando si passa dall’essere vittima all’essere una sopravvissuta. Ma c’è un’altra tappa, che viene ben descritta da una signora che ha perso il marito in modo tragico nel conflitto nordirlandese, la quale ha detto: «Sono stata vittima; sono stata sopravvissuta; adesso voglio vivere!» (Ruth Patterson, Journeying Towards Reconciliation). È il cammino di tutta una vita.

A volte le persone hanno bisogno di molto tempo per riuscire ad abbandonare lo stato di vittima, sempre che ci riescano. Oppure s’identificano talmente tanto con il loro stato di vittima da acquisire l’“identità di vittima”. Perfino i paesi possono seguire la dinamica generale di percepirsi sempre come vittime in rapporto al loro vissuto e alla loro storia. Essere vittima è una tappa, una realtà per quanti sono stati trattati male o feriti. Ma quando intraprendiamo il cammino della guarigione, passiamo a una fase diversa, quella di essere sopravvissuti. «Se non hanno potuto disporre del giusto tipo di aiuto o se il dolore è stato tanto intenso, hanno paura di abbandonarlo; senza di esso non saprebbero chi sono» (Ruth Patterson). Le persone hanno bisogno di essere ascoltate, perché l’ascolto compassionevole della storia di una persona è importante per la sua guarigione.

Patterson ci invita a consentire a Dio di diventare amico «dello sconosciuto che è in noi, dei pezzetti che non abbiamo ancora scoperto o amato a causa delle nostre paure, dei nostri dubbi o delle nostre inadeguatezze, o delle nostre ferite; riscoprendo Gesù, riscopriamo il nostro vero essere». In altre parole, «conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Giovanni 8, 32).

Nel 2017, durante un viaggio a Malta, mi ha colpito quella che mi è sembrata una parabola moderna sulla guarigione dei ricordi. A Mosta c’è una chiesa sulla quale sono cadute tre bombe durante la seconda guerra mondiale, due delle quali sono rimbalzate sulla cupola senza esplodere. Una bomba altamente esplosiva di cinquecento chili, invece, l’ha perforata ed è penetrata nella chiesa, anch’essa però senza esplodere. L’ordigno è stato fatto detonare in mare quel giorno stesso. Oggi è possibile visitare Mosta e vedere un modello della bomba nella sagrestia della chiesa. La cupola è stata completamente ricostruita e la bomba non è più pericolosa. Per me è un immagine di ricordi guariti: rimane il bossolo, ma il materiale altamente esplosivo non c’è più, a ricordare che ciò che un tempo era una forza letale e pericolosa alla fine è stata messa a tacere.

di Iva Beranek

A. Maggi: Il silenzio della Chiesa, quando si allontana da Gesù

Come scrive il biblista Alberto Maggi per il sito IlLibraio, c'è "una chiesa silenziosa non perché costretta al silenzio, ma che tace semplicemente per convenienza. È silente perché connivente con ogni forma di potere, pur di non diminuire il proprio...". E dunque "non ha nulla a che vedere con Gesù"

Con la denominazione “chiesa del silenzio” ci si riferisce a una chiesa oppressa e perseguitata da un sistema politico ostile. Storicamente sono state chiese del silenzio quelle dell’est europeo sotto il potere dell’Unione Sovietica. Ma la definizione “chiesa del silenzio” si estende anche a tutte quelle comunità cristiane, a qualunque latitudine, che vivono nel nascondimento, nella clandestinità, in luoghi dove non è consentito dichiararsi apertamente cristiani e dove ogni forma di culto o di attività evangelica viene severamente proibito e represso. Ma questa chiesa del silenzio, anche se è invisibile, è esistente. È silenziosa perché viene costretta al silenzio, non per propria scelta. È una chiesa martire, ma per questo viva e vivificante.

C'è un’altra chiesa, in silenzio, è quella ben visibile, ma praticamente devitalizzata, che può parlare, e straparla, di quel che non le compete, ma tace sul suo unico mandato, quello di cercare “il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,33). È questa una chiesa silenziosa non perché costretta al silenzio, ma che tace semplicemente per convenienza. È silente perché connivente con ogni forma di potere, pur di non diminuire il proprio. Ma una chiesa, che per motivi di opportunità taccia, non ha nulla a che vedere con quel Gesù, che non ha soggezione di alcuno perché non guarda in faccia a nessuno (Mc 12,14), e che invia i discepoli ad annunziare la buona notizia senza aver paura della persecuzione (“Non abbiate dunque paura di loro…”, Mt 10,26; 5,10). Una chiesa che invita ad annunciare sempre e in ogni circostanza la Parola (“Guai a me se non annuncio il Vangelo!”, 1 Cor 9,16), senza calcoli di convenienza: “insisti al momento opportuno e non opportuno” (2 Tm 4,2).

Le guide, i pastori e i fedeli delle chiese costrette al silenzio hanno spesso pagato, e pagano tuttora, con la persecuzione, il carcere, e anche la morte, la loro fedeltà al vangelo di Gesù. Ma il Signore si identifica con essi (Gv 15,20).

I pastori e i fedeli della chiesa in silenzio, quelli che non parlano perché è più conveniente restare zitti, non solo non offrono la propria vita per salvare il gregge (Gv 10,11), ma tacciono, per non disturbare il lupo. Vedono il massacro perpetrato dalle belve, ma preferiscono tacere. Non alzano la voce contro l’ingiustizia per non perdere i benefici che il lupo, il potente di turno, può loro togliere o elargire. Ma per il Signore, quei pastori che per il loro interesse, per il loro quieto vivere, per non mettere in pericolo la loro posizione, la loro carriera, non difendono il gregge, sono più pericolosi delle bestie feroci. Il gregge infatti cercava in essi una protezione, e ha invece trovato fauci spalancate (“Strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto… sono come lupi che dilaniano la preda, versano il sangue, fanno perire la gente per turpi guadagni”, Ez 22,27; 34,10). Per Gesù, costoro non sono neanche pastori, seppure pessimi, ma solo dei mercenari che svolgono un’attività esclusivamente per il proprio interesse e a proprio vantaggio, perché “non gli importa delle pecore” (Gv 10,16).

"Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci!” (Mt 7,15) avverte Gesù. E il Signore indica anche come riconoscere questi elementi pericolosi. Sono quanti sbandierano il vangelo, ma lo negano con loro comportamento (“Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, Mt 7,21). Di fronte all’esibizione di inutili attestati di ortodossia, e l’ostentazione di simboli religiosi, il Cristo dirà loro: “Non vi ho mai conosciuti” (Mt 7,23), perché l’unica garanzia di comunione con il Cristo è una profonda compassione, umanità, una tenerezza che porta a non escludere nessuno dal raggio d’azione del proprio amore.

