lunedì 4 febbraio 2019

L'Osservatore Romano: La morte del prossimo

Di fronte al grande male della nostra epoca postmoderna


Citando il famoso scrittore britannico Gilbert Keith Chesterton, Papa Francesco ha affermato, durante un’omelia mattutina, che «l’eresia è una parola diventata pazza». Quando le parole “impazziscono”, perché perdono il loro autentico contenuto, sono piegate a un doppio fine o, semplicemente, vengono usate con violenza, generano sempre qualcosa di negativo. Ma, perciò, si può anche affermare il contrario: le parole “buone” sfidano l’indifferenza, inquietano l’apatia, smuovono la coscienza, interpellano la vita e, talvolta in modo invisibile, trasformano il mondo.

“Fraternità” è la parola scelta da questo autorevole quotidiano come “parola dell’anno”. Essa può “suonare la sveglia” al torpore dei nostri giorni e aprire una breccia nel nostro modo di pensare e di vivere, oggi che l’altro ha smesso di rappresentare un appello umano e imperativo etico, e nelle relazioni si erge il muro del sospetto, dell’indifferenza e dell’ostilità. 
Scriveva Michael de Certeau, nel suo splendido testo Mai senza l’altro, che «Ciò che è differente ci minaccia. Perciò facciamo di tutto per cancellarne le tracce. Gli altri, la morte, Dio: tutto ciò che designa una rottura dev’essere sfumato». Eppure, noi siamo essenzialmente relazione. L’altro non è solo colui che mi sta di fronte, ma è anche sempre colui che mi abita, senza il quale non sarei ciò che sono. Eppure, la fraternità è — come ha affermato il Papa — la promessa mancata della modernità. Ritengo che questa affermazione debba essere sottoposta a una nuovo approfondimento teologico e spirituale, in questo tempo postmoderno che si configura come sentimento di congedo proprio rispetto alle promesse dell’epoca moderna: esse, infatti, sono state disattese, e spesso tradite. Il manifesto della modernità alludeva al sogno di un mondo che, sotto la spinta del progresso, avrebbe dovuto inaugurare finalmente il tempo della libertà, dell’uguaglianza e di una fraternità universale. Benché l’analisi sia più complessa e il ventaglio di interpretazioni più ampio, si può affermare che, sostanzialmente, questo progetto doveva realizzarsi sottraendo il mondo a Dio: per rendere il mondo più umano bisogna restituirlo all’uomo. Una esigenza legittima, in un tempo in cui Dio era stato associato all’idea di un potere limitante per l’uomo e il massiccio influsso della religione aveva generato un’interpretazione statica, rigida e sacrale della realtà. Tuttavia, la promessa non si è realizzata e il mondo non è diventato affatto più umano. È successo quanto il famoso psicoanalista Luigi Zoja, già anni fa, aveva ben teorizzato ne La morte del prossimo: «Dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È un orfano senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale — è morto il suo genitore Celeste — ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino». La morte del prossimo è il grande male della nostra epoca postmoderna, epilogo di quella “morte di Dio” annunciata nella modernità, che ha cambiato il “sentire” della nostra anima. Infatti, la sfuggevole e frammentata condizione postmoderna indebolisce la pretesa di ogni verità “forte”, e ci ha disancorati da quella fiducia, quasi preventiva, in quelle “certezze” che ci introducevano al significato del vivere. Così, siamo diventati turisti che attraversano paesaggi multiprospettici, all’interno dei quali ci muoviamo come “nomadi”, nella ricerca individuale di significati. Senza più appartenenza e senza più legami. Certamente, la crescita della libertà individuale e la maturazione di un pensiero critico nei confronti di alcuni sistemi assolutistici, ha avuto il vantaggio di determinare la fine di totalitarismi e ideologie, aprendo spazi di democrazia, di accoglienza delle diversità, e di pluralismo. Il dramma, tuttavia, è che siamo andati oltre, approdando verso la dispersione, e verso un agitarsi senza meta e un vagare senza anima: percorriamo molte strade senza avere più né i mezzi, né il tempo