lunedì 30 luglio 2018

“Gesù è nella carne vulnerabile degli scartati”. Il Papa alle CVX

“Cristo è presente negli affamati, gli ignoranti, gli scartati, gli anziani, i malati, i carcerati, e in tutta la carne umana vulnerabile”. Lo ricorda Papa Francesco in un messaggio all’Assemblea mondiale delle Comunità di Vita cristiana (CVX) in corso a Buenos Aires, in Argentina, fino al prossimo martedì 31 luglio. Le Comunità compiono cinquant’anni dalla loro fondazione e Francesco invita i membri a “pregare e riflettere affinché il Signore conceda una maggiore profondità nel vivere il loro carisma”, in modo da essere “un regalo per la Chiesa e per il mondo”. In particolare li mette in guardia dalla “illusione gnostica” che, il Pontefice auspica, “non vi disorienti”. Ed esorta ad “una umile azione di grazia, perché Gesù vi ha dato fiducia al di là delle proprie qualità e virtù”. Questo, sottolinea il Papa, “suppone una chiamata e una responsabilità, ad uscire da voi stessi e andare incontro agli altri, per nutrirli con l’unico pane capace di saziare il cuore umano: l’amore di Cristo”.

“Nel centro della vostra spiritualità ignaziana – aggiunge – c’è la volontà di essere contemplativi nell’azione. Contemplazione e azione, le due dimensioni insieme: perché possiamo entrare nel cuore di Dio solo attraverso le piaghe di Cristo, che è presente in tutti gli affamati, gli ignoranti, gli scartati, gli anziani, i malati, i carcerati, e in tutta la carne umana vulnerabile”.

Francesco indica dunque alle Comunità di Vita cristiana “uno stile fatto di lavoro ma anche di intensa vita spirituale. Bisogna domandarsi continuamente, suggerisce infatti, “cosa faccio per Cristo? Cosa ho fatto per Cristo? Cosa devo fare per Cristo?”.

Nel testo, infine, Bergoglio ringrazia i presenti “per la dedizione e l’amore verso la Chiesa e i fratelli” dimostrati in questi cinquant’anni e conclude con l’incoraggiato a “continuare a rendere presente Cristo nei rispettivi ambienti, dando un significato apostolico in tutte le attività» che si intraprendono”.

sabato 28 luglio 2018

Avvenire: Il caso. Crocifisso, valore che non può dividere



Duemila anni dopo è ancora scontro sul Crocifisso. E sulla croce alla quale fu inchiodato. Esibito in campagne elettorali, espulso (nelle intenzione di alcuni) da aule scolastiche e stanze d’ospedale, evocato in altre Aule per giustificare proclami spesso tutt’altro che cristiani, bestemmiato in manifestazioni di pessimo gusto, imposto senza crederci, il simbolo per eccellenza di riconciliazione e rispetto infuoca ancora oggi il dibattito. Un dibattito viziato spesso dal fatto che, del Crocifisso, i due estremismi in guerra alla fine sanno ben poco e del resto non è Lui a interessare loro, ma la valenza propagandistica che gli attribuiscono. «Usare il Crocifisso come un Big Jim qualunque è blasfemo», ha twittato ieri padre Antonio Spadaro, direttore gesuita di "Civiltà cattolica", «la croce è segno di protesta contro peccato, violenza, ingiustizia e morte – ha ricordato –, non è mai un segno identitario. Grida l’amore al nemico e l’accoglienza incondizionata. È l’abbraccio di Dio senza difese. Giù le mani».

Big Jim, la bambola maschile tutta muscoli e snodabile, adattabile a qualsiasi posizione e circostanza, è immagine cruda quanto drammatica di un Cristo che oggi in croce ci torna tutti i giorni, brandito come arma e usato come alibi per respingere il prossimo. Esattamente sull’uso improprio di quel termine, "identitario", sottolineato da padre Spadaro, fa perno oggi una presunta "difesa" del Crocifisso che in realtà è un’offesa: «Ora in tutti gli edifici un bel crocifisso obbligatorio regalato dal Comune!», aveva trionfato su Facebook nel 2014 il neo sindaco leghista di Padova, Massimo Bitonci, dopo la vittoria elettorale,e ancora nel Padovano nel marzo scorso il sindaco leghista di Brugine, Michele Giraldo, regalava croci alle scuole del paese ma con parole minacciose: «Chi non rispetta determinati simboli deve adeguarsi, se desidera essere un nostro concittadino», e chi ha orecchie per intendere intenda... Volendo gli esempi si sprecano. Così come da parte opposta si sprecano i deliri delle croci violate nelle piazze da certo femminismo (che offende le donne stesse) o dagli eccessi in stile gay pride, o ancora da chi in nome di un frainteso "diritto alla laicità" pretende di esiliare la croce.



A rilanciare la battaglia è ora la Lega, che già il 26 marzo, poco dopo l’insediamento, ha presentato alla Camera una proposta di legge firmata da Barbara Saltamartini e intitolata "Disposizioni concernenti l’esposizione del Crocifisso nelle scuole e negli uffici delle pubbliche amministrazioni". Cinque articoli che sostengono l’obbligo di esporre il simbolo cristiano nelle scuole, nelle università, nelle pubbliche amministrazioni, eccetera, e fissa sanzioni fino a 1.000 euro per chi "rimuove in odio ad esso l’emblema della croce" o lo vilipende o rifiuta di esporlo. Nel testo si spiega il principio secondo il quale un simbolo di per sé religioso debba entrare nei luoghi della laicità: "Emblema di valore universale, è riconosciuto quale elemento essenziale del patrimonio storico dell’Italia, indipendentemente da una specifica confessione religiosa". E "cancellare i simboli della nostra identità, collante indiscusso di una comunità, significa svuotare di significato i princìpi su cui si fonda la nostra società". Così "è fatto obbligo di esporre in luogo elevato e ben visibile l’immagine del Crocifisso", anche nelle Aule dei consigli regionali, provinciali e comunali, nei seggi elettorali, nelle carceri, nelle stazioni e nei porti. Alla base c’è un concetto: "Non si ritiene che l’immagine del Crocifisso possa costituire motivo di costrizione della libertà individuale a manifestare le proprie convinzioni". Insomma, esporre la croce da una parte richiama i valori universali della nostra civiltà, dall’altra non calpesta la libertà di chi ha altri credi o è ateo. 

Decine di norme, sentenze e pareri hanno condotto fin qui. Bisogna andare indietro nel tempo, fino alla nascita dell’Italia, per attingere alle origini del secolare dibattito. L’obbligo di appendere il Crocifisso nelle scuole era previsto in un regio decreto del 1860 del Regno di Piemonte e Sardegna. Toccherà poi al Fascismo adottare misure volte a far rispettare tale obbligo, ma la croce sarà declassata allo stesso rango della bandiera e del ritratto del re. E nel regio decreto 1.297 del 1928 il Crocifisso figura tra gli “arredi” e il “materiale” occorrente nella scuola...


Particolarmente importante, invece, è la sentenza della Corte Costituzionale numero 203 del 1989, secondo la quale il principio di laicità ha sì valore costituzionale, ma non implica indifferenza da parte dello Stato verso le religioni, bensì garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione. Sarà poi il ministero dell’Istruzione nel 2002 a scrivere nella direttiva numero 2.666 che "la presenza del Crocifisso nelle aule non può essere considerata una limitazione della libertà di coscienza garantita dalla Costituzione, in quanto non evoca una specifica confessione, ma costituisce unicamente un’espressione della civiltà e della cultura cristiana, dunque fa parte del patrimonio universale dell’umanità".

Nel 2006 il Consiglio di Stato afferma poi che «l’esposizione obbligatoria della croce nelle aule scolastiche pubbliche» non solo non lede «il principio supremo della laicità dello Stato», ma addirittura evoca «i valori che quello stesso principio racchiude». Insomma, il Crocifisso per la sua alta valenza di rispetto raffigura proprio i valori su cui poggia la stessa laicità dello Stato.

Vien da dire che, sdoganata come "simbolo della nostra identità", "parte integrante delle tradizioni" come fosse un dettaglio folcloristico, slegata quindi da ogni "specifica confessione religiosa" (citazioni dalla proposta di legge Saltamartini), la croce ha ancora diritto di asilo in Italia. Comunque è ben presente nella maggior parte dei Paesi membri dell’Europa, anche quelli che non hanno dedicato al problema una specifica disciplina: solo la Francia, insieme a Macedonia e Georgia, vietano espressamente i simboli religiosi nelle scuole.

