lunedì 28 settembre 2020

Gesuiti.it: Leggi della Crescita

 LEGGI DELLA CRESCITA




1.  Crescere in una relazione

 Non si cresce da soli, si cresce soltanto in una relazione: in risposta a un appello, accordando la propria fede a una parola. Un bambino diventa uomo solo in risposta alla parola dei suoi genitori che lo chiamano a crescere, a entrare in relazione con altri. Solo dando fiducia alla loro parola egli entrerà nella società degli uomini.

Colui che non ha relazioni vere non crescerà; e, parlando di relazioni, io penso tanto alle relazioni interpersonali quanto all’inserimento in gruppi o in comunità costituite. E’ stato detto che le età della fede coincidono con le età della relazione: capacità di fede adulta e di relazione adulta vanno di pari passo. Ciascuno di noi riproduce nella sua relazione con Dio le caratteristiche della sua relazione con gli altri: possessività o oblatività, aggressività o fiducia.

L’esempio dei santi ci ricorda che si cresce nella fede solo crescendo nell’amore e nella carità. Ora, l’amore cresce solamente se supera lo stadio fusionale e narcisista nel quale nasce. Si voleva, di due, diventare uno… perché si ha paura di rimanere soli. Si ama perché si vorrebbe essere amati. Ma l’amore merita questo nome solo quando tende a oltrepassare questo clima fusionale per diventare amore dell’altro in se stesso, nel rispetto e nell’accettazione della sua differenza.

Lo stesso succede della mia relazione con Dio. Incontrare Dio è sempre un’avventura piena d’imprevisti in cui occorre continuamente accettare di perdere colui che si credeva di aver trovato. Il desiderio stesso di Dio, se è profondo e vivo, mi condurrà a fare l’esperienza dell’assenza di Dio. La fedeltà alle esigenze dell’amore conduce i mistici a fare l’esperienza della notte. Gesù non ha forse detto ai dodici: «E’ bene per voi che io me ne vada»?

Crescere in una relazione, significa accettare le morti che l’incontro dell’altro mi fa vivere.


2.  Crescere in una storia

 La crescita avviene soltanto nel tempo: accettato, riconosciuto, dominato; dunque nel rifiuto dell’immediatezza: nella rinuncia alla pretesa del tutto e subito. Il presente è senz’altro il luogo della conversione: «oggi è il giorno della salvezza». Ma il presente assume un significato cristiano soltanto se è riferito a un passato di grazia e si apre su un avvenire di promesse. Per crescere nello Spirito bisogna vivere il presente nel ringraziamento e nella speranza; o, se si vuole, bisogna vivere i tre aspetti del tempo—passato, presente e futuro—nel far memoria, nell’accoglienza e nella speranza.


a) Il passato vissuto come memoriale

 La tradizione spirituale è unanime nel sottolineare l’importanza della memoria. «Maria conservava fedelmente tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2,51). Il memoriale è al centro della fede d’Israele: fare memoria dei doni di Dio, riconoscere Dio come colui il cui amore ci precede sempre, rileggere la propria vita come oggetto della benedizione di Dio, meravigliarsi di esistere nella grazia e nella benevolenza di Dio. Si tratta di scoprire il presente in questa continuità dei doni di Dio per coglierne la verità, la novità, l’originalità.

La crescita comincia con la memoria: è vero per gli individui e per i popoli sul piano culturale, è vero sul piano spirituale. Senza questa volontà di accogliere e di custodire i doni di Dio non c’è progresso spirituale possibile. Lo testimonia la tradizione cristiana che ha fatto nascere un genere letterario originale: l’autobiografia spirituale. Agostino, Ignazio di Loyola, Teresa d’Avila e molti altri ne sono un esempio. Cedendo a domande o pressioni fraterne, hanno accettato di rileggere la loro vita alla luce di Dio. Hanno spesso incominciato questo lavoro a malincuore, temendo di impiegare male il loro tempo, temendo di soddisfare una vanità nascosta, ma tutti hanno testimoniato che questo sforzo è stato per loro sorgente di un vero profitto spirituale. Il ricordo del passato ha suscitato in loro un profondo senso di gratitudine e ciò che avrebbe potuto essere soltanto una autobiografia personale è diventato un canto di lode alla misericordia di Dio, il magnificat della loro vita.


b) Il presente accolto nella fede

 Questo presente, che il memoriale iscrive nella continuità dei doni di Dio, dobbiamo accoglierlo come è, come ci è offerto con i suoi limiti e i suoi condizionamenti. Non c’è nemico più subdolo della crescita umana e spirituale dell’idealismo e dei suoi rifugi immaginari: si sogna la propria vita invece di viverla, si mette l’essenziale altrove e domani. Si sognano dei cambiamenti, di ripartire da zero invece di vivere l’oggi di Dio. La verità della crescita spirituale si riconosce dalla capacità dell’individuo di affrontare il reale quale è. Il reale è ciò che mi circonda con tutte le dimensioni: la mia personalità con tutte le sue componenti, il mio ambiente di vita, la chiesa nella quale sono chiamato ad accogliere il Vangelo. . .

