venerdì 31 agosto 2018

Avvenire: Analisi. Il clericalismo patriarcale e la riscoperta del padre

Il Messaggio nella "Lettera al popolo di Dio". Francesco indica la strada per la Chiesa-famiglia
«Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli» è l’amara constatazione che fa papa Francesco nel documento che ha scritto il 20 agosto scorso e che ha titolato ' Lettera del Santo Padre al Popolo di Dio'. Uno stile inusuale per un pontefice che, tradizionalmente, formula dottrine o elabora un pensiero teologico a guida e norma dei fedeli cattolici. Il genere letterario richiama una prassi davvero popolare della Chiesa: quella delle origini. Autori di Lettere furono gli Apostoli che usarono questo strumento tanto familiare per 'edificare' le chiese giovinette che loro stessi avevano dato alla luce. Non a caso, dunque, Francesco ha scritto al popolo di Dio una lettera: voleva esprimere la sua intimità con tutti coloro che ne fanno parte, la sua fiducia e amicizia in un momento di grande bisogno. «Abbiamo trascurato i nostri bambini»: una parola che suona della dolcezza e la desolazione che un padre o un nonno potrebbero avvisare dinanzi al dolore e alla sventura che, malvagia e inesorabile, si abbatta sui propri figli o nipoti. Una tristezza che evoca scene di dopoguerra quando si aprivano gli occhi sulle atrocità subite dai bambini, rimaste come cicatrici di memoria sulle loro membra ancora e sempre troppo ignare, troppo morbide, troppo sacre. O scene di miseria e di fame, quando ci si trovava a dover alienare i propri figli a qualcun altro, a chi potesse dargli il necessario, perdendoli, talvolta, completamente di vista. Abbandonandoli, appunto.

Gli occhi della memoria degli italiani più grandi rivedono una solenne Sofia Loren nelle vesti di Filomena Marturano che costringe l’uomo che ama a riconoscere tutti i figli suoi, non solo quello che aveva avuto da lui. A restituire, insomma, il diritto – violato – di ogni figlio di avere un padre a prescindere dal Dna. Le immagini di tanto cinema neorealista italiano, quelle di Mamma Roma , ad esempio, un film di Pier Paolo Pasolini interpretato da una struggente Anna Magnani. Costretta a prostituirsi, abbandonata e sfruttata dal suo uomo, aveva lasciato nel paese d’origine suo figlio, perché non capisse il mestiere di sua madre e non vedesse quanti sacrifici faceva, quante umiliazioni dovesse subire per riuscire a procurargli una casa e un futuro decenti. E quando, all’età di sedici anni, finalmente lo porta a Roma con sé, piena di speranza e d’intenzione di dargli quella dignità che a sé stessa aveva dovuto negare, era ormai troppo tardi e a completare l’opera dell’abbandono ci pensa la Città, con la sua anima impura. Quelle di Francesco sono parole che sorgono da un senso d’impotenza insopportabile, poiché riguardano i bambini, quanto di più caro ci sia al cuore del mondo. E di Dio.

Uscite dalla bocca del Papa mostrano il suo cuore di padre, non sempre scontato in un uomo e neppure in un Vescovo di Roma; l’identità petrina è stata, infatti, declinata più spesso come autorità e magistero che come paternità in senso stretto, a dispetto del nome: 'Santo Padre'. E giungono in un tempo in cui, nella civiltà occidentale, si è consumata la morte del padre: dalla 'morte di Dio' alla fine della figura paterna, fenomeno già denunciato agli inizi del secolo scorso. Una figura essenziale che Luigi Zoja – uno dei più illustri psicoanalisti e saggisti di questi ultimi anni – considera la più grande costruzione del mondo occidentale, realizzata dai Greci, e che ha permesso all’Occidente di darsi una struttura culturale solidissima con cui è riuscito a conquistare il mondo. Nel suo prezioso libro: Il gesto di Ettore, Zoja ne denuncia la scomparsa iniziata nel Novecento e portata a pieno compimento negli ultimi decenni. Una mancanza che ha lasciato un mondo unicamente di figlifratelli senza il legame e l’autorevolezza di un padre a legittimare il diritto-dovere di ognuno di condividere la casa, la mensa, la fraternità; a indicare la giustizia, la solidarietà e la pace. Orfani di padre, i figli del Novecento si fecero la guerra tra di loro per cinquant’anni; privati e incapaci di paternità, quei fratelli di ieri non reggono alla prova dei figli di oggi: alcuni giungono persino a ucciderli (insieme alle loro madri) prima di suicidarsi; molti altri rinunciano a essere per loro la stella polare, la direzione, la via dell’anima, e non soltanto corpo e denaro. È a questi ultimi che si rivolge Antonio Polito in un lucido libro il cui titolo è una parenesi: Riprendiamoci i nostri figli. Quei figli che non patiscono ormai più del complesso di Edipo, ma sono malati di ciò che Massimo Recalcati ha definito Il complesso di Telemaco . Una patologia rovesciata dove i Telemaco, che sono i nostri figli, piuttosto di ribellarsi – a un padre che non c’è! – si mettono alla ricerca disperata di lui, ché riporti attenzione, distinzione e relazione tra i fratelli; che doni un nome e una vocazione, un senso e un progetto di famiglia, di comunità e di politica.

Figli di un padre scomparso sono anche quei sacerdoti pedofili, nutriti solo di clericalismo: «Un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa – molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza – è il clericalismo, quell’atteggiamento che non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale dello Spirito Santo». Questa l’analisi di papa Francesco. Il 'patriarcato' del clericalismo si rivela il vero nemico della paternità nella Chiesa. E qui sono le donne, le sorelle e le madri a dover denunciare la latitanza e la violenza dei mancati padri. Il loro obbrobrio sulla pelle dei figli.

Oggi ritroviamo un Papa padre. Si rivela con evidenza in questa Lettera al 'popolo di Dio' che porta una supplica forte e accorata: quella di assumere tutti insieme la responsabilità della salus della famiglia-Chiesa: «È sempre bene ricordare che il Signore nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella Comunità umana».

Le sue parole sono quelle di un genitore abbattuto e addolorato, quasi sconfitto, che piange per le ferite dei suoi piccoli. Un padre di cui si avverte persino la vergogna di quella sofferenza, lo smacco di non aver potuto 'passare' da loro quel calice amaro e di non averlo bevuto egli stesso. Un linguaggio autentico che rimette vita nella Chiesa, la quale ritrova il suo sapore di casa, di famiglia, di corresponsabilità, di reciprocità, di carità degli uni verso gli altri, di fedeltà dei padri verso i figli, di legami indissolubili e liberi, doverosi e gratuiti, allo stesso tempo. Di vera paternità. Una Chiesa che mostra all’Occidente il ritorno del padre. Non più 'padrone', non più giudice di condanna e di morte, ma Servo e Salvatore, Diacono come Gesù e come Marta di Betania, fondamento su cui i figli potranno costruire, riconciliati, il futuro. Un padre che non si dimette quando pensa o capisce di aver sbagliato, ma chiede perdono.

Se la Chiesa è questa, la Chiesa è viva. E può rigenerarsi in ogni suo membro, in ogni sua parte. Preziosa è la coscienza di chi ricorda che: «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1Cor 12,26). Un’aria buona, un odore di pane, l’umiltà e l’amore che fa sentire tutti figli legittimi di questa famiglia universale. Che ascolta, che dialoga, che chiede scusa, che discute, che corregge e si corregge, che non scarta e non scomunica, che si sente in debito con tutti e ha bisogno del credito di ognuno. Una Chiesa che non si nasconde dietro nessuna 'immunità', che versa lacrime sui propri delitti, che si riconosce umana e fragile, che digiuna e fa penitenza. Per questa famiglia il Papa invita a pregare. Come un buon padre sa che la coralità darà futuro e salvezza. Là dove i migranti vengono trattati non da figli, ma da figliastri, ci vuole questa Chiesa materna e paterna. Ci fa sentire vivi e felici. Perché la madre è la ragione evidente della fraternità; mentre il padre ne stabilisce il diritto, dopo aver diretto la discussione tra i due fratelli litiganti. Nessuno dovrà restare senza la sua stanza nel mondo. Qualcuno ha detto che la Chiesa non cerca di 'fare notizia', ma di portare una 'buona notizia'. E questa lo è davvero.

Rosanna Virgili venerdì 31 agosto 2018

Avvenire: La farsa e la fiducia. Ciò che resta dell’attacco al Papa

È curioso ma assai significativo che papa Francesco sia stato l’unico a non qualificare come "dossier" il j’accuse di undici pagine dell’ex nunzio Carlo Maria Viganò fatto detonare, come è noto, sotto i cieli d’Irlanda in piena Festa mondiale delle famiglie. Rispondendo sul volo di ritorno da Dublino alla domanda sulla veridicità di quelle accuse, il Papa lo ha infatti definito semplicemente «comunicato». Per due volte: «Ho letto il comunicato» e «credo che il comunicato parli da se stesso».

E poi la sorprendente, espressa volontà, rilanciata dai media di tutto il mondo, di lasciare a noi cronisti il «giudizio», in un «atto di fiducia», contando sulla «maturità professionale di ciascuno», perché «voi avete la capacità giornalistica sufficiente per trarre le conclusioni».

Sembra invece sfuggita ai più come questa sequenza di termini fosse in relazione anche con quanto detto a conclusione della conferenza stampa ad alta quota, quando parlando della fede degli irlandesi il Papa ha affermato che questi «sanno ben distinguere le verità dalle mezze verità». Quella che dunque al momento era parsa una non-risposta si è rivelata traccia di una pertinente, lucida indicazione, anche pedagogica, stando proprio a quanto è emerso sul cartiglio Viganò a distanza di pochi giorni. Per le verità, infatti, sono bastate poche ore e non c’è stato neppure bisogno di indagini approfondite. Ma cominciamo dalle «mezze verità».

Del cartiglio sono state già ampiamente messe in luce le frequenti contraddizioni e i ripetuti omissis della narrazione. A un’attenta lettura il cartiglio-comunicato appare chiaramente un miscuglio di mezze verità. Si tratta di una viziata tecnica nota nella comunicazione, si chiama disinformazione, che è più grave rispetto anche alla calunnia e alla diffamazione, come ha ricordato più volte lo stesso Francesco, perché propone soltanto una parte della verità per perseguire un fine.

La disinformazione si costruisce, appunto, sulle mezze verità. Un classico meccanismo che punta a impedire la risposta. In una simile costruzione a spirale non c’era dunque soltanto da chiedersi se ciò che racconta Viganò sia vero (come ripetono a mo’ di mantra personaggi e media che chiedono le «dimissioni» di Francesco).