Non scordiamo, però, che derive in stile giacobino talvolta emergono anche in Italia, dove ha fatto scuola la famosa causa intentata dalla signora di origini finlandesi Soile Lautsi, che nel 2006 fece ricorso presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo (Cedu) contro la Repubblica Italiana rea di aver esposto la croce nell’aula scolastica dei suoi due bambini, ad Abano Terme, e quindi aver violato la "Convenzione per la salvaguardia delle libertà fondamentali". Nel 2009 in primo grado la Corte le diede ragione, ritenendo che fra i molti significati che il Crocifisso può avere è predominante quello religioso, dunque la sua presenza addirittura turberebbe emotivamente gli alunni di altre religioni o ancor più gli agnostici. Vale la pena soffermarsi su quest’ultima assurdità: la Cedu sostenne nientemeno che la libertà di non-religione non si limita alla mancanza di insegnamenti religiosi ma si estende anche ai simboli che essi esprimono...
Bene fece allora il governo italiano a ricordare come la croce, non a caso raffigurata su molte bandiere europee, rappresenta anche i valori che fondano la democrazia e la civiltà occidentale. Infine nel marzo del 2011, con sentenza definitiva per tutti e 47 gli Stati membri, a Strasburgo la Grande Chambre ha ribaltato la sentenza: l’esposizione del Crocifisso non viola alcun diritto e di conseguenza la scuola pubblica italiana non sta imponendo alcun tipo di indottrinamento religioso.
Difficile dire che futuro avrà la proposta Saltamartini. Certamente il dibattito politico infuria. «Un governo che si rispetti dovrebbe innanzitutto dotare le scuole di insegnanti adeguatamente retribuiti e soprattutto di edifici sicuri», ha twittato Laura Boldrini, rispolverando a dire il vero lacune ascrivibili a decenni di governi precedenti. «Non mi meraviglio, Boldrini preferiva la distribuzione del Corano a scuola», ritwitta il leghista Alessandro Pagano, accusato a sua volta di «montare bufale per inquinare il dibattito politico»...

Lucia Bellaspiga giovedì 26 luglio 2018

mercoledì 25 luglio 2018

Una tentazione vecchia e nuova: defraudare il povero

Quando accumulare ricchezze non basta più, ecco un’altra tentazione antichissima e attuale: quella di defraudare il povero. Nell’episodio biblico della vigna di Nabot, raccontato nel primo libro dei re, il re Acab, perde addirittura il sonno per il rifiuto del suo vicino Nabot di cedergli la sua vigna.

Questa tentazione doveva essere vivissima, ai tempi in cui Sant’Ambrogio, nel IV secolo, riprende l’episodio biblico per denunciare l’ingordigia e l’avarizia dei potenti dell’epoca, soprattutto per il modo in cui negavano la dignità della persona umana e alimentavano un uso insano della ricchezza. «Non sai, o uomo, come collocare le tue ricchezze? – scrive Ambrogio – Se vuoi essere ricco sii povero secondo il mondo, affinché tu sia ricco per Dio».

Acab, sottolinea Ambrogio nella sua rilettura del testo ripubblicato dalle edizioni San Paolo nella collana Vetera sed nova, prima umilia Nabot proponendogli di dargli un’altra vigna, in cambio della sua. In questo modo: “il ricco disprezza come è vile ciò che è suo”, mentre: “ciò che è di un altro lo desidera come bene preziosissimo”. Poi rilancia con un’offerta in denaro: “Colui che desidera richiudere tutto nei suoi possedimenti – scrive Ambrogio – non vuole che sia un altro a possedere”. Nella sua scompostezza Acab rivela il suo progetto: chiede a Nabot di cedere l’eredità dei suoi padri per farne: “un orto di verdure”.

Un episodio che, attualizzato, spinge Ambrogio ad una durissima requisitoria: “Avete maggior desiderio degli avanzi del povero che del vostro profitto”. Un desiderio che spinge Acab a disprezzare il suo stesso pane e sua moglie, Gezabele, ad orchestrare un complotto che trova facilmente volenterosi complici: accusare falsamente Nabot per farlo lapidare e rimuovere così ogni ostacolo alla presa di possesso di quel piccolo fazzoletto di terra. Il digiuno di Acab non è un digiuno buono, non è quello, quello che il Signore chiede all’uomo nel libro di Isaia, ma un terreno oscuro in cui invece del seme buono, germina la zizzania.

Le false accuse, come quelle contro Susanna, sono il frutto avvelenato di quel seme. Questa volta non c’è un Daniele che giunge a smontare le accuse. Nabot muore sotto i colpi delle pietre, ma soprattutto sotto i colpi della cupidigia di Acab, il quale dopo aver manifestato un ipocrita lutto, può finalmente prendere possesso della vigna.

Lo sforzo parenetico, ossia di esortazione e di avvertimento da parte Ambrogio sta nell’invito rivolto ai potenti del suo tempo a non essere come Acab, a tenersi alla larga da Gezabele, ossia dal volto dell’avarizia che apre le porte del cuore ai sentimenti più oscuri.

Ambrogio, invece, chiede misericordia per il povero e l’umile, a cui non solo non si puo’ negare, ma nemmeno procrastinare il dovuto. E non si tratta di elemosina, sostiene Ambrogio, si tratta di giustizia: “Non regali nulla – scrive – restituisci il dovuto” e poi citando Siracide intima: “Rivolgi la tua anima al povero, restituisci il tuo debito e ricambia opere di pace con benevolenza”.

In questo modo si può seguire l’insegnamento di Ambrogio che è quello di essere poveri per il mondo per poter essere ricchi per Dio. Si tratta di una chiamata, oggi più che mai universale e sempre attuale poiché come rifletteva Ambrogio ieri, ma anche per l’oggi “Non nacque un solo Acab, ma, quel che è peggio, ogni giorno Acab nasce e in questo mondo giammai muore. Non solo Nabot fu ucciso. Ogni giorno Nabot è umiliato. Ogni giorno è calpestato”.

Osservatore Domenicano. Autore fr. Giovanni Ruotolo -  21 dicembre 2016 

martedì 24 luglio 2018

Avvenire: Spiritualità. Inquietudine, il sale della fede

Roberto Righetto sabato 21 luglio 2018

Arriva in Italia il saggio della teologa protestante Marion Muller-Colard che, richiamandosi a Ellul, contrasta la tendenza ad “accomodare” lo scandalo del Vangelo

