lunedì 28 gennaio 2019

Enzo Bianchi Con la Chiesa nell’ascolto dell’umanità


Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose, offre ai lettori del Don Orione Oggi una riflessione sulla natura divina della Chiesa. Partendo da Don Orione, Bianchi invita tutta la Chiesa a vivere il Vangelo in una vita che sia a favore dei poveri.
di Matteo Guerrini

“Non è, credetelo, lo spettacolo delle nostre miserie e dei nostri difetti che crea l’odio di tanti contro di noi e contro la Chiesa. Chi è mai che giudichi l’oceano da quella schiuma che esso rigetta sulla spiaggia? O dalle tempeste che agitano talora le onde? L’oceano non sta nei rifiuti impuri delle sue riviere, ma nella profondità, nell’immensità delle sue acque, nella via che apre ai commerci più lontani, nella solennità del suo riposo, nella grandiosità delle sue emozioni, nell’abisso del suo divino silenzio...Non sono i nostri peccati che provocano l’odio del mondo, sono le nostre virtù, sono i nostri santi! Non è l’elemento umano della Chiesa, ma l’elemento divino!”. Questa frase è presa da uno degli scritti di San Luigi Orione. Cosa pensa in proposito, è d’accordo con questo punto di vista del nostro Fondatore?

Sono convinto che Don Orione, da chiaroveggente e Santo qual era, vedeva molto bene. anche oggi la Chiesa è più che mai in tempesta, contro di lei si scatena il mondo, soprattutto i mass media. Le vengono imputati delitti come se fosse l’unica colpevole di ogni cosa, quando invece le sue responsabilità sono minime rispetto ad altre componenti della società. Certamente è un momento difficile per la Chiesa, ma la realtà è che questa è fatta di tanti Santi quotidiani, come li chiama Papa Francesco, Santi della porta accanto che vivono il Vangelo e la carità con molta semplicità e che brilleranno certamente nell’ultimo giorno. Oggi sono una realtà nascosta, però noi non dobbiamo temere, perché il Signore ci aveva detto che a causa sua saremmo stati oggetto di odio. Quel che succede ora, ha ragione Don Orione, è che il Vangelo brilla e quindi questo scatena i poteri avversi al bene, a Cristo, alla Chiesa. Noi, però, dobbiamo rispondere a queste accuse non con una difesa che sia contro di loro, ma semplicemente facendo vedere quello che è il nostro quotidiano nella sequela del Signore.

È possibile per la Chiesa rinnovarsi e stare al passo con i tempi senza perdere le sue caratteristiche originarie e fondamentali? 
E dal Suo punto di vista sta riuscendo in questo?
La Chiesa in tutto il suo itinerario storico ha sempre avuto la necessità di aggiornarsi ai tempi, usando le parole di Papa Giovanni. Può anche accadere, però, che sia tentata di mondanizzarsi in questo aggiornamento. Ci vuole molto spirito profetico, saper leggere i segni dei tempi ma non adattarsi assolutamente alla mondanità e a quello che il mondo vorrebbe da noi, perché il mondo vorrebbe che spegnessimo il fuoco del Vangelo, e questo assolutamente non va fatto. Certamente con Papa Francesco la Chiesa è impegnata nell’ascolto dell’umanità, nel cercare di far vedere il Cristianesimo in una forma che l’uomo di oggi possa ascoltare, ma il cammino è molto accidentato. abbiamo lasciato una riva, siamo in mare
aperto e non sappiamo quando approderemo a un’altra riva. Il cambiamento culturale e antropologico di tutto il mondo, soprattutto dell’Occidente, certamente coinvolge il Cristianesimo e non è facile per tutte le chiese cristiane di diversa confessione rispondere da un lato ai bisogni di oggi, e restare dall’altro fedeli e fermi sul deposito del Vangelo che ci è stato tramandato.