Il reale, sono anche i miei limiti e il mio peccato. Non si va a Dio «nonostante» i propri sbagli, si va a Dio «con» i propri sbagli. E c’è crescita vera solo se passa attraverso l’umile accettazione dei propri limiti e del proprio peccato. Lo Spirito può raggiungerci nei nostri sogni, ma sarà sempre per condurci al quotidiano della nostra vita. Tutto ciò che ci distoglie dal quotidiano ci distoglie dallo Spirito di Gesù.

Questo significa inoltre che non c’è crescita spirituale in direzione opposta ai segni dei tempi come sono percepiti nella comunione dei santi. Si è talvolta abusato di questa nozione di «segni dei tempi», dimenticando che si tratta di richiami dello Spirito. Dove riconoscerli meglio che nella familiarità con i santi di un’epoca? Di qui l’importanza, per crescere, di accogliere il presente partendo dalla corrente di santità che caratterizza una generazione e dalle convergenze che essa esprime. Non si potrebbe dire oggi che la santità del nostro tempo si riconosce in uno sforzo particolare per unire lotta e contemplazione, battaglia per la giustizia e testimonianza di fede?


c) Il futuro atteso nella speranza

 L’incontro con Dio apre sempre su una promessa, un avvenire… Ciò significa che esso suppone un rischio e una rottura. C’è crescita soltanto nella accettazione di un rischio, di una partenza. Bisogna lasciare qualche cosa per un avvenire… saper attendere, sperare nella fede. Occorre sempre dire di sì a un dono e a un abbandono. Bisogna accettare di perdere la propria vita per trovarla. Ogni esperienza per quanto felice e appagante non è che un punto di partenza per una nuova ricerca, una nuova partenza.

Il Dio che dà un significato alla mia vita, il Dio che è luce e forza… il Dio che ho trovato, diventa il Dio assente che devo cercare ancora per trovarlo meglio. Questa assenza di Dio non sarà un ritorno al di qua dell’incontro, ma sarà un appello ad andare al di là. Ciò significa che c e crescita solo attraverso crisi e distacchi…. perché in essi e soltanto attraverso essi noi possiamo aprirci all’avvenire di Dio.

L’orizzonte delle promesse è sempre davanti a noi, ma noi siamo continuamente tentati di ridurlo all’orizzonte delle nostre speranze o dei nostri desideri, gretti e limitati nella loro stessa generosità.


venerdì 25 settembre 2020

Come se non, Andrea Grillo: “Ciò che non muore e ciò che può morire”: eutanasia, buona morte, diritto di vivere e diritto di morire


La lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede “Samaritanus bonus”, fin dalle sue prime righe, pone la questione delicatissima della “cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita” all’interno del rapporto tra teologia e tecnologia. Nuovi strumenti di “rianimazione” e di “sedazione” permettono di articolare diversamente le procedure con cui gli uomini e le donne giungono al termine dei propri giorni. Una grande “potenza di mediazione” è ricchezza e povertà, crea nuove opportunità e nuovi “scarti”. Dunque si tratta di coniugare i principi di civiltà con un contesto di circostanze in larga parte nuove, che possono smentire ogni principio o permettere di applicarne la forza con nuovo e particolare discernimento. Vorrei esaminare brevemente la struttura del documento per poi porre alcune osservazioni, di carattere sistematico, su una questione fondamentale.

La struttura del documento

Dopo aver rilevato, in fase introduttiva, la stretta correlazione tra compito etico e novità tecnologiche, il documento inizia (§.1) dal “paradigma della cura del prossimo” come orizzonte di senso della “cura medica”, la quale, pur sperimentando il limite della inguaribilità dei pazienti, non rinuncia mai al prendersi cura della persona inguaribile. Il Samaritano è qui il modello di buona cura del prossimo. Ma Cristo sofferente crocifisso (§.2) è non solo il riferimento, ma la “scena corale” che può ispirare la esperienza del dolore e della fine, da parte del paziente e dei suoi cari. Lo “stare” accanto al paziente, nei diversi luoghi di commiato dalla vita, diventa passaggio ecclesialmente e culturalmente qualificante. Ciò conduce (§.3) alla valorizzazione del Samaritano come “un cuore che vede”, un uomo che vede col cuore. La compassione apre alla scoperta del dono della vita e alla disponibilità a prendersi cura della vita altrui. In questo la Chiesa fa una esperienza di vocazione che si riflette anche in una evidenza naturale, che perciò chiede a tutti gli uomini di riconoscere come bene indisponibile la vita, propria e altrui. Ma queste evidenze conoscono una crisi dovuta a diversi fattori (§.4): i concetti di “qualità della vita”, di “morte degna”, di “compassione” rischiano di oscurare il valore della vita e di subordinarlo a sentimenti o inclinazioni nelle quali il bene e il male di confondono e si scambiano di posto. Tutto questo dipende, in ultima analisi, da un individualismo che caratterizza le società tardo-moderne e che produce una “cultura dello scarto” che prende spesso il tono e lo stile della “cultura di morte, per la quale eutanasia e suicidio assistito appaiono non come sconfitte, ma come illusorie soluzioni.