C’era da chiedersi, e anche questo è stato già ampiamente rilevato, se la sequenza descritta da Viganò, le sue considerazioni, le sue omissioni, le sue interpretazioni portano davvero ad attribuire una qualche responsabilità al Pontefice oggi regnante. A questo si aggiunge la non attendibilità del testimone, anche questa ampiamente rilevata, per avere un quadro preciso del j’accuse. E probabilmente per renderci immuni da veleni che hanno la presunzione di far tremare la terra sotto i piedi del Successore di Pietro e di indurre in soggezione e sgretolare il sensus fidei del popolo di Dio.

In questi giorni sono poi emersi dettagli che dimostrano come si è trattato di una operazione pensata e organizzata a tavolino da diversi soggetti, italiani e statunitensi, inserita in un piano preciso, tanto che la sua preparazione includeva anche l’assistenza giuridica di un avvocato, consultato preventivamente da Carlo Maria Viganò due settimane fa, legato all’agenzia statunitense Ewtn-Catholic National Register.

E alla fine è arrivata anche la ciliegina sulla torta di tutto l’affaire. In una lunga conversazione con l’agenzia Ap, un giornalista di un blog notoriamente anti-Bergoglio, preso da un’irrefrenabile euforia di protagonismo narcisistico, in pochi minuti ha offerto su un piatto d’argento i piedi d’argilla della maldestra operazione: ha confessato pubblicamente che è stato lui a scrivere il cartiglio della cosiddetta testimonianza-denuncia. Queste le testuali parole: «Ho fatto l’editing professionale; cioè abbiamo lavorato sulla bozza, il cui materiale era integralmente del nunzio, per verificare che fosse scorrevole e giornalisticamente utilizzabile». Insomma, un lavoro creativo per un programma «giornalisticamente utilizzabile» e che di veramente preciso ha avuto solo il meccanismo a orologeria.

Eccoci così al succo del marchingegno Viganò, e si capisce perché il Papa l’abbia definito «comunicato». A questo punto, scoperchiati gli altarini, scolato il brodo, di fronte a 'cotanto senno', l’unica cosa che stringendo viene da chiedersi è quella che con rara efficacia si è chiesto un osservatore molto attento: «E papa Francesco dovrebbe rispondere a questo giornalista? Il grande Totò direbbe: 'Ma mi faccia il piacere!' ».

Viene da aggiungere: ma si può davvero pensare di mettere alle strette un pontificato con simili sgangherate confezioni giornalistiche che sono un insulto all’intelligenza? E anche qui la risposta è certamente da lasciare al grande Totò. Alla fine di questa grottesca farsa la conclusione potrebbe, dunque, essere quella del drammaturgo Bernard Show: «Come è comica la verità!». Grazie Santo Padre per l’«atto di fiducia»' che ha concesso a chi fa questo nostro mestiere (e non altro).
Stefania Falasca
giovedì 30 agosto 2018

giovedì 30 agosto 2018

FAMIGLIA CRISTIANA: ESEMPIO PER POLITICI E GIOVANI: LA PIRA E ACUTIS, L'ANIMA CHE CI MANCA

«C'è un'Italia che non sa più cosa sia la compassione, rimbambita da fake news, paralizzata da paure ed egoismi», dice il direttore de La Civiltà Cattolica: «Torniamo al Vangelo, spesso dimenticato, al contatto diretto con la gente, a convertire i cuori e le menti. La santità è una chiamata per tutti».


In un momento nel quale la Chiesa italiana si interroga sul significato della sua presenza nel Paese alla luce dell'emergere di tentazioni populiste che solleticano paure ed egoismi, ecco che arriva un messaggio semplice e chiaro. Il 5 luglio Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare i decreti riguardanti le virtù eroiche di quattro "servi di Dio";. Tra questi Giorgio La Pira e Carlo Acutis: il sindaco di Firenze, professore e politico; e il giovane, che ha lasciato questa terra a 15 anni, brillante e creativo. Dicevo che la Chiesa italiana è davanti a un punto interrogativo. Che cosa fare? Se dal Vangelo non si possono dedurre ricette politiche, è chiaro che il Vangelo giudica queste ricette. E pure svela l’ «idolatria» di chi lo strumentalizza. Come è possibile che l’ egoismo oggi insidi l’ animo dei nostri concittadini? E come è possibile che buoni cristiani dicano di riconoscere Cristo nel pane eucaristico e non riescano a riconoscerlo nel fratello in carne ed ossa? Siamo davanti a un cristianesimo «dottor Jekyll e mister Hyde», al rischio di idolatria travestita da devozione? 

Una cosa è certa: il suo opposto è la santità, cioè quella condizione per cui la vita diventa Vangelo aperto. Per questo oggi c’ è bisogno di Giorgio La Pira e di Carlo Acutis, due figure completamente diverse tra loro, ma certo accomunate da un sorriso che smonta resistenze e muri interiori. Basta guardare le loro foto. In una Italia impaurita che sembra voglia chiudersi a riccio la santità di questi due italiani appare un appello a rinsavire, a risvegliarsi. 

Santi, non «santini». Acutis ha espresso la santità di un giovane che ha vissuto la sua età spaziando dal montaggio dei film e alla creazione dei siti web, al volontariato con i più bisognosi, con i bambini e con gli anziani. La Pira fu eletto all’ Assemblea Costituente dando un contributo decisivo alla stesura dei primi articoli della Costituzione e soprattutto fu eletto sindaco di Firenze e tale rimase con brevi interruzioni tra il 1951 al 1965. Quelle di Giorgio e Carlo sono state due vite piene che hanno colmato la misura per loro possibile. La santità di La Pira e Acutis - nato nel 1991 quando la rete cominciava a diventare rete globale - è lì per ridestare un’ Italia rimbambita dalle fake news e contratta in una smorfia di paura e di egoismo, un’ Italia che non sa più che cos’ è la compassione e che crede di poter costruire solidi muri contro l’ «invasione» con sabbia, secchiello e paletta. 

La Pira, in particolare, aveva compreso – lo disse in un discorso del 1962 – di essere davanti a «un crinale apocalittico della storia», aveva inteso che doveva darsi da fare. E forse questa è la coscienza cristiana che si impegna nel mondo: la consapevolezza che bisogna scegliere o «la distruzione della Terra e dell’ intera famiglia di popoli che la abitano» o «la fioritura messianica» intravista da Isaia, san Paolo e san Giovanni. Firenze. grazie a lui, divenne un fiorire di iniziative per il dialogo e la pace. La Pira superò la «cortina di ferro» e si recò in Russia, ma anche in America, in Africa, in Terra Santa. Visse un disperato incontro con Ho Chi Min in Vietnam. La santità è vedere la storia da parte di Dio, con i suoi occhi, pur rimanendo assolutamente con i piedi ancorati per terra, tra i piedi degli altri che si muovono. Carlo Acutis esprimeva la medesima consapevolezza impegnandosi nel suo mondo, quello di un ragazzo, con istinto evangelico. Occorre risvegliare questo istinto nel nostro popolo, occorre tenerlo vivo nonostante c’ è chi intenda anestetizzarlo o addirittura amputarlo e sostituirlo con un istinto di rancore, rabbia e paura. Una vera «operazione Frankestein» che però ha la sua vera radice nel nostro cuore, campo di battaglia tra il peccato e la grazia. Il messaggio di La Pira, uomo saldamente mediterraneo ed europeo, è chiamato a svegliare quell’ Italia cattolica che la predicazione non sveglia più. E la santità di La Pira ci aiuta a riscoprire una «vocazione politica» che deve trovare nuove strade.

Non basta più formare le élite e discutere al caldo dei «caminetti» degli illuminati. Non bastano più le accolte di anime belle. Non bastano più le scuole di politica, per quanto utili. Forse è giunto il grave momento di fondare «scuole di santità», cioè scuole di vita cristiana ordinaria e soprattutto popolare, così come ce l’ ha proposta il Papa nell’ esortazione apostolica centrale del suo pontificato Gaudete et Exsultate. Un documento politico perché popolare, appunto. Si tratta di tornare al Vangelo sine glossa. Di tornare all’ abc, dato forse troppo per scontato. È ora di tornare al popolo, al contatto diretto con la gente, a convertire i cuori e le menti. Forse, semmai, bisogna tornare a leggere Dostoevskij per recuperare una coscienza popolare che ci è stata strappata di mano. Abbiamo una intelligenza cattolica, progetti culturali, valori non negoziabili. I media mainstream - tv e quotidiani - fanno discorsi ragionevoli e illuminati, ma la gente è già altrove, e sembra aver perso la percezione di essere una «unica e solidale famiglia cittadina», come diceva La Pira.

Bisogna tornare a Firenze, a quel discorso fondamentale che il Papa ha consegnato alla Chiesa italiana presso la Cattedrale di Santa Maria del Fiore il 10 novembre 2015. Bisogna tornare a quel discorso profetico che è rimasto un po’ sepolto tra i messaggi. E invece lì Francesco aveva intuito la direzione verso la quale ci stavamo incamminando. Sto parlando della congiunzione astrale e sorprendente che ha unito l’ ottimismo di Rousseau e il pessimismo di Hobbes, il mito del buon selvaggio e quello del lupo cattivo e, dunque, se vogliamo pentastellati e leghisti. «Noi sappiamo — diceva Francesco — che la migliore risposta alla conflittualità dell’ essere umano del celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’ Ecce homo di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva».

«Vi chiedo di essere costruttori dell’ Italia, di mettervi al lavoro per una Italia migliore», ha chiesto Francesco a Firenze. Come? «Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti». Il metodo proposto è quello dell’ immersione: «impegnatevi, immergetevi nell’ ampio dialogo sociale e politico». E ha aggiunto: «non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo». Il pastore della Chiesa universale ci predica il Vangelo e proclama santi e beati. Il resto però è tutto da fare. E lo dobbiamo fare noi italiani, e la nostra Chiesa. Ma lezione dei santi ci ispira: è una chiamata per tutti. Francesco lo aveva scritto con parole di fuoco in Evangelii gaudium: «Io sono una missione su questa terra» (n. 273).

17/07/2018 di Antonio Spadaro


mercoledì 22 agosto 2018

AVVENIRE: Enzo Bianchi: «Ecce Homo! Così il corpo interroga il cristiano»

Nei vangeli risuona l’esclamazione «Ecce Homo» Ma il cristiano oggi rischia di anteporre la “deificazione” di Gesù alla sua incarnazione. La riflessione del fondatore di Bose alla Cittadella di Assisi.