I pastori che non solo non smascherano i falsi profeti, ma li imitano, per non perdere la loro posizione di privilegio e prestigio, sono anche essi falsi profeti, disposti a piegarsi come giunchi ad ogni vento (Mt 11,7), di adattarsi ad ogni politica, fosse anche la più disumana e quindi antievangelica, sapendo che così ne avranno solo benefici.

Il vero profeta è l’uomo dello Spirito, come Giovanni il Battista. È su di lui che scende la Parola di Dio, e non sui potenti (“La Parola di Dio venne su Giovanni”, Lc 3,2), e per questo riesce ad affrontarli e sfidarli, da quei farisei che vogliono impedirgli la sua missione (“Perché dunque tu battezzi se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?”, Gv 1,24), a quell’Erode al quale grida: “Non ti è lecito!” (Mt 14,4). E ci ha rimesso la testa. La fedeltà al messaggio di Gesù comporta il rifiuto e la persecuzione da parte del potere, ma il tradimento alla buona notizia comporta il rifiuto da parte del Cristo (“Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui”, Mc 8,38). Per questo la vera Chiesa, quella del Cristo, è da sempre la chiesa degli apostoli e di Pietro, gli antesignani della disubbidienza civile: “Bisogna ubbidire a Dio invece che agli uomini” (At 5,29).

giovedì 13 dicembre 2018

don Gianmario Pagano: Che cos'è il peccato originale?

Che cos'è il peccato originale?


don Gianmario Pagano

San Carlo.org: IL SILENZIO, L’ATTESA, LA GIOIA

Con l’inizio dell’Avvento proponiamo una meditazione di Emmanuele Silanos: il silenzio, eco della Notte Santa, è un aiuto a vivere l’attesa di Gesù.


«Prima che sorga l’alba vegliamo nell’attesa, tace il creato e canta nel silenzio il Mistero»1. Le parole di questo inno che appartiene alla tradizione del monastero di Vitorchiano descrivono il senso dell’Avvento. Si tratta della venuta del Verbo di Dio, il Mistero che si fa carne, che diventa tangibile e irrompe nella vita di coloro che lo attendono: «Vegliamo nell’attesa».
La nostra attesa è caratterizzata dal silenzio che è anche lo scenario in cui avviene l’Incarnazione. «Tace il creato» dice l’inno riecheggiando le parole di san Paolo secondo cui la creazione stessa attende la rivelazione (cfr. Rm 8,19).
Perché tacere, perché restare in silenzio? Per ascoltare la voce di Dio che canta in tutte le cose; perché nel silenzio «canta il Mistero».



Silenzio come attesa
O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco; 
di te ha sete l’anima mia 
(Sal 63)

Il primo capitolo del Vangelo di san Luca racconta due episodi che hanno come protagonista l’arcangelo Gabriele. Egli porta a Zaccaria la notizia dell’imminente nascita di Giovanni (il Battista) e poi annuncia a Maria che ella è stata scelta per essere la madre di Gesù. Di fronte alle parole dell’angelo, la reazione dei due interlocutori potrebbe sembrare identica. Zaccaria infatti domanda: Come potrò conoscere quello che mi dici, dato che mia moglie ed io siamo vecchi? (cfr. Lc 1,18) e Maria, similmente, chiede: Come avverranno questi fatti? Io non conosco uomo… (cfr. Lc 1,34). Eppure deve esistere una profonda differenza tra i loro due atteggiamenti, tanto che l’angelo dice a Zaccaria: Rimarrai muto per nove mesi perché non hai creduto alle mie parole (cfr. Lc 1,20).
Per cogliere la differenza tra la posizione di Zaccaria e quella di Maria, senza addentrarsi in sottili disquisizioni linguistiche, occorre provare a immedesimarsi con loro. Zaccaria è un anziano sacerdote che vive la vecchiaia portando dentro di sé un’inconsolabile delusione. Rimpiange di non aver ottenuto da Dio la benevolenza costituita dalla prole. Per questo il suo cuore è abitato dalla rassegnazione. È un uomo buono, autenticamente credente e rispettoso della legge, ma in fondo non aspetta più. Ogni sua parola, anche la più ingenua e onesta, tradisce un’ultima sfiducia.
L’atteggiamento di Zaccaria è quello che tante volte assumiamo anche noi. I Padri della Chiesa lo chiamano accidia e lo inseriscono tra i vizi capitali. L’accidia è nemica della speranza. È l’ostacolo che si oppone ad ogni attesa e che rende il cuore incapace di stupirsi.
Al contrario di Zaccaria, Maria vive invece nella speranza. Ella è determinata interamente e unicamente dall’attesa. Maria è tutta domanda.
Per entrambi i protagonisti, l’incontro con l’angelo si conclude col silenzio. Per Zaccaria esso è un obbligo, una forma di punizione. Per Maria, invece, il silenzio è una condizione desiderata: è il luogo di una compagnia, la possibilità di un rapporto reale e profondo con la Presenza misteriosa che è entrata nella sua vita. L’angelo si allontanò da lei, dice san Luca, e la sua espressione mette i brividi (Lc 1,38). Ma sappiamo che Maria non rimane da sola.
Dal giorno della visita dell’angelo, la vita di Maria si ritrova ad essere dominata dall’attesa ancora più di prima. Ella attende che la presenza di suo Figlio si sveli pienamente. Attenderà per tutta la vita, con intensità sempre maggiore. Dice don Giussani: «La Madonna… non possiamo immaginarla se non come una domanda continua che la gloria di suo Figlio appaia sull’orizzonte del mondo e che tutti gli uomini la conoscano»2.
Maria ci aiuta comprendere che il silenzio corrisponde alla nostra natura profonda, perché è l’attesa di qualcosa che deve accadere. Ha detto Giussani in un’altra occasione: «Il cuore è fatto di attesa, costruito e concepito come attesa: come una madre concepisce il feto, così Dio concepisce il nostro cuore come attesa. Nel silenzio delle cose, […] ancor prima della parola vibra l’attesa del cuore»3.
Giussani ha messo in luce anche la relazione che sussiste tra l’essere senza peccato di Maria e il suo vivere totalmente nell’attesa: «L’Immacolata Concezione ci dice che la purità dell’essere umano, la limpidezza totale è storicamente avvenuta. […] [Maria è stata] la domanda pura. […] Prima dell’annunciazione fu solo attesa di risposta; e, dopo, fu attesa della manifestazione della risposta, con tutta se stessa»4.
L’atteggiamento originale dell’uomo consiste nella tensione al rapporto con Dio. Assumere la posizione della Madonna significa dunque ritrovare la nostra natura, recuperare l’innocenza originale di fronte all’essere.