La sintesi magisteriale

Di fronte a questo quadro spirituale e contestuale, la sintesi che il magistero ha elaborato è complessa, poiché salvaguarda, contemporaneamente, il valore della vita e il diritto alla morte. Proprio questa articolazione della parte magisteriale indica, in modo evidente, che l’approccio non può che essere complesso e articolato, e implica un discernimento strutturale. Vengono così elencati 12 punti, per i quali rimando al testo della Lettera e mi limito a segnalarne il titolo:


1) il divieto di eutanasia e suicidio assistito

2) obbligo morale di escludere l’accanimento terapeutico

3) le cure di base: alimentazione e idratazione

4) le cure palliative

5) Il ruolo della famiglia e gli hospice

6) L’accompagnamento e la cura in età prenatale e pediatrica

7) Terapie analgesiche e soppressione della coscienza

8) Lo stato vegetativo e lo stato di minima coscienza

9) L’obiezione di coscienza di operatori e istituzioni

10) L’accompagnamento pastorale e il sostegno dei sacramenti

11) Il discernimento pastorale verso chi chiede eutanasia e suicidio assistito

12) La riforma del sistema educativo e della formazione degli operatori sanitari


Per lo più ogni tema è svolto con ampiezza e respiro. Si trovano, tuttavia, alcune affermazioni in cui, proprio quel discernimento che guida in generale il tenore del documento, sembra un poco vacillare. In particolare molto delicata risulta la “gestione” della presenza ecclesiale – da parte soprattutto dei cappellani – in contesto di decisioni per la eutanasia o il suicidio assistito. L’utilizzo della assoluzione posticipata – per favorire la conversione – e l’obbligo di assenza ecclesiale al momento della morte di chi ha scelto l’eutanasia non sono soluzioni che possano dirsi “univoche”. In questo caso, pur non potendosi certo mai escludere le prassi indicate, discernimento vorrebbe che, di volta in volta, si potesse stabilire, in base alle storie concrete dei soggetti e dei contesti,  quale sia la scelta migliore. Il documento afferma con assoluta recisione, a proposito di una presenza del cappellano al momento in cui la eutanasia viene praticata al soggetto: “Tale presenza non può che interpretarsi come complicità”: forse il discernimento, se riferito al Samaritano, potrebbe essere qui un po’ meno drastico e tassativo.


La riflessione sistematica

Come dicevo all’inizio, l’orizzonte in cui la “cura del Samaritano” viene assunta come modello e come norma deve essere collocato in un mondo pieno di mediazioni, di vita e di morte, di cui la Chiesa ha ben chiara la potenza e di cui deve proporre adeguato discernimento. Qui vorrei allora suggerire un metodo di lettura del testo. Se lo leggiamo, proprio nel suo paragrafo decisivo dal punto di vista magisteriale (§. 5.), come un  semplice elenco, non capiamo la complessità delle questioni. Proprio perché il dono della vita viene rispettato non semplicemente perché “non si uccide”, ma perché “si consente di morire”. Eutanasia, aiuto al suicidio e accanimento terapeutico sono “concetti limite”, fattispecie normative e concettuali che devono essere collocate nello spazio e nel tempo. Non vi è legge oggettiva che dispensi dal male né legge oggettiva che assicuri il bene. Senza discernimento la giustizia non è mai assicurata. Pertanto non siamo dispensati, anche di fronte alle forme dell’”intrinsece malum”, dal necessario discernimento. Non vi è dubbio infatti che eutanasia e suicidio siano un male, così come è un male accanirsi nelle terapie. Ma la distinzione tra i due mali non è mai così semplice e non si lascia trattare semplicemente come una “evidenza immediata”. Per questo anche ciò che è “intrinsecamente un male” – come “uccidere” e  “levare la vita” – deve essere posto nel contesto suo proprio per essere giudicato in senso definitivo. La intrinsecità del male – che è concetto limite irrinunciabile – non può mai prescindere dalla “estrinsecità delle circostanze”, che possono diminuire o annullare la qualità negativa della azione.


Un testo da discutere

Verso la fine del terzo paragrafo, per sottolineare il valore inviolabile del dono della vita il documento scrive:

“Pertanto, sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà, fortemente condizionata dalla malattia e dal dolore, e il valore della sua vita, negandogli ogni ulteriore possibilità di relazione umana, di senso dell’esistenza e di crescita nella vita teologale. Di più, si decide al posto di Dio il momento della morte.”

Vorrei soffermarmi sull’ultima frase: si decide al posto di Dio il momento della morte. Questo modo di pensare e di parlare, che resta immediato e fondato, deve però tener conto che le “mediazioni terapeutiche” di fatto hanno profondamente alterato questa esperienza di vita/morte. E lo hanno fatto, per lo più, dilatando i “tempi della vita”. Chinino, penicillina, vaccini, operazioni chirurgiche, macchine della rianimazione hanno “alterato” il corso naturale delle cose. Pertanto abbiamo oggi “condizioni di vita (e di morte)” che sono profondamente alterate dall’intervento umano. Questo complica molto il giudizio che possiamo e dobbiamo dare sui soggetti implicati in “fasi terminali”. Ad es., se una macchina della rianimazione ha ridato respiro e battito cardiaco ad un paziente, e lo restituisce al cosiddetto “stato vegetativo”, che è in larga parte una “creazione umana”, come si deve distinguere, in tal caso, l’accanimento terapeutico da evitare dalla eutanasia da escludere? In quale senso “Dio vuole” ciò che l’uomo ha prodotto? La risposta alla domanda implica competenze strettamente tecniche e giudizi “in loco”, non semplici evidenze morali. Pensare di risolverla soltanto in base a principi astratti rischia di dimenticare che, in questi casi, l’atto morale pertiene rispettivamente al malato, ai suoi parenti stretti, e al medico. E questo imbarazzo morale sta in equilibrio precisamente tra quei “concetti opposti” (eutanasia e accanimento terapeutico) che nella realtà sono profondamente correlati e intricati. Potremmo dire che il dissidio sta proprio tra i due sensi diversi di eutanasia: tra eutanasia come “decido io quando morire” e eutanasia come “morire bene, in pace, in compagnia”. Certo non si possono identificare, ma neppure si possono opporre.