Nella Comunità da Lei fondata hanno grande importanza il silenzio, la riflessione e la lettura della Parola di Dio. Questa “ricetta” può aiutare la Chiesa tutta a riscoprire la propria origine divina e quindi a ritrovare la propria forza e riscoprire la propria natura evangelica?
Io penso di sì, perché senza la Parola di Dio la Chiesa non c’è. La Chiesa nasce dalla Parola di Dio che la convoca, quindi costantemente deve tornare ad essa, deve darle quel primato, quella centralità, perché la Parola di Dio è davvero la forza e la vita della Chiesa. Ma oggi forse c’è da fare uno sforzo in più, bisogna oltre ad ascoltare la Parola anche riflettere e pensare.
Abbiamo bisogno di un popolo di Dio che personalmente impari a pensare perché senza una fede pensata non può esistere un’identità di fede che sia davvero capace delle sfide del mondo di oggi. Non c’è possibilità di evangelizzazione e non c’è neanche possibilità di una fede salda e certa che duri nel tempo 

Lei ha ricordato in passato che “la fede è faticosa, è una lotta”. Che ruolo deve avere la Chiesa nell’aiutare ogni persona a non smarrirla oppure a ritrovarla?
Noi oggi siamo testimoni di una rottura della trasmissione della fede. La mia generazione soprattutto ha cominciato a non trasmettere la fede alle nuove generazioni e questo si è accentuato soprattutto nelle persone che hanno attualmente 50-60 anni.
Non hanno saputo trasmettere la fede ai figli ma neanche trasmetterla a livello sociale, e questo fa sì che oggi abbiamo davvero la sensazione di una vita precaria delle nostre parrocchie, delle nostre comunità, perché mancano i giovani.
Ma la Chiesa deve assolutamente trasmettere la fede e deve farlo andando sempre ad attingere alla Parola di Dio, che ci chiede oggi di cambiare molti atteggiamenti che avevamo quando eravamo una cristianità e quando la Chiesa era all’interno della società una presenza maggioritaria ed efficace.
Adesso siamo i bordi, il mondo è indifferente, siamo una chiesa di minoranza, ma possiamo essere molto significativi se noi continuiamo a dare primato al Vangelo e se continuiamo soprattutto a vivere il Vangelo in una vita che sia a favore dei poveri, di quelli che sono gli scarti della società, degli ultimi. Questa è la sfida, e credo che qui Don Orione abbia un messaggio ancora molto valido oggi.

Ha citato i giovani, e proprio recentemente si è concluso il Sinodo a loro dedicato al quale lei ha partecipato come uditore. Cosa ne pensa? Che esperienza è stata?
Il Sinodo è stato un grande ascolto dei giovani del mondo, però ora ha bisogno di continuare all’interno delle chiese locali. È per questo che l’ultima parte del documento del Sinodo parla soprattutto di sinodalità, perché sarebbe inutile fare semplicemente una meditazione sul mondo giovanile senza prestare vie sinodali in cui realizzare tutti i cambiamenti necessari affinché i giovani trovino spazio per vivere nella Chiesa la fede cristiana.

domenica 27 gennaio 2019

«PARTECIPA ALLA MESSA LA DOMENICA E LE ALTRE FESTE comandate e rimani libero dalle occupazioni del lavoro»

Nei Vangeli non troviamo questo “precetto”. I primi discepoli non ne avevano bisogno. Spontaneamente, incominciarono ben presto a riunirsi nel giorno della risurrezione per fare ciò che il Signore aveva comandato loro di fare nella sua ultima cena, certi che il Risorto, come per i due discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35), sarebbe stato presente per interpretare le Scritture e donare sé stesso nei segni sacramentali del pane e del vino.

Due gesti di Gesù che costituiscono ancora oggi la struttura rituale della messa: liturgia della parola e liturgia eucaristica. L’espansione del Cristianesimo e il suo radicamento nella società civile portò ad un certo affievolimento della pratica cristiana.

Pertanto la partecipazione all’assemblea eucaristica domenicale divenne sempre più oggetto di insistenti richiami da parte di diversi concili fin dal IV secolo.