Silenzio come purificazione del desiderio
 Crea in me, o Dio, un cuore puro
(Sal 51)

Ha scritto Daniélou: «In Maria culmina l’attesa del popolo ebreo, nella misura in cui in Lei convergono e confluiscono tutte le preparazioni, tutte le aspirazioni e tutte le ispirazioni, tutte le grazie, tutte le prefigurazioni che avevano riempito l’Antico Testamento. […] Tutto l’Antico Testamento viene così a raccogliersi in Lei in una aspirazione più ardente, in una preparazione spirituale più totale alla venuta del Signore»5.
L’intera storia del popolo d’Israele è una preparazione ad accogliere la venuta di Cristo e nella Vergine contempliamo il risultato magnifico di quest’opera educatrice di Dio. In Maria si chiarisce infatti l’oggetto del desiderio dell’uomo, che è la grazia: «San Bernardo ci dice che Maria domandò la grazia come unica cosa da Lei desiderata: et semper inveniat gratiam. Non fece come Salomone che domandava la sapienza. Chiese la grazia, Maria, perché la grazia è la sola cosa di cui noi abbiamo bisogno. […] Ha chiesto la grazia e l’ha ottenuta: Ave Maria gratia plena»6.
Si comprende allora che il culmine del silenzio vissuto come attesa è la purificazione del desiderio. Il silenzio infatti è sempre pieno di domande e di richieste che solo il tempo aiuta a mettere a fuoco nella loro verità, in un cammino che raggiunge il suo vertice nell’attesa della grazia.
Vivere il silenzio significa dunque ripercorrere l’itinerario lungo il quale Dio ha guidato al Suo popolo, cominciando dall’educazione al al senso di Dio per arrivare infine a Maria, in cui l’attesa diventa domanda della pura grazia.
La caratteristica della grazia di Dio è che essa supera infinitamente l’uomo. Dice a questo proposito von Balthasar: «Appartiene indispensabilmente al metodo biblico-cristiano il fatto che l’uomo venga esercitato a sperimentare che con nessun esercizio, nessuna forma di prontezza può procurarsi, può costringere l’avvento di Dio. Perciò la via cristiana a Dio deve includere necessariamente l’esperienza della desolatio, della non esperienza dell’avvento di Dio. Il grado della purezza e della prontezza interiore può essere lo stesso in una duplice forma: una volta mi può essere concessa un’esperienza dell’attenzione e della vicinanza di Dio, l’altra volta no. Nelle parabole di Gesù bisogna semplicemente vigilare, senza sapere quando viene il Signore o lo sposo»7.
Da Maria impariamo che ci è chiesto di attendere Dio senza la pretesa di ottenere risposte in tempi e modi stabiliti da noi. Infatti il silenzio può essere arido per mesi e addirittura per anni, come testimoniano le vite di tanti santi, da Teresa di Lisieux a madre Teresa di Calcutta.



Silenzio come contrizione
 Lavami da tutte le mie colpe
(Sal 51)

 Benedetto il Signore Dio d’Israele,
perché ha visitato e redento il suo popolo 
(Lc 1,68)

Subito dopo il parto, Elisabetta, moglie di Zaccaria, dichiara di voler chiamare il bambino Giovanni. I parenti, stupiti, interpellano il vecchio muto. Lui chiede una tavoletta per scrivere e conferma il nome del figlio. In quel momento la sua lingua si scioglie.
È facile immaginare che Zaccaria, durante i nove mesi di forzato mutismo, si sia sentito umiliato. È probabile che tante volte abbia sentito il desiderio di spiegarsi, di giustificarsi, di raccontare la propria versione di quanto era accaduto nel tempio. Appena ritrova l’uso della voce, però, Zaccaria non si mette a protestare, non si lamenta né perde tempo a cercare giustificazioni per quanto è accaduto. Prorompe, al contrario, nel più potente e ispirato canto di lode e di ringraziamento a Dio che conosciamo: il Benedictus, che recitiamo ogni mattina durante le lodi, esprime il contenuto profondo di quei nove mesi trascorsi nel silenzio. Il Benedictus è una preghiera che senza silenzio non sarebbe mai nata.
Zaccaria capisce che il tempo del silenzio è stato per lui un dono, un dono ancora più grande dello stesso figlio, perché senza silenzio non avrebbe compreso il significato del figlio.
Emerge così una terza accezione del silenzio, che è il valore del silenzio come contrizione: il vero silenzio ci aiuta a crescere nella consapevolezza del nostro peccato e nella gratitudine per la misericordia di Dio. Dice don Giussani: «È solo con la contrizione che l’incombenza di Cristo e l’imminenza di Cristo sono splendidamente vive in noi. […] La contrizione nella giornata, la contrizione della sera a del mattino – che investa il più possibile tutta la nostra giornata, che il più possibile tenda a diventare inizio di azione –; ma soprattutto la contrizione all’inizio della messa e nel sacramento della confessione»8.
Il Benedictus è il canto in cui si fa memoria delle meraviglie di Dio presso il Suo popolo. Ma il passaggio più bello di questo inno di lode coincide con il momento in cui, all’improvviso, Zaccaria cambia interlocutore e si rivolge direttamente al figlio. Fissandolo gli dice: E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade (Lc 1,76) Lo sguardo di Zaccaria è lo sguardo che nasce dal silenzio, perché è lo sguardo di un padre che riconosce che il figlio, ultimamente, non gli appartiene. Zaccaria guarda più suo figlio come il proprio riscatto, la propria rivincita sulla vita, ma lo guarda per la missione alla quale è chiamato, lo accoglie secondo ciò che Dio ha pensato per lui. Il suo sguardo è lo sguardo della verginità.