Questo non significa affatto che debbano tramontare le evidenze etiche, il valore indisponibile della vita in ogni suo momento e la dignità di ogni persona umana. Ma che questi principi giudicano fattispecie ogni volta diverse, che come tali devono essere considerate, con tutte le loro specificità. Perché la verità risplende solo se di volta in volta la luce è assicurata e donata. E la luce viene non solo dal cuore, ma anche dalle parole. La indisponibilità del bene della vita, propria e altrui, è il grande mistero di Dio e del prossimo. Ma Dio, nella sua misericordia, passa non solo nei cuori, ma anche nelle parole. Così, al cuore della moglie, lacerato dalla scelta suicida del marito, gettatosi nel fiume, il Curato d’Ars diceva: “Dio tra il ponte e l’acqua può fare miracoli”. Così di fronte alle forme attuali di gestione più o meno responsabile dei passaggi finali della vita terrena, un uso accurato delle parole, un giudizio equilibrato sulle leggi oggettive e sui discernimenti soggettivi diventa la via obbligata perché il modello del Buon Samaritano e del Cristo sofferente possano ispirare i cuori, guidare la prassi e suggerire alle bocche e alle menti “la preferenza progressiva per le parole e i concetti più semplici, più sereni e più pacificanti”. Perché alle questioni complesse non si danno mai soluzioni troppo semplici e dirette, mentre la distinzione tra ciò che non muore e ciò che può morire non è mai limpida e immediata, ma esige sempre grande fede, accesa speranza e tanta carità

martedì 22 settembre 2020

LA STAMPA, Vatican Insider: Comunione sulla lingua e nella mano, precisazioni per i tempi del coronavirus

La riflessione di Iacopo Iadarola, carmelitano scalzo: non è affatto un abuso liturgico ricevere la Comunione nella mano, come affermato in maniera incosciente e temeraria da alcun



L’emergenza creata dal Covid-19 ha fatto affiorare la dolorosa necessità di rivedere le nostre abitudini in ogni campo dell’esistenza, comprese le nostre abitudini liturgiche. Lo scambio della pace durante la celebrazione eucaristica, ad esempio, in base agli accordi presi tra la Conferenza episcopale italiana e il Governo Italiano, è stato sospeso; così come la possibilità di segnarsi con l’acqua benedetta all’ingresso in Chiesa e di ricevere la Comunione sulla lingua. 

Riguardo a quest’ultima pratica, ribadiamo anzitutto la dignità e la bellezza di questa plurisecolare e venerabile tradizione, che evidenzia in maniera quanto mai congrua l’importanza del Santissimo Sacramento e la giusta reverenza che deve essergli tributata nell’atto della sua ricezione. Il ricevere la Comunione sulla lingua è inoltre la norma universalmente indicata dal magistero della Chiesa, e che pertanto in situazione di normalità i fedeli potrebbero sempre liberamente preferire: prima di altre considerazioni, quindi, solidarietà e rispetto, senza frettolosi giudizi, vanno portati a coloro che sinceramente soffrono di non poter ricevere la Comunione in questo modo. 

Al contempo, tuttavia, non si può non ribadire che questa plurisecolare tradizione è appunto una tradizione, non un dogma di fede ma rientrante in quella disciplina ecclesiastica che nella Chiesa è cambiata più volte nei diversi periodi storici e nelle diverse regioni. Com’è risaputo, in Italia e in moltissimi altri Paesi dell’orbe cattolico, la Santa Sede, ovvero la suprema autorità pontificia, ha acconsentito alla richiesta dei Vescovi (secondo una facoltà concessa dalla stessa Santa Sede) a che la Comunione potesse essere amministrata anche nelle mani dei fedeli, secondo un’altra plurisecolare e venerabile tradizione attestata da fior fiore di santi e Padri della Chiesa: tradizione peraltro molto più antica e quindi più «tradizionale» di quella della Comunione data sulla lingua, e non meno nobile e dignitosa. Eccone un paio di attestazioni fra le moltissime che si potrebbero addurre [1]: 