In un intervento del 2014, a proposito del dialogo fra credenti e non credenti, Zygmunt Bauman disse fra l’altro, ricollegandosi alle precedenti parole di papa Francesco ad Assisi: «Un dialogo degno del nome richiede la disponibilità a dialogare con gli avversari; a dialogare non solo con chi è d’accordo con noi e dello stesso avviso su ciò che ci sta a cuore, ma con chi ha idee che ci ripugnano. Non è a queste forme molto comuni di finto dialogo che Francesco guarda». Proprio il Papa ad Assisi aveva invitato a «uscire dal recinto e attraversare la piazza, smetterla di pensare alla distinzione tra noi e gli altri, restando a sedere ai piedi del campanile e lasciando che il mondo vada per la sua strada». Molti hanno storto il naso, e sono comunque rimasti sorpresi, dinanzi al confronto aperto da Bergoglio con personalità del mondo laico che si considerano esplicitamente estranee a una dimensione religiosa. In questo senso Francesco si è mostrato spiazzante ma del tutto in linea col Concilio, prendendo sul serio l’appello circa «il rispetto e l’amore per gli avversari». Persino un mistico come don Divo Barsotti scrisse nel suo diario nel 1973: «Qualche volta è più corroborante per la vita spirituale leggere l’opera di un ateo intelligente che un libro di teologia cristiana. La lettura continua ed esclusiva di libri spirituali può sostituire tutto un mondo di pura immaginazione alla realtà. La parola di un ateo è più potentemente un richiamo all’atto di fede. Le argomentazioni dell’ateo richiamano alla fede più della sicurezza tranquilla del teologo, che sa dirti tutto, su tutto ha da dirti qualcosa». Le frasi di Francesco e di Bauman, che negli ultimi tempi si era stancato di essere considerato solo come il teorico della “società liquida” e ricordava come la nostra società oggi sia più che mai “solida”, cioè tendente ad escludere sempre di più i poveri e gli emarginati, segnano un passo in avanti nel dialogo fra credenti e non, e richiedono uno scatto da parte di una cultura cattolica come quella italiana sempre più ingessata e incapace di profondità. L’aiuto migliore può venirci probabilmente da figure estroverse, che se ne stanno in disparte, che vivono da eremiti. In passato ce l’hanno dimostrato scrittori come Erri De Luca, per venire più vicini a noi Paolo Cognetti, con i loro libri fatti spesso di aforismi, di pagine a margine, di lampi di narrativa che oltre che umana si fa spirituale proprio in forza di un senso di solitudine contrassegnato dalla vita in campagna o in montagna. O un’eremita di città come Antonella Lumini, capace di richiamarci al valore del digiuno e del silenzio. Non come via eccentrica, si badi bene, o come fuga dal mondo, ma proprio per distinguere con un’impronta di radicalità ogni possibile impegno per cambiare la società. Ed è certamente dalla letteratura francese che ci giunge un’aria nuova. Ne avevamo avuto un esempio con Christian Bobin e Alexandre Jollien, entrambi fatti conoscere da noi soprattutto grazie all’editrice Qiqajon, fautori nelle loro opere del primato dell’interiorità, della necessità di una trasformazione umana prima che politica. «Sarebbe l’ora – ha detto Bobin in una recente intervista sulla Croix – di rimettere al centro vitale della nostra società coloro che servono, coloro che rammendano senza fine il tessuto dell’esistenza, coloro che non vivono in base ai budget e alle slide». Senza essere tecnofobi o conservatori, Bobin e Jollien vogliono senza presunzione insegnarci Il mestiere di uomo e tessono l’Elogio della debolezza, come si intitolano due libri dello scrittore-filosofo svizzero che porta i segni dell’handicap. Entrambi non credenti, scrivono libri marcati di vera spiritualità. È il caso pure di Marion Muller-Colard, teologa protestante e agnostica (così ama definirsi), il cui volume L’inquietudine è stato premiato quale miglior libro di spiritualità nel 2017. Ora è pubblicato in Italia dalle edizioni San Paolo (pagine 110, euro 12,00). Ed è un vero inno contro l’ipocrisia di tanti che vivono il cristianesimo come «un alibi, un rianzitutto fugio identitario, un biglietto da visita per il vasto mondo della morale». Come Kierkegaard, questa quarantenne che vive da eremita col marito e i suoi due bambini in una baita sui Vosgi ha in odio la tendenza accomodante a sopprimere lo scandalo del cristianesimo e, nel suo elogio dell’inquietudine, si richiama al pensatore Jacques Ellul, che definiva il Vangelo «sovversivo in ogni direzione». In una società ossessionata dal benessere e da quelli che lei stessa chiama i suoi indicatori, la scrittrice si inerpica con le sue frasi provocanti lungo i sentieri del Vangelo, «una strada d’inquietudine» che non lascia mai l’uomo tranquillo e con la coscienza a posto. Gesù in primo luogo attraversa l’inquietudine e la vive intensamente fino alla fine. Quel Gesù che «cammina e incontra», che si preserva dall’immobilismo, che pone domande che spesso urtano l’interlocutore: «Non si esce mai indenni – dice Marion – dalla prova dell’alterità». Poi si spazia fra varie citazioni, da Céline a Pessoa, da Carrère a Bernanos, un cui brano dal Diario di curato di campagna si pone come suggello di questo libro sull’inquietudine perché suggerisce una via al cristianesimo, quella del paradosso e non della convenienza: «Il buon Dio non ha scritto che dobbiamo essere il miele della terra, ragazzo mio, ma il sale. Ora, il nostro povero mondo somiglia al vecchio padre Giobbe, pieno di piaghe e ulcere, sul suo letamaio. Il sale, sulla carne viva, brucia. Ma le impedisce, anche, di putrefarsi».

Avvenire: Stati Uniti. La teologia della prosperità porta a un «Vangelo diverso»

Antonio Spadaro S.I. e Marcelo Figueroa giovedì 19 luglio 2018

Il testo che segue è un estratto in anteprima di un articolo sulla «Teologia della prosperità» che sarà pubblicato nel prossimo numero di «La Civiltà Cattolica». Esce a distanza di un anno da un altro intervento degli stessi autori – il direttore della rivista, padre Antonio Spadaro, e Marcelo Figueroa, direttore dell’edizione argentina dell’«Osservatore Romano» – dedicato ai legami politici del fondamentalismo (qui il link: tinyurl.com/y9wxp9y7).



«Teologia della prosperità»: questo è il nome più conosciuto e descrittivo di una corrente teologica neo-pentecostale evangelica. Il nucleo di questa «teologia» è la convinzione che Dio vuole che i suoi fedeli abbiano una vita prospera, e cioè che siano ricchi dal punto di vista economico, sani da quello fisico e individualmente felici. Questo tipo di cristianesimo colloca il benessere del credente al centro della preghiera, e fa del suo Creatore colui che realizza i suoi pensieri e i suoi desideri. Il rischio di questa forma di antropocentrismo religioso, che mette al centro l’uomo e il suo benessere, è quello di trasformare Dio in un potere al nostro servizio, la Chiesa in un supermercato della fede, e la religione in un fenomeno utilitaristico ed eminentemente sensazionalistico e pragmatico. Questa immagine di prosperità e benessere, come vedremo più avanti, fa riferimento al cosiddetto American dream, al «sogno americano». Non si identifica con esso, ma con una sua interpretazione riduttiva. In sé questo «sogno» è la visione di una terra e di una società intese come un luogo di opportunità aperte. Storicamente, attraverso diversi secoli, è stata la motivazione che ha spinto molti migranti economici a lasciare la propria terra e a raggiungere gli Stati Uniti per rivendicare un posto in cui il loro lavoro avrebbe prodotto risultati irraggiungibili nel loro «vecchio mondo».

La «teologia della prosperità» prende spunto da questa visione, ma la traduce meccanicamente in termini religiosi, come se l’opulenza e il benessere fossero il vero segno della predilezione divina da «conquistare» magicamente con la fede. Questa «teologia» è stata diffusa - grazie anche a gigantesche campagne mediatiche in tutto il mondo per decenni da movimenti e ministri evangelici, specialmente neo-carismatici. [...]. Se cerchiamo le origini di queste correnti teologiche, le troviamo negli Stati Uniti, dove la maggioranza dei ricercatori della fenomenologia religiosa americana le fanno risalire al pastore newyorchese Esek William Kenyon (1867-1948). Egli sosteneva che attraverso il potere della fede si possono modificare le concrete realtà materiali. Ma la diretta conclusione di questa convinzione è che la fede può condurre alla ricchezza, alla salute e al benessere, mentre la mancanza di fede porta alla povertà, alla malattia e all’infelicità. [...]. Queste dottrine si sono correlate e nutrite in misura consistente anche del positive thinking, il «pensiero positivo», espressione dell’American way of life («modo americano di vivere»). Esse si collegano in questo senso alla «posizione eccezionale» che Alexis de Tocqueville nel suo celebre La democrazia in America (1831) attribuiva agli americani, a tal punto che si possa «ritenere che nessun popolo democratico verrà mai a trovarsi in una posizione simile» alla loro. Tocqueville arriva ad affermare che tale way of life plasma anche la religione degli americani.

A volte sono le stesse autorità americane a certificare questo legame. Nel suo recente discorso sullo stato dell’Unione, del 30 gennaio 2018, il presidente Donald Trump, per descrivere l’identità del Paese, ha affermato: «Insieme, stiamo riscoprendo il 'modo americano di vivere'». E ha proseguito: «In America, sappiamo che la fede e la famiglia, non il governo e la burocrazia, sono il centro della vita americana. Il motto è: 'Confidiamo in Dio' ( In God we trust). E celebriamo le nostre convinzioni, la nostra polizia, i nostri militari e veterani come eroi che meritano il nostro sostegno totale e costante». Nel giro di alcune frasi appaiono dunque Dio, l’esercito e il sogno americano. Ricordiamo pure che la cerimonia d’inaugurazione del mandato presidenziale di Donald Trump includeva preghiere di predicatori del «vangelo della prosperita?» quali Paula White, uno dei suoi consiglieri spirituali. Nell’ottobre 2015 la White ha organizzato, nella Trump Tower, un incontro di telepredicatori legati alla «teologia della prosperità?», che hanno pregato per l’attuale Presidente, imponendo le mani su di lui.

I pilastri del «vangelo della prosperità», come già abbiamo anticipato, sono sostanzialmente due: il benessere economico e la salute. Questa accentuazione è frutto di un’esegesi letteralista di alcuni testi biblici che sono utilizzati all’interno di un’ermeneutica riduzionista. Lo Spirito Santo viene limitato a un potere posto al servizio del benessere individuale. Gesù Cristo ha abbandonato il suo ruolo di Signore per trasformarsi in un debitore di ciascuna delle sue parole. Il Padre è ridotto «a una specie di fattorino cosmico (cosmic bellhop) che si occupa dei bisogni e dei desideri delle sue creature». [...]. Ovviamente, eventi luttuosi o disastri, anche naturali, o tragedie, come quelle dei migranti o altre simili, non forniscono narrative vincenti funzionali a mantenere i fedeli legati al pensiero del «vangelo della prosperità». Questo è il motivo per cui in questi casi si nota una totale mancanza di empatia e di solidarietà da parte degli aderenti. Non c’è compassione per le persone che non sono prospere, perché chiaramente esse non hanno seguito le «regole», e quindi vivono nel fallimento e non sono amate, dunque, da Dio. [...]. In alcune società in cui la meritocrazia è stata fatta coincidere con il livello socio-economico senza che si tenga conto delle enormi differenze di opportunità, questo «vangelo», che mette l’accento sulla fede come «merito» per ascendere nella scala sociale, risulta ingiusto e radicalmente antievangelico.