Silenzio come ascolto e come gioia
 A te grido Signore, non tacere: 
se non mi parli sono come chi scende nella fossa 
(Sal 27)

Ha scritto Charles de Foucauld: «Il deserto mi riesce profondamente dolce; è bello e salutare porsi nella solitudine di fronte alle cose eterne; ci si sente invasi dalla verità»9.
Giovanni Battista, diventato grande, fugge il mondo per cercare il silenzio e la solitudine. Cerca appunto il deserto. Forse è per questo che siamo abituati a pensare a lui come a una persona dura e scontrosa, quasi un misantropo. In realtà Daniélou lo definisce «l’uomo della gioia spirituale» e dice che egli è «il santo più esultante della Scrittura»10. Non è un caso che la sua vita inizi con un sussulto di giubilo quando, ancora nel ventre della madre, riconosce la Madonna che porta in grembo Cristo.
Daniélou dice che la gioia del Battista è «quella di udire la voce del Signore»11. È questo il motivo per cui egli va nel deserto, anticipando i grandi padri eremiti e lo stesso Gesù. «Cerca scampo nel deserto perché niente lo distolga da quella gioia»12, per godere la compagnia dell’amato, per ascoltare la dolce voce dell’amico.
Il silenzio è il luogo dell’ascolto e della gioia, il che non toglie nulla all’esperienza della contrizione: «Ciò che più impressiona è il trovare in lui quel grande spirito di penitenza e, allo stesso tempo, questa esultanza interiore, la fusione della penitenza estrema e della gioia estrema. D’altronde, estrema penitenza ed estrema gioia si uniscono sempre: i più grandi penitenti sono gli uomini maggiormente lieti! Non vi ha letizia più grande di quella di Francesco d’Assisi, di Giovanni della Croce, del Curato d’Ars…»13.
Arriva il momento in cui si scopre che il silenzio è la gioia di chi trova in Cristo il vero riposo. L’aridità, le stanchezze e le distrazioni non scompaiono, ma la gioia assaporata e goduta nel silenzio, anche solo in qualche istante, resta nel cuore come una compagnia e un’esigenza inestirpabile. Così il silenzio tende a coincidere sempre di più con un’esperienza di gaudio che inonda di letizia le azioni e gli incontri quotidiani.
La gioia del silenzio è l’esultanza per la presenza dello sposo. Se venisse meno il rapporto con Gesù, il silenzio perderebbe il suo senso. Durante un incontro di qualche anno fa, padre Mauro Lepori ci ha detto: «Noi non abbiamo bisogno del silenzio: abbiamo bisogno del Signore, e dentro questo bisogno abbiamo bisogno anche del silenzio».
Il silenzio cristiano è diverso dalla meditazione orientale perché non è uno spazio svuotato da tutto, ma un luogo abitato da Cristo in modo privilegiato.



Silenzio, origine della missione e della verginità

  Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza 
(Sal 16)

La gioia di Giovanni si compie nella missione che gli è affidata, che coincide con un compito di testimonianza. Dice ancora Daniélou: «Questa è tutta la sua gioia: vedere la sposa trovare lo Sposo. Non desidera altro. Non desidera che una cosa sola: condurre le anime al Cristo, e che le anime trovino Lui! Allora il suo gaudio è perfetto. È perfetto quando i discepoli lo abbandonano per seguire Gesù»14.
Il silenzio è l’origine della nostra missione perché non consiste nel pensare a ciò che dobbiamo dire agli altri, bensì nel metterci in ascolto di ciò che Dio dice a noi. Per questo Guardini afferma che il silenzio è la condizione per poter riconoscere la verità e anche per poterla annunciare: «La parola è essenziale ed efficace solo quando nasce dal silenzio. […] Il silenzio schiude la fonte interiore da cui sgorga la parola»15.
In un altro passaggio Guardini indica nel silenzio l’unica condizione della nostra costruttività: «Solo nel silenzio può costituirsi la comunità, solo nel silenzio si può edificare la Chiesa»16.
Nel silenzio si impara anche la verginità. Don Massimo ci ha sempre richiamato a portare il rapporto con gli altri dentro al rapporto vissuto con Cristo. Nel silenzio si impara a consegnare a Dio il volto degli uomini, si impara a guardarli – per usare un’espressione di Giussani – avendo nella coda dell’occhio la presenza di Gesù.
In una lettera alla Fraternità, don Massimo ha scritto: «Nella vigilanza assumiamo un altro sguardo, diventiamo capaci di guardare il mondo con gli occhi della fede. La vigilanza ci permette di non fermarci alla superficie, ma di entrare nelle cose, di guardare le cose che tutti guardano con gli occhi di Cristo».
Il rapporto tra silenzio e verginità è intuibile da chiunque si interroghi profondamente sulla propria esigenza di amare e di essere amato con verità. Anche Paulo Coelho, scrittore certamente non vicino alla nostra esperienza, testimonia tale intuizione. Il suo romanzo L’alchimista racconta di un ragazzo di nome Santiago che lascia la propria casa «come un avventuriero in cerca di un tesoro»17. Nel deserto incontra una ragazza, Fatima, della quale si innamora. Lei lo ricambia, ma lo invita a continuare il suo viaggio. Santiago si ritrova combattuto e triste: ama Fatima e non vuole lasciarla, ma sa anche che non può possederla. Allora chiede al deserto di comprendere il significato dell’amore «senza il sentimento del possesso»: «S’incamminò senza mèta, tenendo sempre d’occhio le palme dell’oasi. […] Poi si sedette sopra un sasso […]. Non riusciva a concepire l’Amore senza il sentimento di possesso. Ma Fatima era una donna del deserto, e se c’era qualcuno che avrebbe potuto insegnarglielo, questo era il deserto. […] Il deserto, forse, avrebbe potuto spiegargli l’amore senza possesso»18. 
Vivere la verginità significa restituire le persone che ci sono affidate a Colui al quale appartengono, chiedendo a Dio di comprendere come amarle veramente. È una domanda che può risuonare solamente nel silenzio.



Silenzio come contemplazione
 Il tuo volto, Signore, io cerco
(Sal 27)

 «Insegnami a cercarti e mòstrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti»19.
Queste parole di sant’Anselmo esprimono il contenuto ultimo del silenzio, il segreto che si svela poco a poco, magari dopo anni di cammino. Per comprenderlo è bello e utile fissare l’attenzione sull’icona del Cristo Salvatore di Andrej Rublev. Si dice che le fattezze del volto di Gesù siano state rivelate a Rublev direttamente da Dio.
L’opera risale agli inizi del XV secolo, ma era andata perduta ed è stata ritrovata solo alla fine dell’Ottocento, per caso. Era nel fienile di un contadino russo, usata come passaggio per accedere alla stalla, con la parte dipinta rivolta verso il basso. Il contatto con terreno umido ha fatto sparire gran parte dell’immagine. Dal legno, però, emerge ancora una macchia di colore che raffigura il volto di Cristo. Il resto della tavola è rovinato, ma il volto di Gesù, come per miracolo, si è conservato.
La storia di questa icona può essere paragonata al silenzio, che permette al volto di Cristo di emergere dalla confusione, dal rumore, dalla distrazione in cui la nostra vita è sempre immersa. Vivere il silenzio significa permettere al volto di Gesù di farsi spazio nelle nostre giornate. Significa implorare di rivederlo, dopo la prima volta in cui, per grazia, si è mostrato.