«Quando ti avvicini, non avanzare con le palme delle mani distese, né con le dita disgiunte; invece, fai della tua mano sinistra un trono per la tua mano destra, poiché questa deve ricevere il Re e, nel cavo della mano, ricevi il corpo di Cristo, dicendo “Amen”. Santifica dunque accuratamente i tuoi occhi mediante il contatto con il corpo santo, poi prendilo e fai attenzione a non perderne nulla. Ciò che tu dovessi perdere, infatti, è come se perdessi una delle tue membra. Se ti dessero delle pagliuzze d'oro, non le prenderesti con la massima cura, facendo attenzione a non perderne nulla e a non danneggiarle? Non farai dunque assai più attenzione per qualcosa che è ben più prezioso dell'oro e delle pietre preziose, in modo da non perderne neppure una briciola? Dopo esserti comunicato al corpo di Cristo, avvicinati anche al calice del suo sangue. Non distendere le tue mani, ma inchinato, e con un gesto di adorazione e rispetto, dicendo, “Amen”, santifica te stesso prendendo anche il sangue di Cristo. E mentre le tue labbra sono ancora umide, sfiorale con le tue mani, e santifica i tuoi occhi, la tua fronte e gli altri tuoi sensi. Poi, aspettando l'orazione rendi grazie a Dio che ti ha stimato degno di così grandi misteri» (San Cirillo di Gerusalemme, Vescovo e Dottore della Chiesa [315-386], Catechesi mistagogiche, V, 21-22).

«Dimmi, andresti con mani non lavate all’Eucaristia? Penso di no. Preferiresti piuttosto di non andarci, anziché andare con mani sporche. In questa piccola cosa sei attento, e poi osi andare a ricever l'Eucaristia con l'anima impura? Ora con le mani tieni il Corpo del Signore solo per breve tempo, mentre nell'animo vi rimane per sempre» (San Giovanni Crisostomo, Vescovo e Dottore della Chiesa [350-407], Omelia sulla lettera agli Efesini, 3,4).


Un abuso liturgico?

Ma lungi da noi, e lungi dalla mentalità dei vescovi e dei Papi, voler stabilire una graduatoria delle modalità di ricevere la Comunione nelle regioni in cui da essi stessi è stata autorizzata la duplicità di uso, sulla mano e sulla lingua, quasi che l’una fosse di serie A e l’altra di serie B o viceversa. Ricordiamo ciò soltanto per appurare che la scelta, concordata dai nostri vescovi col Governo Italiano, per l’attuale emergenza, di adottare la Comunione esclusivamente nella mano è la scelta, limitata nel tempo e ragionevolmente argomentata [2], di ricorrere ad una disciplina ecclesiastica riconosciuta da tempi immemorabili nella Chiesa e assolutamente lecita, nei luoghi in cui è stata adottata, a prescindere dall’attuale emergenza pandemica: la Comunione nella mano, che non è affatto un abuso liturgico come affermato in maniera incosciente e temeraria da alcuni.

Infatti, la possibilità di amministrare e ricevere la Comunione anche nella mano, recuperando l’uso dei primi secoli della storia della Chiesa, è stata una possibilità rimessa alla discrezione delle Conferenze episcopali nazionali (sempre ovviamente dietro conferma della Santa Sede) da San Paolo VI mediante l’istruzione della Sacra Congregazione per il Culto Divino Memoriale Domini del 29 maggio 1969; tale possibilità è stata riaffermata dall’istruzione della Sacra Congregazione per la Disciplina dei Sacramenti Immensae caritatis (29 gennaio 1973), dalle premesse del Rito della Comunione fuori della Messa e Culto Eucaristico (17 giugno 1979, cf. n° 21), dalla Notificatio de s. Communione in manu distribuenda della Sacra Congregazione per il Culto Divino (3 aprile 1985, cf. nn° 3.4.7); tale possibilità, infine, è stata disciplinarmente adottata dalla Conferenza episcopale italiana, dopo aver ottenuto la prescritta recognitio della Santa Sede, con decreto del 19 luglio 1989. 

In tempi più recenti, la possibilità della comunione nella mano previa richiesta delle Conferenze episcopali e autorizzazione della Santa Sede è stata ribadita dalla Institutio Generalis Missalis Romani nella sua terza edizione tipica del 2002 e dall’istruzione Redemptionis sacramentum della Sacra Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti del 25 marzo 2004. Come è naturale, tutti questi documenti sono stati vidimati dalla Santa Sede ovvero dai coevi Papi, quindi oltre che di san Paolo VI hanno ricevuto il placet anche di san Giovanni Paolo II [3]; da ultimo Papa Francesco ha ricordato la possibilità della Comunione nella mano, nei luoghi dove è stata autorizzata, nell’Udienza generale del 21 marzo 2018. 

Sulla scorta, dunque, di questa più che consolidata e legittimata possibilità, pensare che i vescovi italiani in questo tempo di coronavirus ci stiano imponendo di compiere un sacrilegio o un abuso nel chiederci di ricevere la Comunione nella mano significa non soltanto ignorare il loro magistero e l’autorità pontificia che lo ha confermato, ma anche disconoscere la parola del Divino Maestro il quale ha chiaramente detto ai suoi discepoli e apostoli: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato» (Lc 10,16); «In verità, in verità io vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13,20); e dell’Apostolo Paolo il quale così si è rivolto ai pastori delle Chiese: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio» (At 20,28).