In Gesù Cristo Dio ha vissuto l’esperienza dell’umano dal di dentro, facendo avvenire in sé l’alterità dell’uomo. Scrive Ippolito di Roma: «Noi sappiamo che il Verbo si è fatto uomo, della nostra stessa pasta (uomo come noi siamo uomini!)». Gesù di Nazaret ha narrato, spiegato, visibilizzato Dio nello spazio dell’umano: «Ecce homo! Ecco l’uomo!» (Gv 19,5). Ha dato sensi umani a Dio consentendo a Dio di fare esperienza del mondo e dell’alterità umana e al mondo e all’uomo di fare esperienza dell’alterità di Dio.

La corporeità è il luogo essenziale di questa narrazione che rende l’umanità di Gesù di Nazaret sacramento primordiale di Dio. Il linguaggio di Gesù e, in particolare, la parola, ma poi i sensi, le emozioni, i gesti, gli abbracci e gli sguardi, le parole intrise di tenerezza e le invettive profetiche, le pazienti istruzioni e i ruvidi rimproveri ai discepoli, la stanchezza e la forza, la debolezza e il pianto, la gioia e l’esultanza, i silenzi e i ritiri in solitudine, le sue relazioni e i suoi incontri, la sua libertà e la sua parrhesía, sono bagliori dell’umanità di Gesù che i vangeli ci fanno intravedere attraverso la finestra rivelatrice e opaca dello scritto. E sono riflessi luminosi che consentono all’uomo di contemplare qualcosa della luce divina.

L’alterità e la trascendenza di Dio sono state evangelizzate da Gesù e tradotte in linguaggio e pratica umana. È la pratica di umanità di Gesù che narra Dio e che apre all’uomo una via per andare verso Dio. «Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio unigenito... lo ha raccontato (exeghésato)» (Gv 1,18), rivelato una volta per tutte, in modo ultimo e definitivo. Per questo motivo il cristianesimo esige che Gesù sia conosciuto attraverso la sua vita narrata e testimoniata nei vangeli da parte chi è stato coinvolto nella sua vicenda, i discepoli, divenuti «servi della Parola» (Lc 1,2); solo attraverso questa conoscenza potremo anche credere in lui fino ad amarlo, fino a confessarlo «Signore», «Figlio di Dio», «Salvatore», e così giungere alla fede in Dio, alla conoscenza del Dio vivente e vero.

Ecco perché ritengo sia un grave rischio per i cristiani quello di deificare Gesù prima di conoscerne la concreta esistenza umana. Se infatti non si conosce l’umanità di Gesù, attraverso i vangeli, si finisce per credere in lui come a una realtà da noi immaginata e costruita. Nell’uomo Gesù la condizione di Dio ha subito una kénosis, uno svuotamento: colui che era in forma di Dio si è spogliato della sua uguaglianza con Dio (cf. Fil 2,6-7), e questo è avvenuto in modo che nella vita di Gesù non si vedesse altro che la sua umanità, un’umanità nella condizione di servo «fino alla morte, anzi alla morte di croce» (Fil 2,8)! La sua condizione di Dio è stata per così dire “messa tra parentesi”, e Gesù è stato uomo, uomo come noi, soggetto alla nostra limitata condizione mortale.

Sì, Gesù ha vissuto la sua esistenza terrena quale uomo povero e fragile, esattamente come gli uomini con cui entrava in relazione; il Figlio è entrato nella storia come uomo, pienamente uomo: un uomo capace di fare della sua vita un capolavoro d’amore.

In risposta a questa umanizzazione di Dio in Gesù Cristo, la fede è un atto umano. È un atto della libertà umana, un atto vitale di tutta la persona, un atto che implica l’entrare in una relazione ed è un atto in divenire, che avviene e si snoda nel tempo. Essa è innanzitutto fiducia, fiducia nella vita, fiducia negli altri. Fiducia nell’umano che è in ogni uomo e in cui consiste l’immagine e la somiglianza con Dio. Umano che, come immagine di Dio nell’uomo, è dono, e come somiglianza, è responsabilità dell’uomo.

Nella sua prassi di umanità Gesù ha saputo destare, creare fiducia e così generare alla vita e dare vita. Nei suoi incontri egli suscitava la soggettività delle persone che incontrava e valorizzava la loro umanità, il loro volto e il loro nome, cioè le manifestazioni della loro unicità e irripetibilità. Quante volte ha detto: «La tua fede-fiducia ti ha salvato!» (Mc 5,34 e par.; 10,52; Lc 7,50; 17,19; 18,42; cf. anche Mt 8,13; 15,28). Declinare oggi la fede come cammino di umanizzazione e come cammino della fiducia e del senso è il compito richiesto ai cristiani. Compito nuovo e antico al tempo stesso: raccontare Dio agli esseri umani attraverso una pratica di umanità improntata all’umanità di Gesù di Nazaret.

martedì 21 agosto 2018

LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO

LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO

«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell'intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.

1. Se un membro soffre

Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.

Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! […] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison – Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).

2. Tutte le membra soffrono insieme

La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).

Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.

Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.

E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa – molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza – quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.

E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).

E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.

Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.

In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).

«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.

Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.

martedì 14 agosto 2018

L'Osservatore Romano: Celebriamo colei che ha partorito il benefattore

La festa della dormizione della Madre di Dio nella tradizione bizantina 

Tutte le liturgie delle Chiese cristiane hanno un senso catechetico molto evidente. E questo è sottolineato con chiarezza nelle liturgie dell’oriente cristiano: la liturgia è un insegnamento per i fedeli, impregnata com’è di elementi che istruiscono nelle verità della fede. In modo particolare questa catechesi attraverso la liturgia si ritrova nelle celebrazioni della Madre di Dio, di colei che accolse nel suo grembo il Verbo eterno di Dio.

È infatti la presenza della Madre di Dio a scandire i diversi momenti dell’anno liturgico delle Chiese di tradizione bizantina: la prima grande festa nel ciclo liturgico è quella dell’8 settembre, quando si celebra la sua nascita, e si chiude con la festa del 15 agosto, la Dormizione della Madre di Dio. Tutto il mistero di Cristo che si celebra lungo l’anno liturgico ha inizio dunque con la Natività di Maria e si conclude con il suo transito e la sua piena glorificazione. L’oriente cristiano, fin dall’inizio, ha contemplato Maria sempre inscindibilmente inserita nel mistero del Verbo incarnato. E le Chiese d’oriente, rivolgendosi alla Madre di Dio, sanno di rivolgersi a colei che intercede presso suo Figlio.

La festa del 15 agosto, che nei libri liturgici bizantini porta il titolo di Dormizione della Madre di Dio, inquadra il transito e la glorificazione della Vergine nel mistero pasquale di Cristo stesso ed è una delle feste più popolari tra i fedeli. Viene preceduta dalla “piccola quaresima della Madre di Dio”, un periodo di preghiera e di digiuno che inizia il primo agosto e in queste due settimane di sera si celebra l’ufficiatura della Paràklisis (parola greca che significa “supplica”, “invocazione”, “consolazione”), molto amata dai fedeli.

Nella versione più arcaica la Paràklisis risale al IX secolo e la sua celebrazione ha una struttura simile a quella del mattutino: la benedizione e le preghiere iniziali, la recita di due salmi (142 e 50) e il canto delle nove odi proprie della Paràklisis. Ognuno dei tropari delle odi inizia con l’invocazione: «Santissima Madre di Dio, salvaci» perché Maria, generando il Verbo di Dio incarnato, da lui ci porta la salvezza. Dopo l’ode sesta c’è la proclamazione del vangelo con il racconto della visitazione di Maria a Elisabetta. Dopo la terza e la sesta ode e alla fine della celebrazione, il sacerdote canta diverse litanie in cui fa memoria di tutta la Chiesa e di coloro per cui si prega in modo speciale.

Il testo delle odi intreccia invocazioni alla Madre di Dio e a colui che lei ha generato, Cristo. Tutta la preghiera è percorsa dalle affermazioni della incarnazione del Verbo, della divina maternità di Maria e della sua potente intercessione: «Ti prego, o Vergine, dissipa il turbamento della mia anima. Tu infatti, o sposa di Dio, hai generato il Cristo, l’autore della serena quiete, o sola tutta immacolata». I titoli con cui Maria viene invocata sono legati sempre alla sua divina maternità: (Madre di Dio, Vergine, Madre del Verbo incarnato, Madre divina) oppure connessi alla sua funzione e al suo ruolo nel mistero della redenzione: potente interceditrice, baluardo inespugnabile, fervida avvocata, fonte di misericordia, causa di letizia, fonte di incorruttibilità, torre sicura.

Diverse strofe delle odi sottolineano il rapporto stretto tra Cristo e Maria mettendo in rapporto il dono fatto da Maria e la fonte da cui il dono scaturisce, cioè Cristo stesso: «Metti la pace nella mia anima, o Vergine, con la pace serena del tuo Figlio e Dio. Guariscimi, o Madre di Dio, tu che sei buona e hai partorito il Buono». E in una delle strofe della terza ode troviamo tutto un gioco con i termini benefattore, bene e beneficio perché Maria generando Cristo ne assicura i doni da lui elargiti a tutti coloro che a lei si affidano: «Tu che hai partorito il benefattore, la causa di tutti i beni, fa’ scaturire per tutti la ricchezza dei suoi benefici, perché hai generato il Cristo, che è potente nella sua forza».

Diverse volte nel testo Maria è invocata col titolo di “sposa di Dio”, collegato sempre a colui che lei come sposa e madre genera, il Verbo incarnato. Lei salva dalle onde delle passioni perché partorisce il nocchiero della nave della Chiesa, e lei è fonte di compassione perché genera colui che è amico dell’uomo e ne ha pietà: «Tu che hai partorito il nocchiero, il Signore, placa il tumulto delle mie passioni e le violente ondate delle mie cadute, o sposa di Dio. Concedi, a me che ti invoco, l’abisso della tua amorosa compassione, tu che hai partorito il compassionevole». La verginità di Maria è poi descritta come fertile di doni per coloro che la invocano: «Non trascurare, o Vergine, quanti chiedono il tuo aiuto. O Vergine, tu riversi l’abbondanza delle guarigioni su quanti con fede ti celebrano, o Vergine. Tu guarisci le infermità della mia anima o Vergine, tu allontani gli assalti delle tentazioni, o Vergine».