Silenzio come imitazione di Cristo
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù 
(Fil 2,5)

C’è un ultimo aspetto, che forse avrebbe dovuto essere descritto prima degli altri: vivere il silenzio significa entrare nell’esperienza stessa della vita di Cristo.
Il silenzio definisce la modalità con cui Gesù affronta tutta la realtà, perché se per la Madonna il silenzio coincide con l’attesa che il Figlio si riveli pienamente, per Gesù esso coincide con la domanda che si riveli il Padre.
In Gesù ritroviamo tutte le profondità del silenzio: l’attesa che si compia il disegno del Padre, il bisogno di ritirarsi per ascoltare la Sua voce, l’esultanza per la Sua risposta, la verginità come modalità di vivere ogni rapporto… Non solo i quaranta giorni trascorsi nel deserto, ma ogni ora della vita di Gesù appartiene alla dimensione del silenzio.
Gesù ha vissuto in pienezza l’esperienza cui siamo chiamati attraverso il silenzio. Solo la contrizione non è riferibile a Cristo, anche se Egli, attraverso la compassione, partecipa in un certo modo al nostro dolore per i peccati e al nostro pentimento – pensiamo al suo silenzio di fronte alla donna adultera, alla sua commozione davanti a Gerusalemme, al suo pianto per la morte di Lazzaro… pensiamo soprattutto alle sue lacrime nella notte del Getsemani –.



Il silenzio ci rende imitatori di Cristo, permettendoci di realizzare il supremo compito della nostra vita. Chiediamo dunque a Dio che il tempo dell’Avvento sia l’occasione per riscoprire il valore e la bellezza del silenzio, affinché Cristo venga ad abitare ogni istante della nostra esistenza, ogni azione, ogni incontro, ogni circostanza.



Note al testo

1) Prima che sorga l’alba, inno delle Trappiste di Vitorchiano, in Canti, Società Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 2014, 172.
2) Cfr. L. Giussani, L’energia che occorre alla fede, «Tracce», 5 (2008).
3) L. Giussani, Tutta la terra desidera il tuo volto, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, 54.
4) A. Sicari (a cura di), Intervista a monsignor Luigi Giussani, «Communio», 98-99, (1988), 214.
5) J. Daniélou, Il mistero dell’Avvento, Morcelliana, Brescia 1962, 111.
6) Ivi, 116. 7 H.U. von Balthasar, Nuovi punti fermi, Jaca Book, Milano 1980, 88.
8) Cfr. L. Giussani, La familiarità con Cristo, San Paolo, Milano 2008, 18-19.
9) Cfr. C. de Foucauld, Lettera a Marie de Bondy, in «Jesus Caritas», 70 (1998).
10) J. Daniélou, Il mistero dell’Avvento, cit., 77.
11) Ibidem.
12) Ibidem.
13) Ivi, 78.
14) Ivi, 83.
15) R. Guardini, Il testamento di Gesù, Vita e pensiero, Milano 2005, 35-36.
16) Ivi, 34.
17) P. Coelho, L’alchimista, Bompiani, Milano 1995, 56.
18) Ivi, 113-114.
19) Anselmo d’Aosta, Proslogion, 1.

martedì 11 dicembre 2018

Sant'Agostino: commento al Salmo 109, 1-3

Dal «Commento sui salmi» di sant'Agostino, vescovo

(Sal 109, 1-3; CCL 40, 1601-1603)
Le promesse di Dio sono compiute
per mezzo del Cristo suo Figlio

    Dio stabilì un tempo per le sue promesse e un tempo per il compimento di esse. Dai profeti fino a Giovanni Battista fu il tempo delle promesse; da Giovanni Battista fino alla fine dei tempi è il tempo del loro compimento.
    Fedele è Dio che si fece nostro debitore non perché abbia ricevuto qualcosa da noi, ma perché ci ha promesso cose davvero grandissime. Pareva poco la promessa: Egli volle vincolarsi anche con un patto scritto, come obbligandosi con noi con la cambiale delle sue promesse, perché, quando cominciasse a pagare ciò che aveva promesso, noi potessimo verificare l'ordine dei pagamenti. Dunque il tempo dei profeti era di predizione delle promesse.
    Dio promise la salvezza eterna e la vita beata senza fine con gli angeli e l'eredità incorruttibile, la gloria eterna, la dolcezza del suo volto, la dimora santa nei cieli, e, dopo la risurrezione, la fine della paura della morte. Queste le promesse finali verso cui è volta tutta la nostra tensione spirituale: quando le avremo conseguite, niente più cercheremo, niente più domanderemo.
    Ma nel promettere e nel preannunciare Dio volle anche indicare per quale via si giungerà alle realtà ultime. Promise agli uomini la divinità, ai mortali l'immortalità, ai peccatori la giustificazione, ai disprezzati la glorificazione. Sembrava però incredibile agli uomini ciò che Dio prometteva: che essi dalla loro condizione di mortalità, di corruzione, di miseria, di debolezza, da polvere e cenere che erano, sarebbero diventati uguali agli angeli di Dio. E perché gli uomini credessero, oltre al patto scritto, Dio volle anche un mediatore della sua fedeltà. E volle che fosse non un principe qualunque o un qualunque angelo o arcangelo, ma il suo unico Figlio, per mostrare, per mezzo di lui, per quale strada ci avrebbe condotti a quel fine che aveva promesso. Ma era poco per Dio fare del suo Figlio colui che indica la strada: rese lui stesso via perché tu camminassi guidato da lui sul suo stesso cammino.
    Si doveva dunque preannunciare con profezie che l'unico Figlio di Dio sarebbe venuto tra gli uomini, avrebbe assunto la natura umana e sarebbe così diventato uomo e sarebbe morto, risorto, asceso al cielo, si sarebbe assiso alla destra del Padre; egli avrebbe dato compimento tra i popoli alle promesse e, dopo questo, avrebbe anche compiuto la promessa di tornare a riscuotere i frutti di ciò che aveva dispensato, a distinguere i vasi dell'ira dai vasi della misericordia, rendendo agli empi ciò che aveva minacciato, ai giusti ciò che aveva promesso.
    Tutto ciò doveva essere preannunziato, perché altrimenti egli avrebbe destato spavento. E così fu atteso con speranza perché già contemplato nella fede.

domenica 9 dicembre 2018

San Carlo.org:LA VOCE CHE GRIDA NEL DESERTO

In questo periodo di attesa del Natale, proponiamo una meditazione di don José Maria Cortes sulla figura san Giovanni Battista, tenuta ai seminaristi e preti della Casa di Formazione durante l’Avvento 2016.