È chiaro che un singolo pastore può sbagliare e farsi tramite opaco della volontà del Signore (e quanto più in questa sconvolgente pandemia è stata esperienza comune, dai vescovi ai virologi, quella di dover navigare a vista!), ma non è lecito al fedele – e materia di peccato anche grave – diffidare riottosamente di quanto i vescovi dispongono collegialmente nel loro magistero ordinario, secondo le leggi della Chiesa e il Diritto canonico cui ogni fedele è vincolato: «Non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell'intelletto e della volontà deve essere prestato alla dottrina, che sia il Sommo Pontefice sia il Collegio dei Vescovi enunciano circa la fede e i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intendono proclamarla con atto definitivo; i fedeli perciò procurino di evitare quello che con essa non concorda» (can. 752) [4].

Rifiutare di ascoltare quello che i nostri vescovi, in comunione col Papa, ci chiedono ufficialmente e pubblicamente di fare [5] e correre al contempo a infarcirsi la testa di contro-informazioni pescate nella rete da questo o quest’altro studioso o prelato, da questa o quest’altra mistica o veggente [6] che parla a titolo esclusivamente personale e non è in alcuna maniera rappresentativo o rappresentativa dell’insegnamento della Chiesa Cattolica, se perpetrato con ostinazione, è un atteggiamento che macchia la coscienza e indispone ad una retta ricezione della Comunione eucaristica molto più di quanto lo farebbe un’indegna ricezione fisica, sulle mani non lavate ad esempio, o sulla lingua ma senza aver fatto precedere il debito digiuno. 

È un atteggiamento, soprattutto, che avvelena l’anima, instilla sfiducia, corrompe il senso di comunione nella Chiesa, fa credere che ci siano piani demoniaci ovunque nei confronti dei quali i nostri pastori sarebbero vittime più o meno complici. La santa madre Chiesa gerarchica, da amare e cui obbedire sempre e docilmente, da nostra madre diventa in tal modo una povera ebete da correggere con la matita rossa e blu, come se ne fossimo noi la madre, senza fede nella promessa di Nostro Signore che «le potenze degli inferi non preverranno su di essa» (Mt 16,18) ma anzi tenendola in dispregio, agendo e pensando come se tali potenze avessero già da tempo prevalso.


E la Comunione nel fazzoletto?

In tal modo, si disprezzano gli orientamenti disciplinari legittimamente dati dai vescovi e dalla Santa Sede, e se ne adottano altri dati privatamente e senza alcun mandato ecclesiastico, come quelli propalati da coloro che inculcano nei fedeli la moda di usare dei fazzoletti per ricevere la Comunione in mano [7]: questo sì un vero abuso liturgico che non trova riscontro in nessun documento disciplinare attualmente vigente e che espone il fedele che fa uso di tali pannolini al rischio di reali profanazioni per il suo non essere stato debitamente istruito su come purificare un tessuto che è stato a contatto con le santissime specie eucaristiche (per non parlare poi del rischio di facilitare il lavoro ai malintenzionati che potrebbero meglio sottrarre alla vista dei ministri il furto dell’Eucaristia, fingendo di adoperare questo sistema). E insieme a questi ricettacoli di stoffa, l’uso di piattini di metallo o simili, sempre più in voga in questi ultimi tempi da parte di coloro che non vogliono «sottomettersi all’abuso di ricevere la Comunione nelle mani», è stato addirittura fatto in passato oggetto di scomunica dal Concilio Quinisesto con queste motivazioni più attuali che mai:

«Il divino Apostolo a gran voce proclama che l’uomo creato a immagine di Dio è corpo di Cristo e tempio (cf. 1Cor 12,27; 2Cor 6,16). Ergendosi, quindi, al di sopra di tutta la creazione sensibile, e avendo raggiunto una dignità celeste in virtù della passione salvifica, mangiando e bevendo Cristo armonizza la sua anima e il suo corpo alla vita eterna, santificandosi mediante la partecipazione alla divina grazia. Perciò se qualcuno desidera prendere parte all’immacolato Corpo durante la sinassi e unirvisi essenzialmente, ponga le sue mani a forma di croce e, avvicinandosi, così riceva la Comunione alla grazia. Ciò perché ripudiamo coloro che fabbricano certi recipienti d'oro, o di qualsiasi altro materiale, da usare al posto della loro mano per ricevere il dono divino, chiedendo di prendere la santa Comunione in tali ricettacoli: essi preferiscono la materia inanimata e un elemento inferiore all'immagine di Dio [che essi sono]. Nel caso, quindi, che qualcuno sia colto nell'atto di amministrare la santa Comunione a coloro che presentano tali ricettacoli, sia scomunicato sia lui stesso sia coloro che li presentano» (can. 101) [8].


“Bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiera ordinata…”

Dell’attualità di questi atteggiamenti, ricorrenti nella storia della Chiesa, Papa Francesco ha ben parlato in questo brano della sua splendida esortazione apostolica Evangelii gaudium, additando «il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente. Sono manifestazioni di un immanentismo antropocentrico».