Se in un recente passato la partecipazione alla messa domenicale poteva essere condizionata dal contesto sociale, oggi sta diventando sempre più una libera e responsabile scelta di fede. Non si può essere credenti e cristiani per obbligo.

La fede è amore; l’amore non può essere imposto. Pertanto, la partecipazione all’Eucaristia domenicale «prima di essere una questione di precetto è una questione di identità. Il cristiano ha bisogno della domenica. Dal precetto si può anche evadere, dal bisogno no». È per andare incontro a questo bisogno che fin dal IV secolo la Chiesa ha sempre lottato perché il giorno del Signore sia anche un giorno di festa per l’uomo, libero da lavori schiavizzanti.

Silvano Sirboni,  liturgista

venerdì 25 gennaio 2019

SanFrancesco: Conversione di San Paolo e San Francesco, una missionarietà comune

Paolo: dalla persecuzione alla difesa dei cristiani. Francesco: dall'indifferenza all'abbraccio con in lebbroso
di Augusto Drago

Seguire Cristo, sia per Paolo sia per Francesco, non è un’esigenza morale o imitativa. Essi non seguono una dottrina: si sono convertiti ad una Persona, quella di Cristo. Hanno scelto di vivere non solo in, ma anche e soprattutto come Cristo Gesù. Per ambedue questa realtà viene tradotta con l’immagine del “rivestirsi di Cristo”. Paolo la utilizza in Romani 13,14 ed in Efesini 4,24. Di Francesco è scritto nella Vita prima del Celano, IX, 155 (Fonti Francescane, 521).


Sia in Paolo sia in Francesco, prima che un cambiamento di pensiero, c’è stato un cambiamento di mente e di cuore. Mettiamo adesso in evidenza alcune convergenze che mi sembrano molto significative. Esse riguardano, in modo particolare, il momento del loro incontro con Cristo Gesù.


La conversione di Paolo e Francesco 
L’esperienza della conversione e del conseguente incontro/innamoramento di Cristo Gesù, è narrato sia da Paolo che da Francesco in prima persona. Paolo ne parla nelle sue lettere in diverse occasioni e in diversi modi. Francesco ne parla all’inizio del suo secondo Testamento. Per Paolo si tratta di una “grazia”: Per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia non è stata vana in me (1Corinti, 15,10), Anche per Francesco la conversione è una grazia: “Il Signore concesse a me, frate Francesco, di cominciare così a fare penitenza” (Secondo Testamento, vers. 1. FF.110). 

Il verbo “concedere”, sottolinea in maniera meravigliosa la grazia che opera in Francesco. Sia Paolo sia Francesco iniziano il loro esodo per giungere ad una perfetta identificazione con Cristo. L’apostolo si identifica talmente con Cristo fino a giungere ad affermare che per lui vivere è Cristo: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Galati, 2,20). “Per me vivere è Cristo…” (Filippesi, 1,21). Anche Francesco, dopo il suo esodo, intraprende una via che lo porta ad identificarsi con Cristo e questi crocifisso. “Ciò che prima mi sembrava amaro mi fu cambiato in gaudio e dolcezza dell’animo” (Secondo Testamento,vers.2. FF.110). 

A queste parole di Francesco fanno eco quelle dell’Apostolo: “Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita, a motivo di Cristo… ”(Filippesi, 3,7). Sul monte della Verna Francesco riceve le stimmate del Signore sulla sua carne ormai esausta. Sia pure su un piano diverso, anche Paolo afferma di portare nel suo corpo le piaghe del Signore: “Da ora in poi nessuno mi procuri più fastidi, di fatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo” (Galati, 6,17). In ogni caso la stigmatizzazione di Paolo e di Francesco si identificano in qualche modo. Infatti Francesco nella sua vita ha sempre portato l’immagine del Cristo Signore. Il santo di Assisi è stato sempre perfettamente identificato a Lui: era già spiritualmente e totalmente cristificato. Sia Paolo sia Francesco hanno percorso una via di perfetta configurazione a Cristo e a questi crocifisso (1Corinti, 2,2). 