Questa teologia è chiaramente funzionale ai concetti filosofico-politico-economici di un modello di taglio neoliberista. Una delle conclusioni di alcuni esponenti di questa teologia è di natura geo-politica ed economica, legata al Paese di origine della «teologia della prosperità». Essa conduce alla conclusione che gli Stati Uniti sono cresciuti sotto la benedizione del Dio provvidente del movimento evangelico. Invece, gli abitanti del territorio che va dal Rio Grande verso Sud sono sprofondati nella povertà proprio perché la Chiesa cattolica ha una visione differente, opposta, «esaltando» la povertà. È pure possibile verificare il legame tra queste posizioni e le tentazioni integraliste e fondamentaliste dalle connotazioni politiche. In verità, uno dei gravi problemi che porta con sé la «teologia della prosperità» è il suo effetto perverso sulla gente povera. Infatti, essa non solo esaspera l’individualismo e abbatte il senso di solidarietà, ma spinge le persone ad avere un atteggiamento miracolistico, per cui solamente la fede può procurare la prosperità, e non l’impegno sociale e politico. Quindi il rischio è che i poveri che restano affascinati da questo pseudo vangelo rimangano imbrigliati in un vuoto politico-sociale che consente con facilità ad altre forze di plasmare il loro mondo, rendendoli innocui e senza difese. Il «vangelo della prosperità» non è mai fattore di reale cambiamento, che invece è fondamentale nella visione che è propria della dottrina sociale della Chiesa. [...].

Sin dall’inizio del suo pontificato Francesco ha avuto presente il «vangelo diverso» della «teologia della prosperità» e, criticandolo, ha applicato la classica dottrina sociale della Chiesa. Più volte lo ha richiamato per porne in evidenza i pericoli. La prima volta è avvenuto in Brasile, il 28 luglio 2013. Rivolgendosi ai vescovi del Consiglio Episcopale Latinoamericano, aveva puntato il dito contro il «funzionalismo ecclesiale», che realizza «una sorta di 'teologia della prosperità' nell’aspetto organizzativo della pastorale». Essa finisce per entusiasmarsi per l’efficacia, il successo, il risultato constatabile e le statistiche favorevoli. La Chiesa così tende ad assumere «modalità imprenditoriali» che sono aberranti e allontanano dal mistero della fede. Parlando di nuovo a vescovi, questa volta della Corea, nell’agosto 2014, Francesco ha citato Paolo (1 Cor 11,17) e Giacomo (2,1-7), che rimproverano le Chiese che vivono in modo tale che i poveri non si sentano a casa loro. «Questa è una tentazione della prosperità», ha commentato. [...] I riferimenti alla «teologia della prosperità» sono riconoscibili anche nelle omelie di Francesco a Santa Marta. [...]. Il «vangelo della prosperità» è molto lontano dall’invito di san Paolo che leggiamo nel brano di 2 Cor 8,9-15: «Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (v. 9). Ed è pure molto lontano dalla profezia positiva e luminosa dell’American dream che è stata di ispirazione per molti. La «teologia della prosperità» è lontana dunque dal «sogno missionario» dei pionieri americani, e ancor più dal messaggio di predicatori come Martin Luther King e dal contenuto sociale, inclusivo e rivoluzionario del suo memorabile discorso «Io ho un sogno». 


giovedì 19 luglio 2018

Avvenire: Il forte magistero ordinario del Papa. Ciò che fa viva la Chiesa

Ci sono parole papali che possono risultare urticanti. Come queste, pronunciate nell’Angelus di domenica scorsa, che mettono il dito su un aspetto non certo secondario, la missione della Chiesa e le sue modalità concrete: «Non manager onnipotenti, non funzionari inamovibili, non divi in tournée», non agiscono così gli autentici «messaggeri del Regno di Dio» che altro non possono avere se non un «bastone e dei sandali», «né pane, né sacca, né denaro nella cintura» perché «il Maestro li vuole liberi e leggeri, senza appoggi e senza favori». Perché questo è secondo il Vangelo lo stile dell’autentica vocazione missionaria, caratterizzata dalla povertà dei mezzi.

Papa Francesco ha poi anche descritto i connotati elementari della dinamica propria e imparagonabile dell’annuncio cristiano e del dinamismo missionario: cioè che la missione di annunciare il Vangelo, affidata agli apostoli da Cristo, è in realtà il semplice «riproporsi della presenza e dell’opera di Gesù nella loro azione missionaria». Il che vuol dire che il metodo è sempre lo stesso: guardare al Vangelo e a quello che Cristo ha detto e fatto nel Vangelo e sottolineare ancora che la Chiesa non è padrona della missione. Non è la prima volta che, dall’Evangelii gaudium in qua, il Papa ripete quale sia la sorgente della natura missionaria. Perché si tratta di un punto vitale. «Il primo modo di morire è quello di dare per scontate le sorgenti, cioè Chi muove la missione» ha infatti ribadito più di una volta. Se queste sorgenti vengono messe in ombra, di fatto è Gesù Cristo stesso a essere tagliato fuori dall’opera missionaria, che è opera Sua, perché solo Lui può toccare i cuori delle persone. E si alimenta invece la gòra di una missionarietà "funzionalista", quella che viene da una Chiesa auto-sufficiente, che si fonda su se stessa, sui suoi mezzi, i suoi piani, le sue strategie e che al mondo racconta se stessa, le sue imprese, finendo per assomigliare alle pur importanti organizzazioni di aiuto umanitario, per le quali può bastare un brand originale per distinguersi dalle altre nell’immenso mondo del soccorso della sofferenza e nel fiorire di companies che fanno pubblicità a se stesse.

In più occasioni in questi ultimi mesi Francesco è allora tornato a dire con chiarezza nelle sue omelie a Santa Marta alcuni aspetti della evangelizzazione. Evangelizzare non significa mettere in atto «piani pastorali ben fatti, perfetti» incapaci però di far arrivare un annuncio: Gesù non manda gente con «un atteggiamento imprenditoriale». «L’evangelizzazione non è una testardaggine umana», «è lo Spirito Santo» il «vero protagonista» della missione che chiama ogni cristiano. Infine, quanto «è brutto» vedere evangelizzatori che, a motivo del loro impegno, pensano di «aver fatto carriera», nella Chiesa o nella società, e hanno «la presunzione di voler essere serviti»…

Con le Pontificie Opere Missionarie, il Papa è stato poi anche più esplicito: «Noi non abbiamo un prodotto da vendere – non c’entra qui il proselitismo, non abbiamo un prodotto da vendere –, ma una vita da comunicare: Dio, la sua vita divina, il suo amore misericordioso, la sua santità! Ed è lo Spirito Santo che ci invia, ci accompagna, ci ispira: è Lui l’autore della missione. È Lui che porta avanti la Chiesa, non noi. Lascio a Lui – possiamo domandarci – lascio a Lui di essere il protagonista? O voglio addomesticarlo, ingabbiarlo, nelle tante strutture mondane ma con la benedizione di Dio? Lascio che sia Lui o lo ingabbio?».
Tutto questo a riprova di qual è per il Papa il pericolo di una vera confusione nella Chiesa. E a riprova del fatto che gli accenni riformatori più fecondi e spiazzanti, Francesco li semina nelle pieghe della sua predicazione ordinaria, che è quella delle omelie delle Messe a Santa Marta, degli Angelus domenicali, delle udienze.

Accenni tuttavia spesso ignorati non solo dai grandi circuiti mediatici, occupati a incasellare i suoi gesti nelle agende liberal o conservative, ma anche da quegli apparati ecclesiali avvezzi a trasformare i suggerimenti papali in nuovi conformismi e a coltivare forme di protagonismo ecclesiale.Ma se Dio fa crescere il Regno attraverso chi non conta, perché nessuno possa vantarsi dicendo che la crescita del Regno è opera sua, tutto questo non può rimanere solo come un armamentario di spiritualismi da mettere in apertura a qualche conferenza. Occorre che il dinamismo di grazia con cui cresce il Regno di Dio giudichi anche i criteri concreti e operativi di tutte le attività pratiche legate alla missione. «Altrimenti una Chiesa che si riduca all’efficientismo degli apparati è già morta, anche se le strutture e i programmi a favore dei chierici e dei laici dovessero durare ancora per secoli».

Stefania Falasca
mercoledì 18 luglio 2018

mercoledì 18 luglio 2018

Enzo Bianchi: Condividere l’essenziale per vivere

Jesus - Bisaccia del mendicante - Luglio 2018
di ENZO BIANCHI

Non passa giorno in cui non si sentano rimbalzare da un lato all’altro del globo e del nostro paese parole usate come pietre contro lo straniero, il diverso, l’altro, soprattutto quando questo coincide con il povero, l’ultimo, l’indifeso. Parole che contraddicono un sentimento e un principio umano antichi quanto il loro opposto “homo homini lupus”: la solidarietà, la condivisione. Sì, perché fin dalla primitiva concorrenziale caccia al cibo per la sopravvivenza, l’essere umano ha avuto davanti a sé una scelta fondamentale: vivere contro gli altri oppure vivere con gli altri, con-vivere e, quindi, condividere l’essenziale per vivere.