Nondimeno, siamo certi che coloro che avvertono disagio nel ricevere la Comunione nella mano non vanno affatto classificati secondo queste parole; vivono tale disagio in buona fede e con retta coscienza, per un sincero amore per Gesù Sacramentato e per zelo nei suoi confronti, consolidato nella pratica di ricevere la Comunione sulla lingua. In moltissimi casi costoro sono nostri parrocchiani esemplari, collaboratori generosi e dediti nel servizio quotidiano. Spesso sono anche di stimolo per tutti nel ricevere la santissima Eucaristia con le debite disposizioni interiori ed esteriori. A questo riguardo, prendendo esempio dal loro zelo, non sarebbe forse fuori luogo riproporre le catechesi auspicate dai vescovi italiani nel 1989 prima della reintroduzione della prassi di ricevere la Comunione nella mano, rammentando ai fedeli la debita riverenza con cui questa prassi va vissuta: nella postura del corpo, nei movimenti delle mani, nella risposta orale, nell’attenzione a non disperdere eventuali frammenti: di modo che sia espressa la debita devozione e non sia data impressione alcuna di sciatteria. 

Non possiamo tuttavia non ricordare a coloro che a buon diritto preferiscono la Comunione sulla lingua che tale lodevolissima pratica è stata soltanto differita [9] – quod differtur non aufertur – e che non c’è alcuna sotterranea campagna abolizionista come troppi cattivi maestri insegnano. Senza sterili allarmismi, si dorma sereni e fiduciosi fra le braccia della nostra madre la santa Chiesa e si colga questo drammatico frangente come opportunità per comprendere meglio, con le parole di san Paolo VI, che se nell’Eucaristia v’è una presenza reale da onorare, essa può e deve essere onorata con tutto il nostro essere: lingua, mani e cuore docile; e che non meno reale [10] è la presenza di Cristo da onorare nella Sua Parola [11], nel povero [12], in quella santa Comunione che è la Chiesa: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). E Comunione gerarchica, in cui i fedeli obbediscono ai pastori e i pastori sono al servizio dei fedeli, quale acies ordinata che il santo Concilio di Trento non disdegna di paragonare alla Sposa del Cantico dei Cantici: «Chi è costei che sorge come l'aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiera ordinata?» (Ct 6,9) [13].


* Carmelitano scalzo

NOTE 


1)  Per queste e altre citazioni cf. Modalità per la distribuzione della Santa Comunione, in «Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana» n° 7, 1 settembre 1989, 193-210.


2)  Ogni ministro sa bene che, nel distribuire l’Eucaristia sulla lingua, è praticamente impossibile non venire a contatto con le particelle di saliva del fedele e pertanto, in caso di persona affetta da coronavirus, il contagio sarebbe praticamente automatico non solo per il ministro ma soprattutto per i successivi fedeli in attesa di ricevere la Comunione dal medesimo ministro. La raccomandazione di distribuire la Comunione nella mano è stata ulteriormente ribadita dal Viminale e accolta dalla Conferenza Episcopale Italiana in data 26 giugno 2020, come pubblicato sul sito internet della medesima e nei comunicati ufficiali delle diocesi italiane. Con sana elasticità, è chiaro che possono essere state riconosciute in questa o quell’altra diocesi deroghe, per casi particolari ed eccezionali, rispetto all’indirizzo generale di non dare la comunione sulla lingua finché non sia rientrata l’emergenza della pandemia. 


3)  Il quale, nella lettera Dominicae cenae del 24 febbraio 1980, deplorando le mancanze di rispetto che si erano potute verificare nel ricevere l’Eucaristia nella mano da parte di alcuni fedeli, puntualizza che queste mancanze non sono certo da imputarsi a tale pratica in sé e che «scrivendo questo non ci si vuole in alcun modo riferire a quelle persone che, ricevendo il Signore Gesù sulla mano, lo fanno con spirito di profonda riverenza e devozione, nei paesi dove questa pratica è stata autorizzata» (cf. n°11).


4) Non si dimentichi che la Chiesa nella sua materna sapienza concede anche il diritto e il dovere a manifestare il proprio pensiero e le proprie riserve, in taluni casi, ferma restando la «cristiana obbedienza» ai suoi pastori: cf. can. 212 del Codice di diritto canonico. Utilissima in questo ambito anche l’istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede Donum veritatis sulla perfettibilità dei pronunciamenti magisteriali e sui termini di un legittimo dissenso teologico: «Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora contribuire ad un reale progresso, stimolando il Magistero a proporre l’insegnamento della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato. In questi casi il teologo eviterà di ricorrere ai “mass-media” invece di rivolgersi all’autorità responsabile, perché non è esercitando in tal modo una pressione sull’opinione pubblica che si può contribuire alla chiarificazione dei problemi dottrinali e servire la verità […]. Davanti ad un’affermazione, alla quale non sente di poter dare la sua adesione intellettuale, il suo dovere è di restare disponibile per un esame più approfondito della questione. Per uno spirito leale ed animato dall’amore per la Chiesa, una tale situazione può certamente rappresentare una prova difficile. Può essere un invito a soffrire nel silenzio e nella preghiera, con la certezza che se la verità è veramente in causa, essa finirà necessariamente per imporsi» (nn° 30-31). 