Ogni anno, la liturgia dell’avvento pone davanti ai nostri occhi la figura del precursore di Gesù, voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore (Lc 3,4).

A Giovanni Battista è stato affidato un ruolo d’importanza singolare nel disegno della salvezza. Non a caso, nelle litanie dei santi, la Chiesa lo colloca all’inizio, subito dopo gli angeli. Egli è il solo santo del calendario liturgico del quale si celebra sia la nascita sia il martirio e due volte, in avvento, il vangelo della domenica parla di lui. La sua missione non è cessata con la sua morte. Anzi, nella gloria, il Battista continua ad agire per noi e la sua forza profetica ci invita ad adorare il vero Dio.

Giovanni è un uomo radicale. Se guardiamo a lui, percepiamo la forza dell’ideale e riscopriamo il grande orizzonte delle promesse di Dio, uscendo dalla mediocrità che facilmente perverte il nostro cuore. Abbiamo bisogno di stare di fronte a persone come il Battista, che hanno il coraggio di testimoniare la verità che contrasta la chiusura del cuore.

La preparazione

Parlando a Zaccaria, l’arcangelo Gabriele lo descrive  con queste parole: Egli sarà grande davanti al Signore. Non berrà né vino né bevande alcoliche e sarà pieno di Spirito Santo fin dal grembo di sua madre; convertirà al Signore molti figli d’Israele; avrà lo spirito e la potenza di Elia, per preparare al Signore un popolo ben disposto (cfr. Lc 1,15-16).

Il Battista è consacrato a Dio fin dal seno materno. Egli si astiene dalle bevande alcoliche perché lo Spirito Santo è la sua sola fonte d’inebriamento, l’unica sorgente della sua gioia.

Il suo grande compito è quello di preparare a Cristo un popolo ben disposto. Prima di parlare alle folle, però, egli trascorre un lungo tempo di preparazione: Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele (Lc 1,80). La missione del Battista matura nel silenzio del deserto, in una solitudine che non coincide con l’isolamento dal mondo, ma con la ricerca di Dio. Per parlare agli uomini bisogna vivere questa solitudine, scoprendo esistenzialmente che la risposta ai bisogni più profondi può essere trovata soltanto in Dio.

La solitudine coincide con la nostra relazione personale e unica con Dio. Don Giussani dice che «la vera solitudine non è data dal fatto di essere soli fisicamente, quanto dalla scoperta che un nostro fondamentale problema non può trovare risposta in noi o negli altri. […] Siamo soli coi nostri bisogni, col nostro bisogno di essere e di vivere intensamente. Come uno, solo, nel deserto, l’unica cosa che possa fare è aspettare che qualcuno venga».

L’esperienza della solitudine si intensifica nel deserto, dove si diventa coscienti di aver bisogno di essere salvati e dove si comprende che la salvezza deve necessariamente venire da fuori: Colui che ci salva è altro da noi.

L’inizio della missione

Dopo una lunga attesa, il Battista vive un momento di grazia che segna l’inizio della sua missione. L’evangelista Luca situa nel tempo e nello spazio tale avvenimento: Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea … la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto (Lc 3,1-2).

Dopo gli anni passati nel silenzio, conducendo una vita ascetica e meditando la parola di Dio, giunge per lui il momento di comunicare tutto ciò che egli ha ricevuto e fatto proprio. Il Signore gli invia un segno del cielo, forse simile a quello descritto dal profeta Geremia: Il Signore stese la mano, mi toccò la bocca e mi disse: Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca e ti do autorità sopra le nazioni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare (Ger 1,9-10).

In realtà il Battista conosce lo Spirito Santo fin dal seno di sua madre, come afferma l’angelo Gabriele. Infatti, quando Elisabetta riceve il saluto di Maria, egli sussulta nel suo grembo (cfr. Lc 1,41). Con il misterioso evento di grazia che accade nel deserto, però, lo Spirito discende su Giovanni con forza e suggestività nuove. Ora egli è pronto a iniziare la sua missione. Un fuoco si è acceso nel suo cuore, spingendolo ad annunciare il messaggio che gli è stato comunicato. Egli, che ha sempre vissuto cercando la propria conversione, deve chiamare alla conversione tutto il popolo d’Israele.

Il rapporto con Dio e l’aiuto agli uomini

L’uomo del deserto attira le folle dalla città. La gente lo ascolta e gli pone domande: Le folle lo interrogavano: Che cosa dobbiamo fare? (Lc 3,10). Anche a noi gli uomini chiedono tanti consigli. Per offrire loro risposte adeguate, dobbiamo ricordarci che essi, in noi, cercano Dio. Ci cercano col desiderio che la parola di Dio diventi per loro personale. Per rispondere al loro bisogno dobbiamo dunque conoscere Dio, altrimenti diciamo parole nostre e non di Dio, oppure ripetiamo cose già sapute, prese in prestito da altri, che lasciano insoddisfatti noi e i nostri interlocutori. La nostra capacità di parlare agli uomini si fonda sul nostro rapporto personale con il Signore.

Guardando alla storia della Chiesa, scopriamo che tanti uomini che hanno lasciato tutto per stare con Dio, cercando la solitudine del deserto e la conversione del cuore, si sono poi trovati, inaspettatamente, circondati da un popolo. Basta pensare a sant’Antonio abate o a san Benedetto. In loro si è compiuta la profezia di Isaia: La solitudine fiorirà come giglio (Is 35,1). Chi cerca veramente Dio sarà cercato dagli uomini.

Guardando il Battista, comprendiamo l’essenzialità della vigilanza di cui parla Gesù: Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione (Mt 26,41). Se non difendiamo il nostro rapporto con Dio, se il nostro cuore non è riempito dalla Sua memoria, allora il mondo, la carne e il demonio occupano il vuoto che si crea in noi. È facile trascurare la preghiera e il silenzio, ma se perdiamo il legame con Dio tutto si svuota, il male ci invade e non siamo d’aiuto per nessuno.

L’invito alla conversione

Il Battista ha speso tutta la propria vita per preparare l’arrivo di Cristo: Predicava nel deserto della Giudea dicendo: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino (Mt 3,1-2). Gesù, all’inizio della sua vita pubblica, usò le stesse parole: Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo (Mc 1,14-15).

Ricordo che all’inizio della mia missione a Washington ero preoccupato di ideare programmi che attirassero la gente in parrocchia. Un confratello, però, mi disse: “Sarà la tua conversione ad attrarre le persone”. Questa frase ha semplificato la mia vita. Ho capito che la missione coincide con la conversione. Ciò che affascina le persone è la vita di un uomo cambiato da Cristo.