Per la fede ebraica e cristiana, è Dio la presenza che non solo chiede questa condivisione nell’equità, ma la impone, “ricolmando di beni gli affamati e rimandando i ricchi a mani vuote” (cf. Lc 1,53), mentre oggi si finge di credere che la mano invisibile del mercato possa rivelarsi come l’artefice assoluto del benessere del pianeta: idolatria, avrebbero gridato i profeti e i padri della chiesa! Abbiamo perduto il senso della grande e decisiva nozione cristiana del bene comune e, con esso, ogni urgenza di giustizia e di equità. La terra è di Dio e su di essa noi siamo solo ospiti e pellegrini (cf. Lv 25,23); la terra è stata affidata a tutta l’umanità perché fosse lavorata, custodita e potesse dare le risorse necessarie per la vita di tutti gli abitanti del pianeta, umani e animali. Il cibo, il pane, secondo la metafora che lo rappresenta, è di tutti e per tutti. Giovanni Crisostomo ammoniva: “Il ‘mio’ e il ‘tuo’, queste fredde parole, introdussero nel mondo infinite guerre … Un tempo i poveri non invidiavano i ricchi perché non c’erano poveri, essendo tutte le cose comuni”. Ecco da dove sorgono contrasti, inimicizie, violenze che, presto o tardi, da verbali diventano fisiche…

È urgente riscoprire la communitas la quale, sola, può aiutare i tentativi di equa redistribuzione delle ricchezze del pianeta; è urgente ritrovare l’idea di bene comune, per la felicità della convivenza; è urgente esercitarsi alla “con-vivialità”, alla condivisione del cibo per ritrovare i legami sociali, la possibilità di instaurare una fiducia reciproca che si traduce in responsabilità l’uno verso l’altro.

Il cibo – simbolo concretissimo dell’essenziale per vivere – è tale quando è condiviso, altrimenti è veleno per chi se lo accaparra e morte per chi non ce l’ha. Nel mondo e anche nel nostro paese, i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi, mentre i poveri sono sempre più poveri e più numerosi, incitati alla guerra tra di loro perché non si rivoltino contro le ingiustizie che patiscono. In virtù di questa perversa situazione, molti sono esclusi dalla società in cui vivono e diventano ben più che sfruttati: diventano avanzi, scarti, rifiuti… Condividere il cibo dovrebbe essere condizione essenziale per poterlo assumere con sapienza e per renderlo causa di festa, trasformandolo da cibo quotidiano in banchetto. Nel Padre nostro non sta scritto: “Dammi oggi il mio pane quotidiano” – suonerebbe come una bestemmia! – ma “Dacci, da’ a tutti noi il pane di ogni giorno (cf. Mt 6,11; Lc 11,3), e così ti potremo chiamare ‘Padre nostro’ e non ‘Padre mio’”! Se il pane, bisogno comune, pane per tutti, non è condiviso, allora “le pain se lève”, “il pane insorge, si alza in rivolta”. Questo è il grido delle rivoluzioni per la mancanza di pane e la fame dei poveri: lo era nel medioevo ma lo è ancora ai giorni nostri.

Vigiliamo dunque e, soprattutto, decidiamoci a una conversione, a un mutamento dei nostri comportamenti verso il cibo: dobbiamo combattere gli sprechi, sentire come un furto il buttare via il cibo, assumere uno stile di sobrietà, fare le battaglie politiche ed economiche necessarie affinché il cibo sia sempre condiviso. Il Vangelo ci ricorda che, assieme all’accoglienza dello straniero, è sulla condivisione del cibo che saremo giudicati degni di vivere oppure maledetti, consegnati alla morte: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare … ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare” (Mt 25,35.42). Richiamarsi al Vangelo, allora, per un cristiano non è e non può essere mai chiamata a raccolta per difendere un’identità, bensì chiamata a un cammino di umanizzazione che comincia dal riconoscere la dignità umana dell’altro: “Dov’è tuo fratello?”.

sabato 14 luglio 2018

Arturo Paoli: “Tutto quello che sono lo devo ai poveri”

Se ne è andato in silenzio a 102 anni, nella notte di domenica 12 luglio, fratel Arturo Paoli. Una vita
intensa e per molti versi avventurosa. In un'intervista del 2000 (aveva 88 anni) si intravedeva il nucleo di quella Chiesa in uscita che è diventato il centro della predicazione di Papa Francesco

Una lunga e saggia vita interamente dedicata ai poveri e alla giustizia. Una lunga storia per ciò che saputo trasmettere intorno a lui in termini di spiritualità, impegno sociale e culturale. Un grande profeta e maestro per molti, testimone di un Vangelo vissuto come prassi di liberazione. Se ne è andato in silenzio a 102 anni, la notte scorsa, fratel Arturo Paoli. Viveva in Toscana, a San Martino di Vignale, una piccola frazione in provincia di Lucca. La salma sarà esposta oggi e domani nella chiesa di San Martino, il 15 luglio nella sua parrocchia di provenienza s. Michele in Foro, a Lucca. I funerali saranno celebrati lo stesso giorno in cattedrale alle 18. “Giustizia” e “amore per i poveri” erano le parole che ricorrevano più frequentemente nel parlare pacato e sereno di fratel Arturo Paoli. Lo incontrai per una lunga intervista nella sede dell’associazione “Ore undici”, dove si appoggiava nelle sue trasferte romane. Era il Grande Giubileo del 2000, fratel Arturo aveva già 88 anni ma esigeva dagli interlocutori il “tu” e creava subito un clima da “vecchi amici”. Trasmetteva con il suo sguardo limpido e buono un misticismo che riusciva a trasformarsi in azione di cambiamento della realtà, supportato da profonde conoscenze e da un intelletto sempre vivo.



Una lunga e intensa vita

Nato a Lucca il 30 novembre 1912, Arturo Paoli divenne prete diocesano nel 1940 e durante la guerra, a rischio della propria vita insieme ad altri sacerdoti, operò per salvare tanti perseguitati, in particolare ebrei. Questo gli valse in seguito il riconoscimento di “Giusto tra le nazioni”. Nel 1954 entrò nei Piccoli Fratelli del Vangelo, l’ordine fondato da Charles de Foucauld. Con loro fece una delle esperienze che più segnarono personalmente, un noviziato nel deserto di Algeria. In Argentina arrivò su un transatlantico nel 1960 e a Fortín Olmos, con i boscaioli, incontrò la povertà, le disuguaglianze sociali e le privazioni umane, che diventarono i temi della sua predicazione. Finì nell’elenco dei condannati a morte dal regime e fu costretto ad andare in Venezuela. Visse lunghissimi anni in Brasile, vicino alla meravigliose cascate di Foz do Igauçu, occupandosi sempre dei più poveri. Importantissima anche la sua passione per lo studio e la scrittura, con tantissimi libri e incontri pubblici che hanno formato intere generazioni. Nel 2006 fece ritorno a Lucca, presso la chiesa di san Martino in Vignale, dove proseguì, con mente lucida e parole sempre chiare, dirette e vere, la sua testimonianza.



“Dove non entra il povero Dio non entra”

Lo ribadì più volte durante l’intervista: “Non bisogna fare elemosina ai poveri ma fare in modo che formino la nostra identità. Loro me l’hanno formata. Io non vivo come loro, vivo umilmente ma mangio due volte al giorno, mi vesto, viaggio, ma la mia identità è in mano loro. Lì ho trovato veramente Dio”. È strano rileggere oggi quelle pagine, pensando alla Chiesa in uscita di Papa Francesco, che era proprio la Chiesa che Arturo Paoli sognava. “Quando la Chiesa istituzione non lancia ponti ma si ritira - diceva -, la sola possibilità che rimane è il dissenso. Perdendo in questo modo la possibilità di una critica costruttiva, di un contributo di pensiero che potrebbe dare il mondo laico”. Fratel Arturo era infatti molto critico contro scelte “strettamente spiritualiste fatte a misura della classe borghese, la classe ricca, statica, quella che non si vuol muovere, quella che in fondo sente che la Chiesa deve essere al suo servizio, che anche Dio deve essere al suo servizio”. Invocava invece una Chiesa in grado di essere “capita dagli intellettuali e dal popolo”: “L’intellettuale non aspetta una spiegazione razionale ma la visione di una fede che abbia una efficacia storica sulla trasformazione del mondo - spiegava -. Il popolo aspetta la giustizia, la difesa dei suoi diritti, la solidarietà”. Sembra o non sembra una profezia che si è realizzata con il Papa latinoamericano?