5) Riguardo all’obbedienza nei confronti delle disposizioni sanitarie cf. ad esempio le parole di Papa Francesco: «In questo tempo nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell'obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni» (omelia della Messa a Santa Marta del 28 aprile 2020); «La fase acuta dell’epidemia è superata, anche se rimane la necessità – ma state attenti, non cantare vittoria prima, non cantare troppo presto vittoria! – di seguire con cura le norme vigenti, perché sono norme che ci aiutano a evitare che il virus vada avanti» (Angelus del 7 giugno 2020) 


6) Riguardo al retto atteggiamento che le vere sante e le vere mistiche assumono nei confronti delle legittime autorità ecclesiastiche si contempli l’esempio di santa Teresa d’Avila, Dottore della Chiesa: «Quando il Signore mi dava un comando nell'orazione e il confessore me n'imponeva un altro, Sua Maestà tornava a dirmi di stare alla parola del confessore» (Vita 26,5); o di santa Teresa di Lisieux, anch’ella Dottore della Chiesa: «O Madre, da quale inquietudini ci si libera facendo voto di obbedienza! Come sono felici le religiose semplici: poiché la loro unica bussola è la volontà dei superiori, sono sempre sicure di essere sul giusto cammino, non temono di sbagliarsi nemmeno se a loro sembra certo che i superiori sbaglino. Ma quando si smette di guardare la bussola infallibile, quando ci si allontana dalla via che ci indica di seguire con la scusa di fare la volontà di Dio il quale non illumina bene coloro che tuttavia fanno le sue veci, subito l'anima si smarrisce tra i sentieri aridi dove l'acqua della grazia le viene a mancare immediatamente» (Storia di un’anima, Ms C 11r°).


7)  Molto citato nei blog tradizionalisti è il suggerimento di S. E. Mons. Athanasius Schneider, il quale ha addirittura proposto di cucire un apposito corporale dentro un purificatoio da porre sulla mano destra, senza ovviamente poter addurre alcun documento disciplinare vigente a supporto di tale fantasiosa pratica. Se proprio si volesse trovarne uno, bisognerebbe paradossalmente risalire alle risoluzioni del sinodo locale di Auxerre (585) che, in un contesto in cui era obbligatoria per tutti la Comunione nella mano, prescrivevano alle sole donne, per motivi che oggi sarebbero più che discutibili, l’uso di porre sulla mano un pannolino, detto «linteum dominicale», nell’atto di ricevere l’Eucaristia.


8) Nostra traduzione dal testo originale greco riportato in Labbé-Cossart, Sacrosancta Concilia ad Regiam editionem exacta, Venezia 1729, vol. VII, col. 1392.


9)  Come espresso dall’istruzione Redemptionis sacramentum al n° 92 il fedele ha normalmente «sempre il diritto di ricevere, a sua scelta, la santa Comunione in bocca»: ma questa affermazione non va certo letta in maniera fondamentalistica come se non ammettesse eccezioni, stabilite dalle stesse autorità ecclesiastiche che hanno concesso tale diritto, dettate da situzioni di estrema gravità ed eccezionalità quali l’attuale pandemia mondiale di coronavirus. Cf. Institutio Generalis Missalis Romani, n° 282: «I pastori d’anime […] insegnino che nell'amministrazione dei Sacramenti, salva la loro sostanza, la Chiesa ha il potere di determinare o cambiare ciò che essa ritiene più conveniente per la venerazione dovuta ai Sacramenti stessi e per l'utilità di coloro che li ricevono, secondo la diversità delle circostanze, dei tempi e dei luoghi».


10) «Tale presenza si dice “reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano “reali”, ma per antonomasia perché è sostanziale, e in forza di essa, infatti, Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente» (Paolo VI, lettera enciclica Mysterium fidei, n° 40)


11) «Vi voglio esortare con esempi tratti dalla pratica religiosa. Voi che siete soliti partecipare ai divini misteri, quando ricevete il corpo del Signore, sapete bene come custodirlo con ogni precauzione e venerazione, affinché non ne cada una minima briciola e non si perda nessuna parte del dono consacrato. Infatti vi credereste colpevoli, e giustamente vi riterreste tali, se per vostra negligenza se ne perdesse qualcosa. Ora, se giustamente ponete tanta precauzione nel custodire il suo Corpo, come potete ritenere che sia colpa minore l'aver trascurato il Verbo di Dio, anziché il suo Corpo?» (Origene, Omelie sull'Esodo, Omelia 13,3).


12) «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: “Questo è il mio corpo”, confermando il fatto con la parola, ha detto anche: Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare (cfr. Mt 25, 42), e: “Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli tra questi, non l’avete fatto neppure a me” (cfr. Mt 25, 45). Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l’onore più gradito che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi. Anche Pietro credeva di onorarlo impedendo a lui di lavargli i piedi. Questo non era onore, ma vera scortesia. Così anche tu rendigli quell’onore che egli ha comandato, fa’ che i poveri beneficino delle tue ricchezze. Dio non ha bisogno di vasi d’oro, ma di anime d’oro […] Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d’oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l’affamato, e solo in seguito orna l’altare con quello che rimane. […] Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell’edificio sacro. Attacchi catene d’argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offrire, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò mentre adorni l’ambiente del culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questi è un tempio vivo più prezioso di quello» (San Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo, Omelia 50,3-4).


13) Cf. Sessione XXIII, cap. IV.