A conclusione della celebrazione un ultimo tropario collega il canto della Paràklisis alla festa stessa della Dormizione: «Apostoli, qui radunati dai confini della terra, nel podere del Getsemani seppellite il mio corpo. E tu, mio Figlio e Dio, accogli il mio spirito. Dolcezza degli angeli, gioia dei tribolati, protezione dei cristiani, o Vergine, Madre del Signore, vieni in mio soccorso e dai tormenti eterni scampami. Ho te quale mediatrice presso il Dio amico degli uomini: che egli non mi accusi per le mie azioni davanti agli angeli; ti supplico, o Vergine, vieni presto in mio aiuto. Torre tutta intrecciata d’oro e città dalle dodici mura, trono che stilli sole, seggio del re, incomprensibile prodigio! Come puoi allattare il Sovrano?».

di Manuel Nin

sabato 11 agosto 2018

Rivista San Francesco patrono d'Italia: Chiara, sorella e madre. La lode al Signore è stata vissuta da Chiara in ogni istante

Con l’approssimarsi della festa di santa Chiara d’Assisi, vogliamo ripercorrere ancora una volta il suo
esempio di donna e discepola alla sequela di Cristo povero


“Indi, il giorno successivo alla festa del beato Lorenzo, quella santissima anima esce dalla vita mortale, per essere premiata con l’alloro eterno; e, disfatto il tempio della carne, il suo spirito passa beatamente al cielo” (FF 3254)”. Così il biografo Tommaso da Celano narra la morte di Chiara, la giovane assisate che attratta dalla scelta di Francesco di vivere il Vangelo ‘sine glossa’, senza interpretazioni, trascorse oltre 42 anni a san Damiano con le altre donne che si unirono a lei. Sorelle, come le chiamava Chiara, perché di questo si trattava, fratelli e sorelle. Una comunità di Sorores, una sororità potremmo dire oggi, nata spontaneamente  attorno alla figura della giovane Chiara che, ricordiamolo, è stata la prima donna nella storia della Chiesa a scrivere una Regola per le donne, approvata dal Papa in punto di morte, l’11 agosto 1253.

“Ho trovato però in quelle regioni, una cosa che mi è stata di grande consolazione: delle persone d’ambo i sessi, ricchi e laici, che, spogliandosi di ogni proprietà per Cristo, abbandonavano il mondo. Si chiamavano frati minori e sorelle minori e sono tenuti in grande considerazione dal Papa e dai cardinali. (…) Le donne invece dimorano insieme in alcuni ospizi non lontani dalle città, e non accettano alcuna donazione, ma vivono col lavoro delle proprie mani.” (FF 2205 e 2207) Così scriveva Giacomo da Vitry di ritorno da un viaggio in Umbria, nell’ottobre del 1216.Di Chiara ci restano alcuni scritti: la Regola o Forma di Vita, il Testamento, la Benedizione, quattro lettere ad Agnese di Praga e una lettera ad Ermentrude di Bruges. Un patrimonio assai ricco considerando che si tratta di una donna del Medioevo. Dalle parole stesse di Chiara, dunque, oltre che dalla biografia - la Legenda di Tommaso da Celano – e altri scritti come la citata lettera di Giacomo da Vitry, è possibile tracciare un’immagine di Chiara e della sua vita.

“La Forma di vita dell’Ordine delle Sorelle povere istituita dal beato Francesco è questa: osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità” (FF 2750). La povertà è stato un punto fermo nella vita di Chiara e in tutte le sue scelte. Anche lei come Francesco voleva vivere povera come Cristo povero e “la sua Madre poverella” ma allo stesso tempo, come Francesco, combatteva la povertà a chi la subiva senza averla scelta. La vita a san Damiano era scandita dal rintocco delle campane che accompagnavano la preghiera e il lavoro; le Sorelle lavoravano manufatti in tessuto e ogni altro lavoro “decoroso e di comune utilità” (FF 2792). La cosa singolare però è che i tessuti venivano venduti alle chiese della piana di Assisi e il ricavato veniva dato ai poveri mentre le Sorelle vivevano di Provvidenza, “mandando i frati per l’elemosina.”

Sembrerebbe un criterio antieconomico mentre invece risponde appieno all’idea che Francesco e Chiara avevano di ricchezza e di povertà: tutto ci è donato, niente ci appartiene. Quindi restituire il ricavato del proprio lavoro ai poveri, altro non è che contribuire a ristabilire un criterio di giustizia troppe volte dimenticato.

Questo presuppone la capacità di “staccarsi” dalle cose e dalle persone, non considerando quindi nulla come proprio, neppure il luogo in cui la comunità stava crescendo. Povertà dunque non intesa come pauperismo bensì come consapevolezza di figliolanza, di creaturalità, che ti permette di sentirti realmente ciò che sei, figlio di Dio, creatura tra le creature che dipende solo dalla relazione con Lui e nient’altro.

“Anche disse che, quando essa santissima madre mandava le Sore servitrici de fora del monasterio, le ammoniva che, quando vedessero li arbori belli, fioriti e fronduti, laudassero Iddio; e similmente quando vedessero li omini e le altre creature, sempre de tutte e in tutte (le) cose laudassero Iddio”. Questa la testimonianza di Sora Angeluccia De Messere Angeleio Da Spoleto, monaca del “Monasterio de Santo Damiano” che si trova negli atti al processo di canonizzazione di Chiara d’Assisi. Anche la vita di Chiara è stata una lode continua, un Magnificat. Ripensando a Maria che esce in fretta per raggiungere la cugina Elisabetta, colpisce il fatto che negli scritti di Chiara siano presenti più e più volte termini come “camminare”, “correre”, “avanzare”…c’è sempre nella vita e nel cuore di Chiara un movimento non necessariamente fisico, ma un moto dell’anima. In fondo anche la preghiera, la contemplazione, l’amore implicano un movimento. Questa tensione del cammino di Maria per andare verso Elisabetta, Chiara l’ha vissuta tutti i giorni della sua vita.

La lode al Signore è stata vissuta da Chiara in ogni istante e si è manifestata attraverso la sua corporeità nell’incontro con le Sorelle, con i frati, con tutta la gente di Assisi che andava a san Damiano. Chiara ha come modello Maria e come lei vive la sua femminilità, il suo essere donna, figlia, sorella e sposa di Cristo nel quotidiano, nella ferialità. Le Fonti ci riportano Chiara attenta alle Sorelle, che rimboccava loro le coperte durante la notte perché non prendessero freddo, che lavava i corpi delle ammalate, che le abbracciava quando avevano bisogno di affetto e di tenerezza… attenzione, accoglienza, dolcezza ma anche fermezza di una donna che ha inventato un nuovo modo di essere feconda nell’amore.

“Và sicura, anima mia, perché hai buona scorta nel viaggio. Và, perché Colui che t’ha creata, ti ha santificata e sempre guardandoti come una madre suo figlio, ti ha amata con tenero amore. E tu, Signore, sii benedetto che mi hai creata.” (FF 3252) Queste parole pronunciate da Chiara in punto di morte completano l’immagine che ci possiamo fare di lei, quella di una donna riflessa nello specchio, cioè il crocifisso di san Damiano, e trasformata interamente in Lui, come auspicava che avvenisse ad Agnese di Praga nella III.Lettera a lei indirizzata: “Colloca i tuoi occhi davanti allo specchio dell’eternità, colloca la tua anima nello splendore della gloria, colloca il tuo cuore in Colui che è figura della divina sostanza, e trasformati interamente, per mezzo della contemplazione, nella immagine della divinità di Lui.” (FF 2888)

Ancora di più ci colpiscono la sua lungimiranza e la sua attenzione, il suo amore verso le “Sorelle future”, le sue eredi, che ancora oggi testimoniano il suo carisma e il fatto che seguire povere Cristo povero, è possibile.

“Vi benedico in vita mia e dopo la mia morte” (FF 2856). Ci piace concludere con la Benedizione di Santa Chiara (FF 2854-2858), sottolineando come in queste parole Chiara riprenda una solenne benedizione biblica, ma allo stesso tempo vi introduca delle parole nuove. Infatti, rivolgendosi a tutte le Sorelle presenti e future chiede l’intercessione non solo di tutti i santi ma anche di tutte ‘le sante di Dio’. Chiara introduce così l’immagine di una comunione di ‘sante’, sottolineando anche in questo modo il particolare legame spirituale che unisce le damianite tra loro, presenti e future, e le donne di fede che vivono il Vangelo alle donne che le hanno precedute nel cammino di fede.


“Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

Il Signore vi benedica e vi custodisca. Mostri a voi la sua faccia e vi usi misericordia. Rivolga a voi il suo volto e vi doni la pace, a voi, sorelle e figlie mie e a tutte coloro che verranno dopo di voi e rimarranno in questa nostra comunità, e alle altre tutte che in tutto l’Ordine persevereranno fino alla fine in questa santa povertà.

Io, Chiara, serva di Cristo, pianticella del santo padre nostro Francesco, sorella e madre vostra e delle altre Sorelle Povere, benché indegna, prego il Signore nostro Gesù Cristo, per la sua misericordia e per l’intercessione della sua santissima Madre Maria, del beato arcangelo Michele e di tutti i santi Angeli di Dio, (del beato padre nostro Francesco) e di tutti i santi e le sante di Dio, perché lo stesso Padre celeste vi doni e vi confermi questa santissima benedizione in cielo e in terra: in terra, moltiplicandovi, con la sua grazia e le sue virtù, fra i suoi servi e le sue serve nella sua Chiesa militante; in cielo, esaltandovi e glorificandovi nella sua Chiesa trionfante fra i suoi santi e sante.

Vi benedico in vita mia e dopo la mia morte, come posso e più di quanto posso, con tutte le benedizioni, con le quali lo stesso Padre delle misericordie benedisse e benedirà in cielo e in terra i suoi figli e le sue figlie spirituali, e con le quali ciascun padre e madre spirituale benedisse e benedirà i suoi figli e le sue figlie spirituali. Amen.

Siate sempre amanti di Dio e delle anime vostre e di tutte le vostre sorelle, e siate sempre sollecite di osservare quanto avete promesso al Signore.

Il Signore sia sempre con voi, ed egli faccia che voi siate sempre con lui.

Amen.”