“Tutto quello che sono lo devo ai poveri”

Quando descriveva la sua esperienza di fede più intima e il suo impegno con i poveri traspariva la forza della sua relazione con Dio. “Durante l’esperienza della vita di fede - raccontava - ci viene tolta sempre più gradualmente la nostra iniziativa: nella relazione con Dio noi siamo totalmente passivi”: “Tutto ciò che ti aiutava ad avere una relazione con Lui non ha più senso, perché Lui ti occupa completamente”. “L’ascolto è nel deserto - diceva -, non si ha più bisogno di ricorrere a santi, letture, parole o a un libro o alla spiritualità. L’ascolto ti blocca lì dove sei e ascolti senza sapere veramente cosa. Ma senti che ascolti. Ti apri. Se dovessi dire quali sono le parole della mia preghiera sarebbero: ‘Vieni’ ed ‘eccomi’”. Una preghiera che si è trasformata in azione, perché “siccome Dio abita tra i poveri”, diceva, “forse mi ha scoperto tra i poveri perché lì sono andato con amore umano”: “Tutto quello che ho e che sono lo devo a loro”.

venerdì 13 luglio 2018

Papa Francesco: La Santa Messa - 7. Il canto del "Gloria" e l'orazione colletta

10 gennaio 2018

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel percorso di catechesi sulla celebrazione eucaristica, abbiamo visto che l’Atto penitenziale ci aiuta a spogliarci delle nostre presunzioni e a presentarci a Dio come siamo realmente, coscienti di essere peccatori, nella speranza di essere perdonati.

Proprio dall’incontro tra la miseria umana e la misericordia divina prende vita la gratitudine espressa nel “Gloria”, «un inno antichissimo e venerabile con il quale la Chiesa, radunata nello Spirito Santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 53).

L’esordio di questo inno – “Gloria a Dio nell’alto dei cieli” – riprende il canto degli Angeli alla nascita di Gesù a Betlemme, gioioso annuncio dell’abbraccio tra cielo e terra. Questo canto coinvolge anche noi raccolti in preghiera: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà».

Dopo il “Gloria”, oppure, quando questo non c’è, subito dopo l’Atto penitenziale, la preghiera prende forma particolare nell’orazione denominata “colletta”, per mezzo della quale viene espresso il carattere proprio della celebrazione, variabile secondo i giorni e i tempi dell’anno (cfr ibid., 54). Con l’invito «preghiamo», il sacerdote esorta il popolo a raccogliersi con lui in un momento di silenzio, al fine di prendere coscienza di stare alla presenza di Dio e far emergere, ciascuno nel proprio cuore, le personali intenzioni con cui partecipa alla Messa (cfr ibid., 54). Il sacerdote dice «preghiamo»; e poi, viene un momento di silenzio, e ognuno pensa alle cose di cui ha bisogno, che vuol chiedere, nella preghiera.

Il silenzio non si riduce all’assenza di parole, bensì nel disporsi ad ascoltare altre voci: quella del nostro cuore e, soprattutto, la voce dello Spirito Santo. Nella liturgia, la natura del sacro silenzio dipende dal momento in cui ha luogo: «Durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica» (ibid., 45). Dunque, prima dell’orazione iniziale, il silenzio aiuta a raccoglierci in noi stessi e a pensare al perché siamo lì. Ecco allora l’importanza di ascoltare il nostro animo per aprirlo poi al Signore. Forse veniamo da giorni di fatica, di gioia, di dolore, e vogliamo dirlo al Signore, invocare il suo aiuto, chiedere che ci stia vicino; abbiamo familiari e amici malati o che attraversano prove difficili; desideriamo affidare a Dio le sorti della Chiesa e del mondo. E a questo serve il breve silenzio prima che il sacerdote, raccogliendo le intenzioni di ognuno, esprima a voce alta a Dio, a nome di tutti, la comune preghiera che conclude i riti d’introduzione, facendo appunto la “colletta” delle singole intenzioni. Raccomando vivamente ai sacerdoti di osservare questo momento di silenzio e non andare di fretta: «preghiamo», e che si faccia il silenzio. Raccomando questo ai sacerdoti. Senza questo silenzio, rischiamo di trascurare il raccoglimento dell’anima.

Il sacerdote recita questa supplica, questa orazione di colletta, con le braccia allargate è l’atteggiamento dell’orante, assunto dai cristiani fin dai primi secoli – come testimoniano gli affreschi delle catacombe romane – per imitare il Cristo con le braccia aperte sul legno della croce. E lì, Cristo è l’Orante ed è insieme la preghiera! Nel Crocifisso riconosciamo il Sacerdote che offre a Dio il culto a lui gradito, ossia l’obbedienza filiale.

Nel Rito Romano le orazioni sono concise ma ricche di significato: si possono fare tante belle meditazioni su queste orazioni. Tanto belle! Tornare a meditarne i testi, anche fuori della Messa, può aiutarci ad apprendere come rivolgerci a Dio, cosa chiedere, quali parole usare. Possa la liturgia diventare per tutti noi una vera scuola di preghiera.

mercoledì 11 luglio 2018

Avvenire. Bassetti: l'ospite non è un pericolo, ma Cristo che bussa


Il cardinale presidente della Cei nell'omelia all'Abbazia di San Miniato al monte, ha ricordato la figura di San Benedetto: l'Europa ha ancora bisogno dei valori cristiani
Il cardinale Bassetti in una foto dell'archivio Siciliani
Il cardinale Bassetti in una foto dell'archivio Siciliani

“Sappiamo quanto san Benedetto insistesse perché i monasteri fossero aperti agli ospiti, e addirittura nella Regola esiste un intero paragrafo dedicato a loro”. Lo ha detto stamani il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, nell’omelia della messa che ha celebrato a Firenze, nell’Abbazia di San Miniato al Monte, in occasione dei mille anni dalla fondazione. Il cardinale ha ricordato un tratto della biografia del santo di cui ricorre oggi la solennità: “Il bene compiuto verso il prossimo, in particolare nella forma dell’accoglienza”.

“Di ospitalità c’era particolarmente bisogno nel tempo in cui il monachesimo occidentale compiva i suoi passi durante il tempo delle cosiddette ‘invasioni barbariche’”, ha aggiunto il porporato. L’arcivescovo ha sottolineato poi come “l’ospite non era però visto come un pericolo, ma come Cristo stesso che bussava alla porta”.

Infine, il presidente della Cei ha ricordato un editoriale del card. Gianfranco Ravasi su Avvenire. “Nel 2011 scriveva che ‘la civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo per eccellenza, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis), è divenuto ospite (hospes). Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo’. (LEGGI QUI) Queste parole valgono ancora, e forse soprattutto, oggi”.

“L’Europa – di cui il san Benedetto è patrono – ha ancora bisogno dei valori cristiani, gli unici capaci di governare davvero i popoli verso la pace e il bene”, ha aggiunto Bassetti.

Dalle letture del giorno il cardinale ha segnalato come “l’uomo saggio, che cerca la sapienza, sa che potrà conseguirla solo custodendo i precetti del Signore”. E ha messo in guardia “da una intelligenza semplicemente fine a se stessa”. “Dalla sapienza secondo Dio, infatti, vengono equità e giustizia”, ha aggiunto.

Ripercorrendo la vita di san Benedetto, il cardinale Bassetti ha indicato in lui “le tracce di ogni vocazione: come san Pietro, chi sceglie il Signore deve lasciare molte cose. Ma ciò che viene lasciato è restituito con il centuplo”. È così che “il santo di Norcia, seguendo Cristo, trovò una nuova casa, una nuova famiglia, e soprattutto – lui che aveva anche abbandonato gli studi mondani – divenne per l’Italia e per tutta l’Europa, grazie alla fondazione dei monasteri e delle scuole monastiche, il centro propulsore della cultura cristiana”.

martedì 10 luglio 2018

Mons. B. Forte, Il Sole 24 ore: un bisogno nuovo di religione

C'è un nuovo bisogno di religione, oggi. La constatazione emerge da più parti: inchieste sociologiche, riflessioni filosofiche, analisi dei processi storici in atto. Finito il tempo delle ideologie intese come risposta totalizzante alla ricerca umana di giustizia per tutti, constatata la “caduta degli dèi”, di quegli idoli del potere, dell’avere e del piacere, che il consumismo e l’edonismo avevano esaltato come surrogato di un Dio dichiarato inutile.

Torna il bisogno di un orizzonte ultimo, assoluto, capace di unificare i frammenti del tempo e dell’opera umana in un disegno in grado di motivare la passione e l’impegno. È soprattutto a questo livello che la domanda religiosa riemerge potentemente: tutti abbiamo bisogno di dare un senso a ciò che siamo, a ciò che facciamo, e se si sommano i sensi possibili di tutte le scelte e le azioni vissute senza unificarli in un senso ultimo, la domanda resta inappagata.