e né la capacità di sceglierne una. Nel bel romanzo di Michael Ende, La storia infinita, si legge: «Siamo andati avanti così rapidamente in tutti questi anni, che ora dobbiamo sostare un attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci». La nostra cultura della fretta e del mercato ha consacrato l’individuo isolato e perennemente in movimento, a fronte del senso di appartenenza e di comunità. Il “contesto” — non solo geografico ma culturale, valoriale, di appartenenza — scompare a favore dell’esaltazione dell’attimo, del tweet, del selfie. La definizione dell’io, del prossimo e della vita in generale si affida ai racconti della pubblicità, della moda e del mercato. Come ha scritto efficacemente la teologa Dorothee Sölle: «Distrattamente, e al tempo stesso immersi in ciò che facciamo, spingiamo il carrello da una corsia all’altra mentre morte e alienazione sono i padroni del luogo». In questo contesto si situa “la morte del prossimo”. Il vicino, cioè, è diventato invisibile. Se i bisogni individuali diventano il cuore di tutto, la prossimità e la solidarietà diventano eccezioni. Il desiderio individuale prevale e, di conseguenza, la fratellanza non è più un desiderio. Rapiti dal consumismo, dalla fretta e dai bisogni dell’io — come ebbe ad affermare il gesuita Michael Paul Gallagher — la poesia del cuore viene soffocata, la coscienza sociale addormentata e l’individualismo spezza i legami, e ci rende consumatori solitari senza fratelli e analfabeti “felici” della vita. Ecco che allora, urge rimettere al centro una riflessione e un impegno per la fraternità. I legami spezzati, le relazioni frammentate, i vincoli infranti ci fanno diventare insicuri, e semplicemente più soli. Se viene a mancare il contesto vitale di relazioni stabili, di appartenenze definite, di valori condivisi, di comunità, rischiamo un’overdose di autoreferenzialità sotto la quale, alla fine, soccombiamo. Per questo compito — che appare urgente dinanzi a quella “cultura dello scarto” più volte denunciata da Papa Francesco — il Vangelo può rappresentare una mappa di possibilità buone, anche per chi non crede. Nelle parole, nei gesti e nello stile di Gesù ci è annunciata la prossimità di un Dio che si aggrappa alla nostra carne ferita, scioglie i nodi, spezza le catene, libera dall’oppressione e, così, ci rende finalmente capaci di amare. Egli ci ricorda che realizziamo nel profondo la nostra sete di felicità solo quando ci apriamo al coraggio e al rischio dell’amore. Un amore che è donare la vita, accompagnare, solidarizzare, compatire, fino ad abbattere i muri di separazione per innescare, in questo mondo ferito, il seme del Regno di Dio, Regno di fraternità universale. Il Maestro di Nazareth uomo libero, innamorato, e appassionato, si coinvolge nella vita delle persone e si impegna a curarne le ferite e guarirle, con viscere di compassione per il dolore del mondo. E, in tal modo, ci mostra che vera religione è la “sensibilità” verso la vita dell’altro, e che amare Dio non può mai dissociarsi dall’esercizio della solidarietà, contro ogni “globalizzazione dell’indifferenza” che emerge quando “quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri” (Evangelii Gaudium n. 54). Non è forse questo il primo urgente compito della Chiesa di oggi e di domani? Essa dovrà diventare, sempre di più, una comunità attenta, solidale, prossima all’uomo. Una comunità umile e ospitale delle diversità, capace di abitare il tempo e i travagli dell’esistenza con l’arte dell’accoglienza e del dialogo, e di essere comunità di iniziazione alla relazione con Dio e con i fratelli. Occorre osare il sogno di una Chiesa che diventi luogo di autentica fraternità e laboratorio per la costruzione di legami umanamente autentici. Scriveva Antoine de Saint-Exupery: «Le pietre del cantiere sono un mucchio disordinato solo in apparenza, se c’è, perduto nel cantiere, un uomo, sia pure uno solo, che pensa a una cattedrale». È giunta l’ora di pensare alla cattedrale della fraternità, che raccolga le macerie di un’umanità in frantumi.
di Francesco Cosentino