La conversione è la forza che vince il formalismo. A coloro che andavano a farsi battezzare, il Battista diceva: Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di potere sfuggire all’ira imminente? Fate dunque frutti degni della conversione e non cominciate a dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli di Abramo (Lc 3,7-8).

L’umiltà

Come preannunziato da Gabriele, il figlio di Zaccaria è stato grande davanti al Signore (Lc 1,15). Egli è stato grande perché è stato umile. In lui vediamo compiute le parole di Gesù che ha detto: Chi si umilia sarà esaltato (Lc 14,11). Il Battista ha accettato di cedere il primo posto a Cristo, senza amarezze, anzi, con gioia: L’amico dello sposo esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena (Gv 3,29). A tutti dichiarava: Lui deve crescere, io diminuire (Gv 3,30). Egli sapeva di essere la voce, non la parola. Come dice sant’Agostino: «Giovanni è la voce che passa, Cristo è il Verbo eterno che era in principio». Quando le autorità di Gerusalemme gli chiesero di dichiarare la propria identità, il Battista rispose prontamente: Io non sono il Cristo. Allora gli chiesero: Sei tu Elia? Rispose: Non lo sono. Gli chiesero allora: Che cosa dici di te stesso? Rispose: Sono la voce che grida nel deserto (Gv 1,21-23). Giovanni era consapevole di essere un messaggero. Sapeva di appartenere, conosceva la propria origine e il proprio compito nel mondo.

Egli venne come testimone … Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce (Gv 1,7-8). La sua figura ci insegna che la vera gloria deriva dall’inserimento nel disegno di Dio. Egli è stato il più grande perché ha lasciato che Cristo fosse il centro. Il suo esempio costituisce un antidoto contro le tentazioni del culto della personalità e contro gli atteggiamenti auto-celebrativi. Il Battista non cercava la gloria personale, ma quella di Dio. Meglio: egli trovava la propria gloria nella glorificazione di Dio.

Diventare umili

Il peccato originale è stato un peccato di superbia e tutta la vita cristiana, come dice san Bernardo, è un itinerario dall’orgoglio all’umiltà e dall’umiltà all’estasi. La nostra superbia deve essere sepolta affinché fiorisca l’umiltà. Dobbiamo continuamente affogare l’uomo vecchio nelle acque del battesimo per far emergere l’uomo nuovo.

Per diventare umili dobbiamo partecipare alla Pasqua di Cristo accettando le umiliazioni che la vita necessariamente ci porta. È importante che ci chiediamo come reagiamo di fronte a esse: ci chiudiamo in noi stessi, risentiti e isolati, oppure ci apriamo a Dio? Dice l’Imitazione di Cristo: «L’umile, quando ha ricevuto un’umiliazione, rimane bene in pace, perché sta fisso in Dio e non nel mondo». Dobbiamo portare nella preghiera le umiliazioni che subiamo, perché solo alla presenza di Dio esse diventano potatura che fa nascere frutti abbondanti  (cfr. Gv 15,1-2).

Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato (Lc 3,5). Le parole del Battista sono un invito all’umiltà: i monti e i colli da abbattere rappresentano la nostra superbia, mentre la valle da riempire è l’umiltà. Dice sant’Antonio da Padova: «Ogni valle sarà riempita con quel grano di frumento che caduto nella terra morì e di cui il salmo dice: Le valli abbonderanno di frumento». Poi sant’Antonio aggiunge: «La beata Maria, essendo una valle, fu colmata, e dalla sua pienezza noi tutti, vuoti, abbiamo ricevuto: Saremo riempiti dall’abbondanza della tua casa».

L’umiltà è una virtù da chiedere alla Madonna. Lei, che nel Magnificat canta: Il Signore ha guardato l’umiltà della sua serva (Lc 1,48), non mancherà di intercedere per noi. Per questo ci rivolgiamo ogni giorno alla Vergine con la preghiera di De Grandmaison che dice: «Formami un cuore dolce e umile».

Il profeta dell’Altissimo

Erode Antipa incarcerò il Battista nel castello di Macheronte, irritato dalla franchezza con la quale egli lo rimproverava per la sua relazione adultera con la cognata. Sembra che il Battista sia rimasto in prigione oltre un anno. I suoi amici, però, gli portavano notizie dei miracoli compiuti da Cristo e della Sua crescente fama. Gli riferivano anche ciò che Gesù diceva alle folle parlando di lui: Cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re! E allora, cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta. Egli è colui, del quale sta scritto: Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te (Mt11,7-10).

Il Battista era un profeta, il profeta particolare che concludeva l’antica alleanza. Come ha detto Gesù: La legge e tutti i profeti hanno profetato fino a Giovanni (Mt 11,13). L’arcangelo Gabriele, descrivendo a Zaccaria il compito del figlio, ha spiegato in sintesi che cosa significhi essere un profeta: [Egli] convertirà al Signore molti figli d’Israele; avrà lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto (Lc 1,16-17).La missione profetica consiste nel ricondurre il popolo a Dio, nel creare comunione e nell’insegnare sapienza, cioè nel suscitare un giudizio prudente  sulla realtà. Il profeta partecipa alla visione di Dio sulla storia degli uomini ed è chiamato a testimoniare la verità.

La domanda

Il Battista, in carcere, ha vissuto un momento di crisi, non solo per la mancanza di libertà, ma anche a causa di un dubbio che si era instaurato nel suo cuore. Egli si chiedeva se Gesù fosse veramente il salvatore atteso, poiché i Suoi comportamenti non erano conformi alle aspettative. Il Battista infatti era convinto che il giudizio divino fosse imminente: Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Colui che viene dopo di me raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile (cfr. Mt 3,10-12). Il messianismo di Gesù, però, era diverso. Forse il Battista arrivò a pensare di essersi impegnato in una missione sbagliata. In una tempesta di pensieri e di angoscia, egli decise di mandare i suoi discepoli da Gesù: Venuti da lui, quegli uomini dissero: Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro? In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito (Lc 7,20-22).

Il Battista non si è chiuso nei problemi e nei sospetti, ma ha preso l’iniziativa di domandare. Nei momenti di crisi, è importante che ci apriamo e ci confrontiamo con qualcuno. Altrimenti il dubbio ci distrugge, togliendoci la gioia, la pace e, infine, la vocazione. Scrive san Cassiano: «Un cattivo pensiero, portato alla luce del giorno, perde subito il suo veleno. Prima ancora che la discrezione abbia proferita la sua sentenza, il serpente infernale, che la confessione ha tirato fuori dal suo nascondiglio tenebroso, se ne fugge svergognato. Le sue suggestioni hanno potere su noi finché restano nascoste in fondo al cuore».