 (Benedizione di Santa Chiara d’Assisi)



Monica Cardarelli 

FAMIGLIA CRISITANA: EDITH STEIN, DALL'ATEISMO AL MARTIRIO AD AUSCHWITZ

Santa Teresa Benedetta della Croce fu secondo Giovanni Paolo II «una personalità che portò nella sua intensa vita una sintesi drammatica del nostro secolo». Tedesca di famiglia ebrea, a 14 anni abbandona l’ ebraismo e diviene atea. Studia filosofia con Husserl. Nel 1921 si converte al cattolicesimo e nel ’ 33 entra al Carmelo di Colonia. Il 2 agosto 1942 viene prelevata dalla Gestapo e deportata nel campo di sterminio dove muore nella camera a gas. Wojtyla nel 1999 l’ ha proclamata compatrona d’ Europa


Edith Stein nasce a Breslavia, capitale della Slesia prussiana, il 12 ottobre 1891, da una famiglia ebrea di ceppo tedesco. Allevata nei valori della religione israelitica, a 14 anni abbandona la fede dei padri divenendo atea. Studia filosofia a Gottinga, diventando discepola di Edmund Husserl, il fondatore della scuola fenomenologica. Ha fama di brillante filosofa. Nel 1921 si converte al cattolicesimo, ricevendo il Battesimo nel 1922. Insegna per otto anni a Speyer (dal 1923 al 1931). Nel 1932 viene chiamata a insegnare all’ Istituto pedagogico di Münster, in Westfalia, ma la sua attività viene sospesa dopo circa un anno a causa delle leggi razziali. Nel 1933, assecondando un desiderio lungamente accarezzato, entra come postulante al Carmelo di Colonia. Assume il nome religioso di suor Teresa Benedetta della Croce. Il 2 agosto 1942 viene prelevata dalla Gestapo e deportata nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau dove il 9 agosto muore nella camera a gas. Nel 1987 viene proclamata Beata, è canonizzata da Giovanni Paolo II l’ 11 ottobre 1998. Nel 1999 viene dichiarata, con S. Brigida di Svezia e S. Caterina da Siena, compatrona dell’ Europa.

Di lei resta un pugno (simbolico) di cenere
Un pugnetto di cenere e di terra scura passata dal fuoco dei forni crematori di Auschwitz: è ciò che oggi rimane di S. Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein; ma in maniera simbolica, perché di lei effettivamente non c’ è più nulla. Un ricordo di tutti quegli innocenti sterminati, e furono milioni, nei lager nazisti. Questo piccolo pugno di polvere si trova sotto il pavimento della chiesa parrocchiale di San Michele, a nord di Breslavia, oggi Wroclaw, a pochi passi da quel grigio palazzetto anonimo, in ulica (via) San Michele 38, che fu per tanti anni la casa della famiglia Stein. I luoghi della tormentata giovinezza di Edith, del suo dolore e del suo distacco. Sulla parete chiara della chiesa, ricostruita dopo la guerra e affidata ai salesiani, c’ è un arco in cui vi è inciso il suo nome. Nella cappella, all’ inizio della navata sinistra, si alzano due blocchi di marmo bianco: uno ha la forma di un grande libro aperto, a simboleggiare i suoi studi di filosofia; l’ altro riproduce un grosso numero di fogli ammucchiati l’ uno sopra l’ altro, a ricordare i suoi scritti, la sua produzione teologica.

Da atea a monaca carmelitana e martire
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la sua vicenda è balzata via via all’ attenzione della comunità internazionale, rivelando la sua grande statura, non solo filosofica ma anche religiosa, e il suo originale cammino di santità: era stata una filosofa della scuola fenomenologica di Husserl, una femminista ante litteram, teologa e mistica, autrice di opere di profonda spiritualità, ebrea e agnostica, monaca e martire; “una personalità – ha detto di lei Giovanni Paolo II – che porta nella sua intensa vita una sintesi drammatica del nostro secolo”.

La spiritualità mariana
C’ è in realtà un “filo mariano” che si dipana in tutta l’ esperienza umana e spirituale di questa martire carmelitana. A cominciare da una data precisa, il 1917. In Italia è l’ anno della disfatta di Caporetto, in Russia della rivoluzione bolscevica. Per Edith il 1917 è invece l’ anno chiave del suo processo di conversione. L’ anno del passo lento di Dio. Mentre lei, ebrea agnostica e intellettuale in crisi, brancola nel buio, non risolvendosi ancora a “decidere per Dio”, a molti chilometri dall’ università di Friburgo dov’ è assistente alla cattedra di Husserl, nella Città Eterna, il francescano polacco Massimiliano Kolbe con un manipolo di confratelli fondava la Milizia dell’ Immacolata, un movimento spirituale che nel suo forte impulso missionario, sotto il vessillo di Maria, avrebbe raggiunto negli anni a venire il mondo intero per consacrare all’ Immacolata il maggior numero possibile di anime. Del resto – e come dimenticarlo? – quello stesso 1917 è pure l’ anno delle apparizioni della Madonna ai pastorelli di Fatima. Un filo mariano intreccia misteriosamente le vite dei singoli esseri umani stendendo la sua trama segreta sul mondo.

L'influenza (decisiva) di di Santa Teresa d’ Avila
Decisiva per la conversione della Stein al cattolicesimo fu la vita di santa Teresa d’ Avila letta in una notte d’ estate. Era il 1921, Edith era sola nella casa di campagna di alcuni amici, i coniugi Conrad-Martius, che si erano assentati brevemente lasciandole le chiavi della biblioteca. Era già notte inoltrata, ma lei non riusciva a dormire. Racconta: "Presi casualmente un libro dalla biblioteca; portava il titolo "Vita di santa Teresa narrata da lei stessa". Cominciai a leggere e non potei più lasciarlo finché non ebbi finito. Quando lo richiusi, mi dissi: questa è la verità". Aveva cercato a lungo la verità e l’ aveva trovata nel mistero della Croce; aveva scoperto che la verità non è un’ idea, un concetto, ma una persona, anzi la Persona per eccellenza. Così la giovane filosofa ebrea, la brillante assistente di Husserl, nel gennaio del 1922 riceveva il Battesimo nella Chiesa cattolica. Edith poi, una volta convertita al cattolicesimo, è attratta fin da subito dal Carmelo, un Ordine contemplativo sorto nel XII secolo in Palestina, vero “giardino” di vita cristiana (la parola karmel significa difatti “giardino”) tutto orientato verso la devozione specifica a Maria, come segno di obbedienza assoluta a Dio.   Il 21 aprile 1938 suor Teresa Benedetta della Croce emette la professione perpetua. Fino al 1938 gli ebrei potevano ancora espatriare, in America perlopiù o in Palestina, poi invece – dopo l’ incendio di tutte le sinagoghe nelle città tedesche nella notte fra il 9 e il 10 novembre, passata alla storia come "la notte dei cristalli" – occorrevano inviti, permessi, tutte le carte in regola; era molto difficile andare via. In Germania era già cominciata la caccia aperta al giudeo. La presenza di Edith al Carmelo di Colonia rappresenta un pericolo per l’ intera comunità: nei libri della famigerata polizia hitleriana, infatti, suor Teresa Benedetta è registrata come "non ariana". Le sue superiori decidono allora di farla espatriare in Olanda, a Echt, dove le carmelitane hanno un convento. Prima di lasciare precipitosamente la Germania, il 31 dicembre del 1938, nel cuore della notte, suor Teresa chiede di fermarsi qualche minuto nella chiesa “Maria della Pace”, per inginocchiarsi ai piedi della Vergine e domandare la sua materna protezione nell’ avventurosa fuga verso il Carmelo di Echt. “Ella – aveva detto – può formare a propria immagine coloro che le appartengono”. “E chi sta sotto la protezione di Maria – lei concludeva –, è ben custodito.”

La deportazione e la morte nel campo nazista di Auschwitz
L’ anno 1942 segnò l’ inizio delle deportazioni di massa verso l’ est, attuate in modo sistematico per dare compimento a quella che era stata definita come la Endlösung, ovvero la "soluzione finale" del problema ebraico. Neppure l’ Olanda è più sicura per Edith. Il pomeriggio del 2 agosto due agenti della Gestapo bussarono al portone del Carmelo di Echt per prelevare suor Stein insieme alla sorella Rosa. Destinazione: il campo di smistamento di Westerbork, nel nord dell’ Olanda. Da qui, il 7 agosto venne trasferita con altri prigionieri nel campo di sterminio di Auschwitz- Birkenau. Il 9 agosto, con gli altri deportati, fra cui anche la sorella Rosa, varcò la soglia della camera a gas, suggellando la propria vita col martirio: non aveva ancora compiuto cinquantuno anni.

giovedì 9 agosto 2018

Mons. Nunzio Galantino – Un dialogo tra generazioni chiamato Vita

Proprio il contrario del Dio trasmessoci dall’iconografia tradizionale! A farci scoprire che “Dio è giovane” è un uomo di ottant’anni suonati a cui facciamo fatica a stare dietro: papa Francesco. Lo fa rispondendo in un libro (Piemme, Milano 2018) alle domande di Thomas Leoncini e dimostrandoci che esistono persone che sanno “vedere” e altre che non sanno nemmeno guardare.


È proprio vero! L’età non conta per capire il cuore; soprattutto il cuore dei giovani perché «Il giovane va con due piedi come gli adulti, ma a differenza degli adulti che li tengono paralleli, ne ha sempre uno davanti all’altro, pronto per partire, per scattare. Sempre lanciato in avanti».

La marcia in più di questo Papa, quella che ci costringerà sempre a inseguirlo, sta nella sua capacità di vedere dentro al cuore delle persone e del mondo.

Il lettore si imbatte in un linguaggio totalmente lontano da quello dei documenti ufficiali; un linguaggio che non patisce della preoccupazione di una dottrina ineccepibile, ma – lasciandosi andare allo stile della conversazione – riesce a raccontare con semplicità cose profonde e per certi versi sorprendenti. Non perché nuove, ma perché c’è bisogno di qualcuno che ce le faccia capire. Come capita quando Francesco parla della forte connessione che c’è fra i giovani e gli anziani. Immaginando la vita come un dialogo continuo e fecondo fra le generazioni, egli afferma: «Giovani e anziani devono parlarsi e devono farlo sempre più spesso: questo è molto urgente!

E devono essere i vecchi tanto quanto i giovani a prendere l’iniziativa. C’è un passo della Bibbia (Gl 3, 1) che dice: “I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni”».

Niente a che fare con chi pensa che i giovani vadano difesi a prescindere: questo è giovanilismo. Nella sua visione di dialogo tra generazioni, il Papa arriva addirittura a scavalcare una generazione, quella dei genitori, per invitare i giovani a cercare il legame con i nonni. L’avevo già sentito – a Cracovia, per esempio – e mi ero detto: lo sta facendo per mettere i ragazzi in contatto con persone che vivono la fede con maggiore convinzione. E invece no: attraverso la bellissima espressione del libro di Gioele, il Papa ci offre una visione di vita straordinaria: partire dagli scarti (giovani e anziani) per “tirar dentro”, in questo legame, gli adulti. Invitandoli a non sentirsi dispensati dal confronto col passato e dall’urgenza del futuro. Entrambi gravidi di esperienze e di attese.