Interrogarsi sul senso ultimo significa, però, porsi la domanda che è alla base della religione: «Qualunque cosa sia la religione - scrive Sergio Givone nel suo ultimo libro Quant'è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018) - di essa si deve dire che “è” e non solo che “è stata”. Al contrario, sono state le ideologie che ne avevano decretato la fine prossima, in particolare marxismo e neo-illuminismo, a mostrarsi del tutto inadeguate a comprendere il fenomeno religioso… È accaduto che proprio la scienza, in particolare la fisica, rilanciasse le grandi questioni della metafisica… e quando si sono cercate le parole per uscire dalle secche di un pensiero unico e omologante,
le si è chiesto in prestito alla religione» (pag. 16).

Tra le ragioni possibili per spiegare questo “ritorno del sacro” e, ancor più, la ricerca del Volto di un Dio personale, vorrei evidenziarne tre: la domanda sul dolore, il bisogno d’amore e l’interrogativo del futuro. La sofferenza è l’esperienza umana universale, da cui nasce l’urgenza di scorgere un orizzonte ultimo che sia meta e patria. Dio si offre al dolore come Volto che spezza la catena dell’eterno ritorno e restituisce dignità alla fatica di vivere, motivando il giudizio su quanto facciamo, l’apprezzamento del bene e il rifiuto del male. Anche l’agnostico che non si pronuncia sull’esistenza di Dio non può non valutare le proprie scelte fondamentali su valori che le rendano degne e giustifichino lo sforzo da esse esigito. Senza l’ipotesi Dio il male resta sfida senza risposta e la fatica di sostenerne il peso appare insopportabile e vana. Se è il dolore a porre la domanda su Dio, non di meno è l’amore l’esperienza vitale in cui il bisogno religioso si affaccia più forte. Unicamente amando acquista significato la fatica dei giorni: se quando ti alzi al mattino hai qualcuno da amare e per cui puoi offrire tutto ciò che ti aspetta, la tua giornata ha un senso che la rende meritevole di essere vissuta. Dove non c’è amore, il grigiore della noia viene a fasciare tutte le cose. Ora, nasce all’amore solo chi si sente amato: sin dal primo istante di chi viene all’esistenza il tu cercato è quello di un volto amoroso, materno-paterno, capace di accogliere, custodire, nutrire la vita. Siamo sin dall’origine mendicanti di amore e non ci realizzeremo se non sentendoci amati e imparando ad amare. La religione sa che Dio è la fonte di un amore mai stanco, in grado di fondare un sempre nuovo inizio, di illuminare ogni cosa, di farti sentire prezioso ai suoi occhi e perciò candidato all’eterno che vinca il dolore e la morte precisamente per la forza di un amore più grande.

Il messaggio del Nuovo Testamento ha saputo dirlo nella maniera più densa e concreta: «Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati... E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4, 8-10 e 16). Se hai incontrato questo amore, anche il futuro non ti apparirà più nel segno del nulla vorace che tutto aspetterebbe, ma come possibilità aperta proprio dall’amore e dal suo tendere all’eterna vittoria sulla morte. «Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3,13): chi ama, invece, riconosce valore alla vita e sa di poter trionfare sul nulla per vivere patti d’amore vittoriosi d’ogni fine, garantiti dal Dio che ama da sempre, per sempre. Si comprende, allora, come la causa dell’uomo sia inseparabile dalla causa di Dio: dare alla vita senso - e un senso vittorioso della morte - è la condizione per volersi ed essere pienamente umani.

Perciò la religione è più che mai attuale: lungi dal porsi come il concorrente dell’uomo, il Dio che è amore offre a ciascuno di noi questo senso, chiamandoci a una vita pienamente vissuta, spesa con amore e per amore, tale da anticipare nella ferialità dei giorni la bellezza della domenica che non avrà tramonto. Cercare il Suo Volto nella notte della fede è fonte di luce e di pace. Incontrarlo nella pienezza della visione sarà immergersi nell’amore vittorioso. Ce lo ricorda una frase di San Giovanni della Croce, il mistico della “noche oscura”, previa all’incontro con l’Amato, che attende e che perdona: «A la tarde de la vida te examinarán en el amor - Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore».

giovedì 5 luglio 2018

Luca Mazzinghi "In una società malata la missione di un Dio che guarisce"



Missione Oggi 
MAGGIO-GIUGNO 2018

Un ospedale da campo. Non di rado papa Francesco ha descritto la Chiesa con questa immagine. “Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità.
Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite... E bisogna cominciare dal basso”. Così si esprimeva Francesco nella lunga intervista rilasciata al direttore p. Antonio Spadaro de “La Civiltà Cattolica” (2013 III / 3918, pp. 461-462).

C’è una umanità malata da curare, con terapie forti. Il libro della Sapienza, che da tempo ci accompagna in queste riflessioni, ci offre qualche spunto interessante al riguardo. Il testo che qui presentiamo (Sap 16,5-14) costituisce una riflessione su un episodio narrato nel libro dei Numeri (Num 21,4-9).

TRA SERPENTI E STRUMENTI MAGICI

Si legge in questo passo come gli israeliti vengono puniti da Dio, durante il cammino nel deserto, con l’invio di serpenti velenosi. Ma vengono poi salvati quando Mosè viene invitato a costruire un serpente di bronzo: chi lo guarda, guarisce dal veleno dei serpenti. Ma ascoltiamo il nostro saggio:

5E persino quando si abbatté su di loro la terribile furia di bestie velenose, ed essi venivano annientati dai morsi di serpenti tortuosi, non durò sino alla fine la tua collera; 6come avvertimento per poco furono turbati, avendo un segno di salvezza, perché si ricordassero del comando della tua legge: infatti chi si volgeva ad esso non era salvato per mezzo di ciò che contemplava, ma da Te, salvatore di tutti.

Il libro della Sapienza non ci dice il motivo della punizione divina; ma dal libro dei Numeri sappiamo che l’invio dei serpenti velenosi è legato all’infedeltà e all’idolatria del popolo. In particolare, il popolo di Israele è tentato di ritornare in Egitto; meglio il cibo del faraone che la difficile libertà nel deserto. Meglio schiavi a pancia piena, che liberi a pancia vuota. Ma, dice il libro della Sapienza, la collera di Dio è alla fine limitata. Il serpente di bronzo (cui il testo allude con l’espressione “segno di salvezza”) non è più, tuttavia, lo strumento attraverso il quale Dio salva il suo popolo. Il v. 7 ci fa comprendere come la salvezza viene direttamente da Dio; il serpente è solo un segno.

Dio non cura le malattie del suo popolo con un oggetto che rischia di diventare solo un oggetto magico – il serpente di bronzo, appunto. Esso serve solo, lo ripetiamo, come “segno” dell’agire divino. È questo un messaggio ancora attuale per tante persone che si credono religiose perché mettono la loro fiducia in immagini, in oggetti sacri, in rituali esteriori, senza tener conto della presenza di Dio o pensando che l’agire di Dio sia legato a quel determinato oggetto.

ALLA SCOPERTA DELLA MISERICORDIA DI DIO

Secondo lo stile proprio della terza parte della Sapienza (Sap 10-19) il testo che stiamo leggendo riflette poi, per antitesi, su ciò che invece è accaduto agli egiziani: mentre gli israeliti venivano salvati dai morsi dei serpenti, gli egiziani venivano colpiti dalle piaghe, qui quella dei mosconi e delle cavallette, narrata in Es 8 e 10.

8E in tal modo persuadesti anche i nostri nemici che tu sei colui che libera da ogni male: 9quelli [gli egiziani] furono uccisi dai morsi di cavallette e di mosconi, né fu trovato un rimedio per la loro vita, perché erano degni di essere puniti con tali mezzi. 10I tuoi figli, invece, non riuscirono a vincerli neppure i denti di rettili velenosi, perché la tua misericordia accorse e li risanò.

Il libro della Sapienza è certamente duro quando parla dei “nemici”; ma tale durezza è legata alla severità con la quale l’autore giudica l’idolatria (si vedano le precedenti riflessioni offerte a proposito di Sap 13-15). L’idolatria, ovvero il sottile tentativo di sostituire al Creatore le sue creature. L’agire di Dio, anche quando sembra essere soltanto un agire che punisce, è in realtà un agire a sfondo pedagogico: persino nella punizione degli egiziani, Dio insegna loro che è Lui a liberare l’umanità da ogni male. E, per chiunque si fida di lui, “la sua misericordia accorse e li risanò” (v. 10).

Come già abbiamo notato in precedenti occasioni, commentando in particolare i capitoli 11-12, il tema della misericordia è davvero centrale nel libro della Sapienza. Se qualche volta gli esseri umani sembrano sperimentare il volto di un Dio severo, scoprono che, in realtà, il Dio di Israele ha un solo volto, che è appunto quello della misericordia.