L’annuncio della verità

Il nostro tempo è caratterizzato da quella che Benedetto XVI ha chiamato “dittatura del relativismo”. Il Battista, invece, era un uomo appassionato della verità. Egli desiderava svelare agli uomini Colui che ha detto di se stesso: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14,6). Il Battista ha dato la vita per testimoniare il Verbo di Dio pieno di grazia e verità (Gv 1,14). Di lui, Gesù ha detto: Egli ha reso testimonianza alla verità (Gv 5,33).

Il nostro tempo ha più che mai bisogno di uomini che vivano una tensione alla verità. L’ambiguità non è certo sinonimo di virilità. Non si può annunciare Cristo senza proclamare la verità. L’annuncio cristiano, privo di un contenuto ontologico, svuotato della dimensione metafisica, corre il rischio di adattarsi ai messaggi politicamente corretti del momento, sottomettendosi alla mentalità dominante che tutto omologa e appiattisce.

Oggi, in particolare, è molto diffusa la visione che considera la dottrina opposta alla prassi. Tale visione deriva dalla concezione moderna, cartesiana, che percepisce la verità come un’evidenza astratta di tipo matematico. La verità, invece, «è una relazione». San Tommaso parla di una relazione fra intelletto e oggetto – adaequatio rei et intellectus – e von Balthasar definisce la verità come corrispondenza tra il fondamento e il fenomeno. Scoprire la verità significa percepire il rapporto fra l’effimero e l’eterno, cioè la misteriosa origine delle cose. San Giovanni Paolo II, nella Fides et ratio, ha scritto: «Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge».

L’uomo contemporaneo fatica ad arrivare all’origine delle cose. Siamo come ciechi di fronte all’essere e non percepiamo l’oggettività della verità. Osserva von Balthasar: «Chi è diventato cieco nei riguardi dell’essere come potrà non diventare cieco anche nei riguardi di Dio? Bisognerà dire allora che il cristiano, ossia colui che annuncia oggi la gloria di Dio, deve responsabilmente prendere su di sé il peso della metafisica».

Nel nostro impegno pastorale, dunque, non possiamo dimenticare la dottrina, anche se dobbiamo aiutare l’uomo a riscoprire il proprio nesso con il mistero, con la verità ultima delle cose, che a tanti appare lontana. Possiamo dire che la nostra missione, come quella del Battista, consiste nel preparare gli uomini all’incontro con Cristo. Egli è la verità, perché in Lui il fondamento coincide con il fenomeno, l’apparenza mostra l’essenza, la carne esprime il divino.

L’amico dello Sposo

Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta (Gv 3,29). Il Battista identifica Gesù con lo sposo, con colui che compie le nozze fra Dio e il suo popolo. Gesù stesso confermerà tale identificazione parlando del digiuno dei suoi discepoli: Possono forse gli invitati a nozze digiunare quando lo sposo è con loro? (Mc 2,18).

Il sacerdote è l’amico dello Sposo e partecipa in modo unico alle nozze fra il cielo e la terra. Il sacerdote è anche identificato con la persona di Cristo, chiamato ad agire in persona Christi capitis, ed è perciò sposo della Chiesa. La chiamata alla verginità del sacerdote non si basa dunque soltanto sul battesimo, ma trova un’ulteriore ragione nel sacramento dell’ordine. Giovanni Paolo II lo ha spiegato in modo chiaro: «[La legge ecclesiastica sul celibato] esprime la volontà della Chiesa, prima ancora che la volontà del soggetto […]. Ma la volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l’Ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo, capo e sposo della Chiesa. La Chiesa, come sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo, capo e sposo, l’ha amata. Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore».

Il sacerdote è chiamato a entrare nel mistero della donazione di Cristo alla Chiesa. Per questo è necessario un sacrificio, tanto che il sacerdote rinuncia alle nozze con una donna. Egli però, come il Battista, sentendo la voce dello sposo, cioè accogliendo la parola di vita di Gesù, può sperimentare la gioia immensa delle nozze eterne, partecipando all’unione fra cielo e terra. Giussani dice che la forma di vita di chi si consacra a Dio permette di «penetrare in quel fenomeno di sponsalità totale con tutti e con tutte le cose, che è la promessa della realtà di Cristo». Il sacerdote vive tutti i rapporti, in particolare quelli con le donne, in un atteggiamento di rispetto, servizio e protezione, come san Giuseppe con la Madonna.

Giovanni è il precursore, il servitore umile, il testimone della verità, il profeta dell’Altissimo e l’amico dello Sposo. Chiediamogli di accompagnare il nostro cammino in questo tempo di avvento. Egli può aiutarci a conoscere Dio e noi stessi, rendendo la nostra vita realmente feconda

sabato 8 dicembre 2018

Ora et labora.net: Testamento spirituale del Padre Christian de Chergé

 Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996, sette dei nove monaci trappisti che formavano la comunità del monastero di Tibhirine, fondato nel 1938 vicino alla città di Médéa 90 km a sud di Algeri, furono rapiti da un gruppo di terroristi. Il 21 maggio dello stesso anno, dopo inutili trattative, il sedicente « Gruppo Islamico Armato » ha annunciato la loro uccisione. Il 30 maggio furono ritrovate le loro teste, i corpi non furono mai ritrovati.

Frère Christian de Chergé, priore della comunità, 59 anni, monaco dal 1969, in Algeria dal 1971. La personalità forte, umanamente e spiritualmente, del gruppo. Figlio di generale, ha conosciuto l’Algeria durante tre anni della sua infanzia e ventisette mesi di servizio militare in piena guerra d’indipendenza. Dopo gli studi al seminario dei carmelitani a Parigi, diventa cappellano del Sacré Coeur di Montmartre a Parigi. Ma entra ben presto al monastero di Aiguebelle per raggiungere Tibhirine nel 1971. È lui che fa passare l’abbazia allo statuto di priorato per orientare il monastero verso una presenza di “oranti in mezzo ad altri oranti”. Aveva una conoscenza profonda dell’islam e una straordinaria capacità di esprimere la vita e la ricerca della comunità.


Quando si profila un ad-Dio

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.

Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.

La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.

Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.

Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio.

Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la «grazia del martirio», il doverla a un algerino chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam.

So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.

L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa; sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.

Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: «Dica adesso quel che ne pensa!». Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità.

Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.

Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.

In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!

E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen!  Insc’Allah


Algeri, 1º dicembre 1993

Tibhirine, 1º gennaio 1994

Christian †