Illuminante, e per certi versi spietata, la lettura che viene fatta degli adulti che non accettano la propria condizione e vogliono restare eternamente giovani. L’età della giovinezza, col suo vitalismo e la sua libertà, è diventata una condizione invidiata da tutti, divenuta anzi un ideale collettivo. Tutti oggi vogliono restare giovani e per il maggior tempo possibile: nessuno vuole invecchiare, perché la vecchiaia è percepita come una “malattia” o un fastidio, un ingombro dal quale stare ben lontani. Oltretutto gli stessi valori sociali si orientano inseguendo le predilezioni delle giovani generazioni, osservate come miniere di quella novità che è diventata un valore assoluto. Così l’intera società anziché guidare i giovani, li ha fatti diventare le proprie guide alla ricerca continua del nuovo, in un circolo vizioso in cui tutti perdono l’orientamento. «Troppo spesso ci sono adulti – afferma il Papa – che giocano a fare i ragazzini, che sentono la necessità di mettersi al livello dell’adolescente, ma non capiscono che è un inganno».

Affinché il desiderio degli adulti di parlare dei giovani non risulti una pretesa inappropriata, i grandi dovrebbero confessare apertamente la responsabilità di aver consegnato alle nuove generazioni un mondo non proprio all’altezza delle attese e delle speranze che le stesse nuove generazioni meriterebbero. Per esempio, quando hanno loro preparato un futuro all’insegna del facile consumo, della chiacchiera, della ricerca ossessiva del potere e del primato economico-finanziario. Anche la Chiesa ha le sue responsabilità, quando non è riuscita a consegnare una religione più affascinante, come lo è il Vangelo, magari anche per la testimonianza poco coerente di alcuni che hanno riempito le cronache recenti.

È disarmante leggere le riflessioni che fa il Papa. Una volta di più ci rendiamo conto di quanto tutti – Chiesa compresa – rischiamo di arrotolarci su noi stessi quando ci lasciamo imprigionare da beghe dottrinali, quando ci concentriamo esclusivamente per rifare l’elenco dei valori “non negoziabili” come se si stessero riscrivendo le tavole di Mosè, oppure quando la burocrazia tiene lontano dalla vita della gente. L’alternativa, per chiunque abbia responsabilità di guida e di governo, sta nel rimanere continuamente con il cuore e l’orecchio tesi alle storie di vita e di morte delle persone. Il famoso “odore delle pecore” non è populismo a buon mercato che dà una leggera passata di vernice alle proprie parole e azioni. È il patire dentro e accanto alla vita di tutti: un esercizio nel quale anche molti uomini di Chiesa hanno perso la fiducia, pensando che i grandi problemi del mondo si capiscono leggendo molti giornali o partecipando a interminabili convegni. In realtà solo lo sguardo sulla vita del mondo istruisce il cuore e dà la capacità di “vedere”.

NUNZIO GALANTINO

Fonte
Il Sole 24 Ore – COMMENTI E INCHIESTE / Testimonianze dai confini – 21 aprile 2018

martedì 7 agosto 2018

Beato Luigi Novarese: CHE COS’E IL CORPO MISTICO


L’Ancora: n. 2 – febbraio 1964 – pag. n. 1-4

Il Corpo Mistico è la più bella e la più grande verità che il Divin Redentore ci ha presentato quale frutto della Sua Passione, diventare una cosa sola con Lui — membri suoi — mediante la divina grazia.
La nostra adesione personale al cristia
nesimo, per mezzo della fede che accetta e del battesimo che introduce, ci costituisce parte viva della Chiesa, che è il Corpo Mistico di Nostro Signor Gesù Cristo.
Il Corpo Mistico è quindi l’unione di fedeli, costituita sulla pietra angolare che è il Divin Redentore, guidata, attraverso i secoli, dal Vicario di Gesù, il Papa.
Non è questa una unione soltanto morale, costituita dal comune proposito, come potrebbe essere in una società terrena, ma un insieme di anime, unite da un vincolo vivo e vitale che è la vita di Dio, partecipata a ciascuna di esse per mezzo dei Sacramenti.
Nè si tratta di unione acefala, oppure guidata dalla Gerarchia, che sono i Vescovi uniti al Santo Padre, bensì di una sublime realtà, che sorpassa ogni nostra aspettativa umana, di cui Gesù Cristo stesso è il meraviglioso Capo di questo Corpo e i fedeli, uniti a Lui nel vincolo dolce della divina grazia, sono le membra. E’ così un corpo reale, spirituale, che ha la Sua base in Gesù Cristo, le cui membra o sono già unite nella gloria della Gerusalemme celeste o lo sono nella trepida e fiduciosa attesa del Paradiso.
Il Corpo Mistico quindi è la Chiesa, fondata da Gesù Cristo, vivificata dalla vita di Dio, che come linfa circola
in ogni membro. E’ questo il grande dono che Dio ha fatto all’umanità, unirla a Sè non soltanto col perdono, ma donandole qualcosa della Sua vita, per cui, con l’accettazione del Messaggio Evangelico, è divenuta divina al punto di poter con giustizia affermare: « Io vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me ».
Così S. Paolo conclude presentando l’innesto del divino sull’umano, la pianta vegeta e buona che rende fruttifero l’albero selvatico.
Mistico perché indica una unione soprannaturale, per noi misteriosa se la consideriamo con gli occhi terreni, ma non per questo meno reale delle grandi realtà che vediamo e palpiamo.
Questa verità, che ci porta alla considerazione del fine soprannaturale che ci attende e ci dice la grande dignità in cui siamo stati costituiti, va considerata alla luce della parola di Gesù e dell’insegnamento di San Paolo. Fin d’ora però, anche nella sola spiegazione ed affermazione possiamo intravvedere punti che rivoluzionano i rapporti ed i valori umani.
Un corpo non può odiare le proprie membra; soffre a causa del malessere di uno e se ne priva soltanto in vista del bene totale dell’organismo. Così nella vita del Cristiano: il fratello non può odiare il fratello, perché questo è membro del corpo mistico di cui Cristo è il Capo.
Ogni membro in questo corpo ha una funzione propria, come nel corpo umano, per cui non tutti sono apostoli, profeti, ecc. ma ciascuno ha una caratteristica finalità a beneficio di tutto l’organismo.
L’unica condizione per conservare questa grande operosità nel Corpo mistico di Gesù Cristo è di rimanere in Lui, restare uniti al Corpo mediante il vincolo della grazia. Soltanto così si può fare parte di questo corpo ed avere le grandi e sublimi finalità del Capo. Gesù Cristo così vive ancora nel nostro secolo nel fratello che incontriamo o che salutiamo, perché compiendo anche la più piccola delle opere caritative verso i fratelli l’abbiamo fatta a Lui: “mihi fecistis”. Così questo mezzo offre a ciascuno di noi la possibilità di manifestare, mediante la carità verso il prossimo, l’amore e la devozione che abbiamo verso di Lui. E’ tutta questione di fede! Ma da questo punto sono partiti i Santi e per questa ragione li vediamo chini dinanzi ai propri fratelli.
In questa maniera abbiamo la sublime realtà, Gesù anche oggi, attraverso i sofferenti uniti a Lui nel vincolo della Grazia, continua la sua passione e, giorno per giorno, la completa «per la salvezza di molti ».
Sublime realtà che schiude orizzonti sempre nuovi e rende bella ed attraente anche una vita dolorosa e martoriata, perché la vitalità sovrabbondante del più piccolo membro del Corpo Mistico di Cristo, va a beneficio e gloria di tutto l’organismo.
Luigi Novarese

domenica 5 agosto 2018

Enzo Bianchi "Afoni e incapaci di dire il vangelo"

Dove va la Chiesa? Afoni e incapaci di dire il vangelo
Vita Pastorale di Agosto 2018

Siamo tutti convinti che la crisi più vistosa e determinante per il futuro delle comunità cristiane è quella riguardante la trasmissione della fede, in particolare nel nostro paese.
In altre chiese europee, infatti, questa rottura della trasmissione dell’eredità cristiana è avvenuta alcuni decenni fa, mentre in Italia la stiamo vivendo attualmente ed essa si impone con un’accelerazione che richiede a tutti i cristiani di intervenire, cercando e assumendo antidoti a tale situazione. I dati che ci vengono forniti da diverse analisi dicono che soprattutto la generazione degli attuali quarantenni e cinquantenni si mostra incapace e afona nel trasmettere il Vangelo, la memoria di Gesù Cristo e – diciamolo con chiarezza – la speranza cristiana ai loro figli, ai millennials immersi in una giovinezza priva di orientamenti, che pure cercano e desiderano per trovare ragioni e senso alla loro vita.

Interroghiamoci dunque sulla trasmissione della fede qui e ora. Bisogna innanzitutto affermare che la trasmissione è un dovere, un compito del cristiano, perché risponde a un’esigenza espressa anche nelle Scritture: “Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai” (Dt 6,6-7). E più avanti, sempre nel Deuteronomio, la parola del Signore attesta: “Quando domani tuo figlio ti domanderà: ‘Che cosa significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore, nostro Dio, vi ha dato?’, tu risponderai a tuo figlio: ‘Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente’” (Dt 6,20-21). Queste parole che stanno al cuore della fede degli ebrei, e ovviamente della nostra fede in Gesù Cristo, attestano che la trasmissione è un necessario insegnamento intergenerazionale, di padre in figlio, quale trasfusione di memoria per creare un orizzonte comune di fede e di speranza, quale comunicazione di un’esperienza che può costruire una comunità nel tempo, una comunione diacronica del popolo di Dio.

In questo la “narrazione”, forma biblica dell’enunciazione della fede, svolge un ruolo privilegiato. Forse l’odierna crisi della trasmissione è dovuta anche all’incapacità di narrare, di fare memoria, di rinnovare un messaggio, di prestare attenzione a ciò che ci ha preceduto, perché tutte le energie sembrano esaurirsi nell’attimo fuggente, in un presente che non sa da dove è originato ed è incapace di proiettarsi nel futuro.

Non possiamo neppure dimenticare che nel Nuovo Testamento la necessità della trasmissione è manifestata come possibilità di legame tra le generazioni. Afferma più volte Paolo nelle sue lettere: “Io vi trasmetto quello che ho ricevuto” (1Cor 15,3, ecc.). L’Apostolo è consapevole non solo della necessaria continuità della fede tra antica e nuova alleanza, tra Gesù Cristo e la chiesa, ma anche che trasmettendo si genera alla fede, si agisce in modo da operare un’inclusione nel popolo in alleanza con il Signore. Dunque la trasmissione è un dovere che permette di abitare la terra e di stare nella storia conservando e rinnovando l’alleanza con Dio, diventando testimoni della sua azione di misericordia e di salvezza in favore dell’intera umanità.