UNA PAROLA CHE GUARISCE

11Perché si ricordassero delle tue parole [i tuoi figli] venivano punti – ma subito erano salvati – perché, caduti in un oblìo profondo, non restassero esclusi dai tuoi benefici. 12Infatti né una pianta né un impiastro li ha curati, ma la tua parola, Signore, che tutto risani.

La riflessione del libro della Sapienza continua. Anche i momenti negativi della vita (gli israeliti sono stati attaccati e punti nel deserto da serpenti velenosi) possono essere letti dal credente come una occasione di salvezza e come una via per imparare a non dimenticare i benefici che Dio compie per noi. Papa Francesco ricorda, nella Evangelii gaudium, che il credente è una persona dalla memoria grata. Il credente, infatti, dovrebbe conservare nel cuore il ricordo delle molte esperienze dell’amore di Dio da lui incrociate nel corso della sua vita. In una società come la nostra, dominata dalle memorie virtuali legate non alle persone ma a supporti elettronici che ci illudono di poter ricordare tutto, il libro della Sapienza ricorda l’importanza di una memoria viva, che il credente sa conservare e testimoniare.

Ancora una cosa che vale la pena di essere notata: il v. 12 contiene un’ulteriore polemica nei confronti di una fede che si basi solo su realtà esteriori e che si illuda che un determinato oggetto possa realmente guarire l’umanità dalle sue malattie. Neppure la medicina (qui: una pianta medicinale o un medicamento, un “impiastro”) lo può fare, senza l’intervento della parola del Signore. Un Dio “ecologico” che non risana soltanto l’umanità, ma che “tutto risana”, ovvero che dà vita all’intera creazione.

TRA MORTE E VITA

13Tu infatti hai potere sulla vita e sulla morte, conduci alle porte dell’Ade e fai risalire: 14l’uomo, invece, può uccidere nella sua malvagità, ma non restituisce uno spirito esalato né libera un’anima prigioniera.

L’ultima riflessione offerta da questo testo della Sapienza è sulla vita e sulla morte. Gli esseri umani sono in grado di dare la morte, ma non possono dare la vita, meno che mai sono in grado di far rivivere chi ormai è nell’Ade, nel mondo dei morti. Anzi, gli esseri umani sono certamente capaci di uccidere. L’autore della Sapienza è duro, ma molto attuale; dietro tante belle intenzioni e propositi dell’umanità e dei suoi governanti, dietro tanti proclami di civiltà, il nostro mondo sa troppo spesso dare solo la morte: con la guerra, la fame, il crimine, la povertà estrema, la strage di bambini non nati o sfruttati all’estremo, la violenza sulle donne, l’inquinamento che uccide l’intero pianeta… la lista è già molto lunga, ma si potrebbe continuare: “l’uomo, nella sua malvagità, può uccidere”. Il Dio della Bibbia è invece un Dio che è in grado di richiamare alla vita anche i morti. Direbbe Alessandro Manzoni, “quel Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola”.

UN DIO DI MISERICORDIA

L’umanità di oggi è troppo spesso chiusa nella sua autosufficienza; Dio è relegato ai margini della vita sociale, politica, economica, non di rado anche per opera degli stessi credenti che vivono la propria fede in modo individualistico e intimistico, talora in modo magico (si veda sopra la polemica contro il serpente di bronzo!). Il libro della Sapienza costituisce un invito a ritrovare la fede in un Dio che con la sua parola è in grado di dar vita all’intera creazione; un Dio di misericordia, che salva e che risana e non che condanna e distrugge.

lunedì 2 luglio 2018

P. Giulio Michelini o.f.m., commento al Vangelo della XIII dom. T.O.


Papa Francesco: La Santa Messa - 6. L’atto penitenziale

 3 gennaio 2018

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Riprendendo le catechesi sulla celebrazione eucaristica, consideriamo oggi, nel contesto dei riti di introduzione, l’atto penitenziale. Nella sua sobrietà, esso favorisce l’atteggiamento con cui disporsi a celebrare degnamente i santi misteri, ossia riconoscendo davanti a Dio e ai fratelli i nostri peccati, riconoscendo che siamo peccatori. L’invito del sacerdote infatti è rivolto a tutta la comunità in preghiera, perché tutti siamo peccatori. Che cosa può donare il Signore a chi ha già il cuore pieno di sé, del proprio successo? Nulla, perché il presuntuoso è incapace di ricevere perdono, sazio com’è della sua presunta giustizia. Pensiamo alla parabola del fariseo e del pubblicano, dove soltanto il secondo – il pubblicano – torna a casa giustificato, cioè perdonato (cfr Lc 18,9-14). Chi è consapevole delle proprie miserie e abbassa gli occhi con umiltà, sente posarsi su di sé lo sguardo misericordioso di Dio. Sappiamo per esperienza che solo chi sa riconoscere gli sbagli e chiedere scusa riceve la comprensione e il perdono degli altri.

Ascoltare in silenzio la voce della coscienza permette di riconoscere che i nostri pensieri sono distanti dai pensieri divini, che le nostre parole e le nostre azioni sono spesso mondane, guidate cioè da scelte contrarie al Vangelo. Perciò, all’inizio della Messa, compiamo comunitariamente l’atto penitenziale mediante una formula di confessione generale, pronunciata alla prima persona singolare. Ciascuno confessa a Dio e ai fratelli “di avere molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni”. Sì, anche in omissioni, ossia di aver tralasciato di fare il bene che avrei potuto fare. Spesso ci sentiamo bravi perché – diciamo – “non ho fatto male a nessuno”. In realtà, non basta non fare del male al prossimo, occorre scegliere di fare il bene cogliendo le occasioni per dare buona testimonianza che siamo discepoli di Gesù. E’ bene sottolineare che confessiamo sia a Dio che ai fratelli di essere peccatori: questo ci aiuta a comprendere la dimensione del peccato che, mentre ci separa da Dio, ci divide anche dai nostri fratelli, e viceversa. Il peccato taglia: taglia il rapporto con Dio e taglia il rapporto con i fratelli, il rapporto nella famiglia, nella società, nella comunità: Il peccato taglia sempre, separa, divide.

Le parole che diciamo con la bocca sono accompagnate dal gesto di battersi il petto, riconoscendo che ho peccato proprio per colpa mia, e non di altri. Capita spesso infatti che, per paura o vergogna, puntiamo il dito per accusare altri. Costa ammettere di essere colpevoli, ma ci fa bene confessarlo con sincerità. Confessare i propri peccati. Io ricordo un aneddoto, che raccontava un vecchio missionario, di una donna che è andata a confessarsi e incominciò a dire gli sbagli del marito; poi è passata a raccontare gli sbagli della suocera e poi i peccati dei vicini. A un certo punto, il confessore le ha detto: “Ma, signora, mi dica: ha finito? – Benissimo: lei ha finito con i peccati degli altri. Adesso incominci a dire i suoi”. Dire i propri peccati!

Dopo la confessione del peccato, supplichiamo la Beata Vergine Maria, gli Angeli e i Santi di pregare il Signore per noi. Anche in questo è preziosa la comunione dei Santi: cioè, l’intercessione di questi «amici e modelli di vita» (Prefazio del 1° novembre) ci sostiene nel cammino verso la piena comunione con Dio, quando il peccato sarà definitivamente annientato.

Oltre al “Confesso”, si può fare l’atto penitenziale con altre formule, ad esempio: «Pietà di noi, Signore / Contro di te abbiamo peccato. / Mostraci, Signore, la tua misericordia. / E donaci la tua salvezza» (cfr Sal 123,3; 85,8; Ger 14,20). Specialmente la domenica si può compiere la benedizione e l’aspersione dell’acqua in memoria del Battesimo (cfr OGMR, 51), che cancella tutti i peccati. E’ anche possibile, come parte dell’atto penitenziale, cantare il Kyrie eléison: con antica espressione greca, acclamiamo il Signore – Kyrios – e imploriamo la sua misericordia (ibid., 52).

La Sacra Scrittura ci offre luminosi esempi di figure “penitenti” che, rientrando in sé stessi dopo aver commesso il peccato, trovano il coraggio di togliere la maschera e aprirsi alla grazia che rinnova il cuore. Pensiamo al re Davide e alle parole a lui attribuite nel Salmo: «Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità» (51,3). Pensiamo al figlio prodigo che ritorna dal padre; o all’invocazione del pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me, peccatore» ( Lc 18,13). Pensiamo anche a San Pietro, a Zaccheo, alla donna samaritana. Misurarsi con la fragilità dell’argilla di cui siamo impastati è un’esperienza che ci fortifica: mentre ci fa fare i conti con la nostra debolezza, ci apre il cuore a invocare la misericordia divina che trasforma e converte. E questo è quello che facciamo nell’atto penitenziale all’inizio della Messa