Ma accanto alla dimensione del “dovere” si colloca anche quella del desiderio di far partecipare altri, la generazione che viene, alla buona notizia che ha “salvato” la nostra vita. La trasmissione si basa sulla convinzione che ciò che è essenziale per noi può esserlo anche per gli altri. Dovere e desiderio convergono nel comporre la responsabilità della trasmissione. Chi ha ricevuto il Vangelo sente nel Vangelo stesso l’appello a trasmetterlo. Al riguardo vi è un’annotazione dell’intellettuale francese Régis Debray che mi pare molto significativa: “Trasmettiamo affinché ciò che viviamo, crediamo e pensiamo non muoia con noi”. Parole che dovrebbero intrigarci nel profondo, spingendoci a meditare sul fatto che la trasmissione è chiamata a confrontarsi con la non-trasmissione, la quale è fine, morte della nostra fede e della nostra speranza.

Proprio per questo ci poniamo la domanda: c’è un futuro per il cristianesimo? Se le nuove generazioni sono così indifferenti alla fede, che ne sarà della speranza cristiana? Risuona dunque in modo drammatico l’interrogativo di Gesù: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8). E proseguendo il ragionamento, ecco emergere la domanda decisiva: noi che, per esperienza vissuta e per età siamo costituiti quale generazione dei “traghettatori”, abbiamo la convinzione che la nostra fede è salvezza per le nostre vite? Crediamo che Gesù Cristo è il tesoro scoperto in un incontro, per il quale abbiamo lasciato e dimenticato tutto il resto, alla fine di seguire lui, avendo messo la nostra fede in lui, il salvatore delle nostre vite e il vincitore sulle nostre morti?

La trasmissione deve trasportare un’esperienza e un vissuto nel tempo, attraverso (trans-) le generazioni, deve darle una continuità, un avvenire. La trasmissione vuole impedire che la fede resti una vicenda momentanea, facendola invece diventare storia personale e di popolo. Solo con la trasmissione la fede è sottratta all’uso individualistico per trasformarsi in esperienza comune, partecipata, ecclesiale, comunitaria: la trasmissione vuole strappare la fede al momentaneo, all’episodico, per conferirle durata, continuità, comunità.

Di fronte a questa crisi della trasmissione, oggi siamo spesso tentati dall’impazienza e dall’angoscia, che inducono a cercare frettolosamente “vie di salvezza”, vie di uscita dalla crisi, ricorrendo a forme di comunicazioni dominanti, cioè a quell’iper-comunicazione che maschera il fatto che oggi non si trasmette più. Si informa, si comunica, si moltiplicano le parole, si alzano i toni; così facendo, però, non si trasmette, perché la buona notizia, il Vangelo, è trasmissibile solo con la presenza di testimoni. Detto più semplicemente: di chi, al solo vederlo, presenta tratti evangelici nella sua persona, nel suo stare davanti a Dio e in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo. Trasmettere la fede non significa fare proselitismo né aumentare il numero degli appartenenti alla comunità, e neppure agire con la sicurezza di un metodo che si vuole efficace quale antidoto alla paura di scomparire: queste pretese forme di trasmissione risultano irricevibili. Infine, il cristiano non può dimenticare che la trasmissione della fede gli richiede di apprestare tutto affinché essa possa avvenire senza ostacoli e di farlo con impegno e convinzione, sapendo però che il soggetto della trasmissione della fede è sempre lo Spirito santo, è la potenza del Vangelo di Gesù Cristo.

La chiesa italiana in quest’ora è chiamata soprattutto a interrogarsi sulla trasmissione della fede, ritrovando l’essenzialità del messaggio cristiano, nell’umiltà di un ascolto dell’umanità di oggi e non più in una postura “magisteriale”, perché nessuno può fare opera di trasmissione se non si pone lui stesso per primo in ascolto.

Ritrovare l’essenziale della fede significa operare una semplificazione urgente dell’annuncio cristiano, concentrarsi sull’essenziale del Vangelo, dare l’assoluto primato all’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto (cf. Evangelii gaudium 35-36). Si tratta di operare affinché avvenga l’incontro con Gesù Cristo, il Cristo creduto e testimoniato dai Vangeli e dai suoi testimoni nella storia: non un Cristo proiezione dei desideri e dei progetti umani, ma colui che è l’esegesi del Padre (cf. Gv 1,18). L’operazione è faticosa e richiede un’ablatio, un “togliere via” tante immagini ed espressioni che impediscono all’uomo e alla donna di oggi di riconoscere l’amore che vince la morte. Ciò consentirà di accedere a quella fede in Gesù Cristo che ci può portare, nella forza dello Spirito santo che abita in ogni umano, a riconoscere Dio e a far parte della comunità, la chiesa corpo di Cristo.

E. Bianchi "Bene comune, patrimonio dimenticato"

Jesus - Bisaccia del mendicante - Agosto 2018

Esiste un’espressione che appartiene al patrimonio ereditato come società civile, ma che oggi pare dimenticata quando non addirittura contestata: il bene comune. Siamo tutti consapevoli che la nostra società occidentale, e l’italiana in particolare, attraversa da alcuni anni una crisi. “Crisi” è parola tra le più tentacolari che esistano nel vocabolario: viene da krísis, passare al vaglio e indica separazione, giudizio.


Ai giorni nostri l’applicazione di questo concetto a una corpo sociale, alla polis, alla società, indica una situazione di deperimento, di decrescita, di decadenza. Ci troviamo, e lo affermiamo, in una situazione di crisi, ma dovremmo dire innanzitutto che la nostra crisi è sociale, culturale, etica, antropologica e, quindi, è anche politica ed economica. Politica perché la politica è astenica, debole e anche afona: paradossalmente “grida” con voce forte perché non ha nulla da dire in verità; democratica, perché vediamo qua e là affiorare tentativi di manovre di tirannia compatibile con l’attuale assetto democratico; sociale, perché non si è più capaci di un orientamento comune per la società; legale, perché l’illegalità sembra prevalere sempre più; morale, etica, perché vengono a mancare i principi di giustizia e di uguaglianza. E infine, ovviamente, crisi finanziaria ed economica, patita da moltissime persone.

Di fronte a questa situazione – che le stesse “agenzie formative” come la scuola e la stessa chiesa non hanno finora saputo fronteggiare con efficacia – emerge la necessità di una controtendenza che si può solo esprimere in una ricerca del bene comune.

Bene comune – quest’unica espressione composta da due parole – è un concetto essenziale per la convivenza, per la qualità della vita nella polis. “Bene” indica ciò che noi vorremmo e ciò che auguriamo alle persone cui siamo legati: il bene (bonum) è quanto gli uomini e le donne desiderano per vivere in pienezza. Bene comune non è semplicemente un patrimonio comune, qualcosa di materiale posseduto insieme, ma è l’insieme delle condizioni di vita che favoriscono il “ben-essere”, l’umanizzazione di tutti: bene comune sono anche la cultura, la democrazia, l’arte… Il naturale destinatario del bene comune allora non è più l’individuo ma la persona enlla sua unicità e interezza.

La società è antecedente all’individuo, come l’unità del corpo è antecedente alle membra che lo compongono: perciò il bene di ciascuno abbisogna del bene comune che lo precede e che gli consente di definirsi. Oggi vediamo dominante la concezione individualistica e utilitaristica della società e pensiamo che l’organizzazione della città debba garantire ai suoi membri i diritti individuali, ma in questo modo riduciamo l’interesse generale alla semplice somma degli interessi individuali e tralasciamo il bene comune.

È proprio vero che l’economia è il fondamento della società e che l’utile ne è la sola ragion d’essere? È proprio vero che ciascuno debba perseguire il proprio interesse e che nessuno possa intervenire a disturbare il gioco? La vita buona riguarda solo la vita privata degli individui oppure i diritti individuali devono essere ottemperati con i diritti degli altri, nella ricerca del bene comune? Ecco perché la vita buona non può essere dettata solo dall’economia e dalla capacità di consumo.

È un ambito in cui assistiamo da tempo a una triste afonia dei cristiani nella vita politica, quasi che la dimensione comunionale propria dei discepoli del Signore non sia in grado di offrire un contributo valoriale specifico nella compagnia degli uomini. Eppure, nell’attuale crisi a livello occidentale occorre tornare tutti insieme – indipendentemente dal proprio credo, ma facendo tesoro delle ricchezze che questo racchiude – alla ricerca del bene comune, anche perché le scienze umane attestano sempre più che “vivere è inter homines esse”: stare tra gli uomini, vivere le relazioni umane è ciò che ci umanizza, ma è anche la prima forma del bene che gli esseri umani conoscono, un bene “comune”. Senza ecosistema relazionale, comunitario, politico, non ci può essere cammino di umanizzazione, ma solo il perseguire interessi individuali ed egoismi competitivi che portano a ingiustizia, ineguaglianza e, di conseguenza, conflitto, violenza, guerra! È questo che vogliamo, come cristiani?

sabato 4 agosto 2018

Osservatore Romano: Contemplativi nell'azione

 Una formula ignaziana tra Montini e Bergoglio

Nel messaggio del 29 luglio scorso al presidente del consiglio esecutivo della Comunità di vita cristiana, il Papa ha scritto: «Al centro della vostra spiritualità ignaziana c’è il voler essere contemplativi nell’azione. Contemplazione e azione, le due dimensioni insieme: perché possiamo entrare nel cuore di Dio solo attraverso le piaghe di Cristo, e sappiamo che Cristo è piagato negli affamati, negli ignoranti, negli scartati, negli anziani, nei malati, nei detenuti, in ogni carne umana vulnerabile». Si potrebbe commentare questo testo con Gaudete et exsultate, dove al n.96 si legge che «essere santi non significa lustrarsi gli occhi in una presunta estasi»; chi parte, infatti, dalla contemplazione riesce a scoprire nei poveri e nei sofferenti «il cuore stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi».

La formula «contemplativi nell’azione» è una classica espressione dell’ideale ignaziano di perfezione cristiana. In forma molto originale, suppone che contemplazione e azione giungano, a un livello profondo, a formare un’unità sino a compenetrarsi reciprocamente mediante la carità. Tanto l’azione, quanto la contemplazione, infatti, debbono — usando un’espressione del padre Lallemant — procedere dall’amore e tendere all’amore, sicché l’amore sia il loro principio, la loro pratica e il loro termine. È quanto, a proposito della mutua compenetrazione fra azione e contemplazione, si legge in un documento pubblicato nel 1980 dalla sacra Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari: punto di partenza per ogni vita spirituale è «la spinta della carità alimentata nel cuore [...] considerato come il santuario più intimo della persona in cui vibra la grazia di unità fra interiorità e operosità» (La dimensione contemplativa della vita religiosa, n. 4).

Le parole del Papa mi hanno riportato a un testo singolare di Giovanni Battista Montini intitolato Metodo della simultaneità: una serie di appunti, in realtà, non del tutto omogenei e incompleti. Conservato nell’archivio dell’Istituto Paolo VI e pubblicato nel n. 53 del notiziario dell’istituto con il commento di Ignazia Angelini, monaca benedettina, il documento è stato inserito in una selezione di Scritti spirituali, introdotti e curati nel 2014 da Angelo Maffeis per «Studium» (a questa edizione rimandano le indicazioni di pagina).

Paolo VI in un’opera di Dina Bellotti (1912-2003)

Qui, la questione fondamentale posta da Montini è come «rendere possibile una vita spirituale sufficiente associata ad una attività esteriore assorbente; e più precisamente di ridurre questa attività a qualche profitto della stessa vita interiore». In tale prospettiva cita la formula benedettina dell’ora et labora, che considera espressione «di un equilibrio di due differenti forme di attività, collaboranti ad un medesimo scopo di culto divino e di personale santificazione» (p. 63). Il tema non è nuovo nella storia della spiritualità. Dopo il Vaticano II è generalmente riformulato nella linea di Teresa di Gesù Bambino: «L’amore racchiude in sé tutte le vocazioni» (Manoscritto B, f. 3). È l’orizzonte entro cui si muove Montini, la cui vicenda terrena ha, com’è noto, un sorprendente intreccio con la santa di Lisieux.

Questi appunti di Montini risalgono probabilmente a un periodo di poco anteriore all’episcopato milanese. Il loro tenore somiglia molto ad altri scritti spirituali risalenti all’inizio degli anni cinquanta. Fra questi, ve n’è uno (pubblicato in Riflessioni. Un itinerario di vita cristiana, Roma, Dehoniane, 1997) che ha con esso una singolare affinità: si tratta di una meditazione del 10 febbraio 1951, interamente concentrata sul passo evangelico oportet orare semper. Qui si trova enunciato il criterio per cui «uno che è venuto in contatto con Dio, deve esser sempre in stato di preghiera» e di conseguenza si afferma la necessità di «coltivare l’abitudine della presenza, dell’unione con Dio, dell’unione profonda con lui, della rettitudine d’intenzione da Lui tutto derivante, a Lui tutto indirizzante».

Anche qui c’è il rimando all’ora et labora benedettino, introdotto dalla citazione di un passo di san Tommaso; un testo chiave della teologia spirituale: «Pregare sempre equivale a conservare la propria vita ordinata a Dio» (Super epistulam ad Romanos, cap. 1 lect. 5). La riflessione montiniana prosegue così: «Questo è molto importante, perché rende possibile la simultaneità, cioè far molte cose contemporaneamente. Il maestro della vita contemplativa prescrive: ora et labora, vuol dire che son due cose in una sola, una sola direzione, cercare Dio. In forma esplicita quando prego, in forma implicita, finale quando lavoro. Dobbiamo far grande caso delle intenzioni, agire con gran rettitudine di intenzione. Se faccio una cosa indifferente per amor di Dio, essa acquista valore di un atto di amore; se la faccio con molte intenzioni: per amor di Dio e del prossimo, per onorare e servire il Signore, l’azione si arricchisce di tutto il valore di queste intenzioni» (Riflessioni. Un itinerario di vita cristiana, p. 19). Ce n’è abbastanza per immaginare una qualche contemporaneità di questa meditazione con gli appunti sopra ricordati.

Il testo di Montini sembra, almeno intenzionalmente, destinato a un’ulteriore elaborazione, forse a essere pubblicato. Sin dal principio, però, è evidente anche una dimensione autobiografica. Nelle premesse, infatti, sono esplicitamente individuati due punti di riferimento: anzitutto, «la coscienza del valore e dell’obbligo della vita interiore», e poi anche la «necessità imposta dal dovere e da altra circostanza indipendente da volontà propria di occuparsi di affari esteriori con quella certa intensità che limita il tempo e toglie la quiete per creare il grande silenzio e la profonda parola della vita interiore» (p. 61).

Quanto alla prima, interiore e permanente, esigenza molto è stato scritto. Valga per tutte la testimonianza di Jean Guitton: Paolo VIamava rileggere se stesso alla luce delle figure dei genitori. Riferisce per questo alcune parole del Papa: «A mio padre [...] devo gli esempi di coraggio, l’urgenza di non arrendersi supinamente al male, il giuramento di non preferire mai la vita alle ragioni della vita. Il suo insegnamento può riassumersi in una parola: essere testimone [...]. A mia madre devo il senso del raccoglimento, della vita interiore, della meditazione che è preghiera, della preghiera che è meditazione» (Dialoghi con Paolo VI, Mondadori, 1967, p. 75). La seconda istanza riflette senz’altro la personale situazione di Montini impegnato nella Segreteria di Stato, dove dal 1937 era sostituto e dal novembre 1952 pro-segretario di Stato per gli affari ordinari. Questi appunti sono, dunque, per lui una sorta di specchio.

La parola “simultaneità” nel titolo Metodo della simultaneità ci consegna un’altra chiave per la maggiore comprensione del documento. I termini “simultaneo” e “simultaneità”, infatti, sono alquanto frequenti nel linguaggio di Montini. Con riferimento all’espressione «contemplativi nell’azione», si può ricordare l’omelia del 27 settembre 1970, durante il rito di proclamazione di santa Teresa d’Avila a dottore della Chiesa. Il segreto della sua dottrina è «nella santità d’una vita consacrata alla contemplazione e simultaneamente impegnata nell’azione, e di esperienza insieme patita e goduta nell’effusione di straordinari carismi» dice il Papa.

Ed effettivamente, se pure nella concreta attuazione del Carmelo teresiano non si trova realizzata questa compenetrazione di vita attiva e di vita contemplativa (vigendo, al contrario e certamente per ragioni storiche, la scelta di una stretta clausura), essa è presente nella dottrina teresiana e oggi gli studiosi del carisma teresiano tendono a evidenziare proprio questo tema dell’unità di vita. Nella conclusione del Castello interiore, difatti, Teresa scrive: «Credetemi: per ospitare il Signore, averlo sempre con noi, trattarlo bene e offrirgli da mangiare, occorre che Marta e Maria vadano d’accordo. In che modo Maria, stando seduta ai suoi piedi, poteva dargli da mangiare se sua sorella non l’aiutava? Si dà da mangiare al Signore quando si fa il possibile per guadagnare molte anime, le quali, salvandosi, lo lodino eternamente». All’obiezione evangelica che Maria ha scelto la parte migliore, Teresa risponde con sapiente umorismo: «Sì, ma ella aveva già fatto l’ufficio di Marta servendo il Signore con lavargli i piedi e asciugandoglieli con i suoi capelli» (VII, iv, 12-13). Originale davvero questa rilettura dell’immagine evangelica delle due sorelle. Tre secoli dopo Teresa di Gesù Bambino la riprenderà nella «pia ricreazione» intitolata Gesù a Betania.

Il tema della simultaneità è presente ancora in altri due testi, entrambi del 1968 e ambedue riferiti al ministero sacerdotale. Al termine della concelebrazione di chiusura dell’Anno della fede, il 30 giugno, rivolto ai sacerdoti Paolo VI parlerà di un «anelito di contemplazione simultanea all’attività». E parlando ai duecento fra presbiteri e diaconi che stava per ordinare a Bogotá il 22 agosto ricorderà che l’effetto psicologico prodotto in loro dall’ordine sacro sarà la «duplice polarizzazione» della mentalità, della spiritualità e anche dell’attività «verso i due termini che trovano in noi il loro punto di contatto, la loro simultaneità: Dio e l’uomo».

Paolo VI, però, è pure consapevole della instabilità di quell’equilibrio motivata dalla fragilità umana. Ecco allora che, inaugurando sempre a Bogotá il 24 agosto 1968, la seconda conferenza generale dei vescovi dell’America latina, esclama: «Benedetto questo nostro tempo tormentato e paradossale, che quasi ci obbliga alla santità corrispondente al nostro ufficio tanto rappresentativo e tanto responsabile, e che ci obbliga a recuperare nella contemplazione e nell’ascetica dei ministri dello Spirito Santo quell’intimo tesoro di personalità, da cui la dedizione estremamente impegnativa al nostro ufficio quasi ci estroflette».

Il n. 76 dell’esortazione Evangelii nuntiandi riporta una serie di gravi domande, che il gesuita Bergoglio riproporrà dettando in quegli stessi anni gli esercizi spirituali: «Che ne è della Chiesa a dieci anni dalla fine del Concilio? È veramente radicata nel cuore del mondo, e tuttavia abbastanza libera e indipendente per interpellare il mondo? Rende testimonianza della propria solidarietà verso gli uomini, e nello stesso tempo verso l’Assoluto di Dio? È più ardente nella contemplazione e nell’adorazione, e in pari tempo più zelante nell’azione missionaria, caritativa, di liberazione?» (J. M. Bergoglio, Meditaciones para religiosos, Buenos Aires, Diego de Torres, 1982, p. 241). Ritorna nell’Evangelii nuntiandi, che è un po’ il testamento spirituale di Paolo VI, l’argomento centrale degli appunti, ossia la simultaneità di contemplazione e azione; tema che aveva già proposto nell’udienza generale del 7 luglio 1971 quando, sottolineando i criteri fondamentali che devono guidare la piena attuazione del magistero del concilio, aveva indicato «l’antico binomio, che tutto pervade l’esperienza e la storia del nostro cattolicesimo: contemplazione ed azione».

Alla fine di tutto, però, il problema vero per Montini non è ancora la composizione fra contemplazione e azione. Ancora più a fondo si tratta di come adempiere all’urgenza del pregare sempre, che è poi il bisogno di cercare sempre il Signore. Con implicito rinvio a un’espressione tomista (in fine nostrae cognitionis Deum tamquam ignotum cognoscere), Montini nel Metodo della simultaneità scrive: «Un sentimento di viva fiducia e di amorosa tendenza verso l’Incognito Conosciuto è, mi pare, più facile ad aversi e a conservarsi e a rinnovarsi fra le successive occupazioni e distrazioni dell’animo. Il sentimento qui è un pensiero implicito, un concetto dominante e operante, un’attività quasi assopita, ma sempre viva, un abituale possesso, una inclinazione spontanea verso l’Oggetto amato e cercato. Ardente e composto può associarsi ad altre operazioni dello spirito e delle membra e infondervi una tonalità che facilmente suscita coscienza più precisa e diretta del divino Presente» (p. 64).

Capiamo, da ultimo, che questo metodo comporta anche il «saper portare nella preghiera ciò che preghiera non è, e preghiera deve diventare» (p. 74). Compito, forse, non molto lontano dalle formule ignaziane «cercare e trovare Dio in tutte le cose» e «in tutto amare e servire Dio» che sottolineano alcuni aspetti fondamentali dell’essere «contemplativi nell’azione».

di Marcello Semeraro