Si potrebbe concludere affermando che i cammini di Paolo e di Francesco siano l’uno specchio dell’altro, ambedue convergenti verso l’Amato: Cristo Gesù il Signore! Paolo ha capito subito che il cristianesimo è una Persona: Gesù Cristo. Francesco ha parimenti compreso che senza Vangelo e conseguentemente senza Gesù Cristo, non può esserci una vita vera ed autentica. Tramite la conversione ambedue si sono arresi a Cristo, anche se questo passaggio per loro, spesso si è tramutato in sofferenze ed amarezze. L’Amore per il Signore è stato più forte di tutto e li ha condotti ad annunziare Cristo e dargli testimonianza. L’amore di Cristo li incalzava e non donava loro alcuna tregua! Dall’amore per il Cristo nasce sia per Paolo che per Francesco l’impulso irrefrenabile di annunziarlo come una missione che diventa passione! Francesco cominciò a seguire Cristo a San Damiano. Il giovane Francesco, ancora all'inizio nella sua ricerca spirituale, un giorno era uscito nella campagna per meditare. 

Trovandosi a passare vicino alla chiesa di San Damiano, che minacciava rovina, vecchia com’era, spinto dall’impulso dello Spirito Santo, vi entrò per pregare. Pregando inginocchiato davanti all’immagine del Crocifisso, si sentì invadere da una grande consolazione spirituale e, mentre fissava gli occhi pieni di lacrime nella croce del Signore, udì con gli orecchi del corpo una voce scendere verso di lui dalla croce e dirgli per tre volte: “Francesco, va e ripara la mia chiesa che, come vedi, è tutta in rovina!”. 

All’udire quella voce, Francesco rimane stupito e tutto tremante, perché nella chiesa è solo e, percependo nel cuore la forza del linguaggio divino, si sente rapito fuori dai sensi. Tornato finalmente in sé, si accinge ad obbedire, si concentra tutto nella missione di riparare la chiesa di mura, benché la parola divina si riferisse principalmente a quella Chiesa, che Cristo acquistò col suo sangue (2Cel 10: FF 593-594), come lo Spirito Santo gli avrebbe fatto capire e come egli stesso rivelò in seguito ai frati. In seguito. 

Infatti, nella chiesa di Santa Maria degli Angeli ascoltò la voce di Cristo che gli parlava ripetendo le parole del mandato che Gesù stesso aveva donato ai suoi discepoli: “…li mandò a due a due e dava loro il potere sugli spiriti impuri” (Mc, 6.7-13). Paolo vive la medesima esperienza sulla via di Damasco mentre si accingeva ad andare a fare prigionieri tutti coloro che si erano convertiti a Gesù Cristo. Ma la voce del Signore lo ferma e gli dice: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? E Paolo, stupito e meravigliato mormora una domanda: “Chi sei Signore?”. 

Gesù risponde: “Io sono Gesù che tu perseguiti, alzati entra nella città di Damasco e ti sarà detto ciò che devi fare!” (Atti, 9,1-19). A Damasco Paolo incontra Anania da cui riceve il Battesimo che rigenera e cristifica l’intera sua persona e il suo cuore. Sconvolge tutto il modo di essere e di pensare. Da qui inizia il lungo e travagliato cammino di evangelizzazione di Paolo che trova il suo termine a Roma dove morirà martire di Cristo, dopo essere stato per più mesi prigioniero presso il carcere mamertino. Le due storie, quella di Gesù e di Paolo possono essere chiamate due vie parallele: Paolo vive di Cristo e per Cristo, Francesco vive anche lui allo stesso modo! 

Se ci fermiamo un attimo in silenzio, potremmo udire un canto a due voci: la voce di Paolo e quella di Francesco che hanno lo stesso tono e la stessa melodia di amore per il Signore cercato, trovato, vissuto ed annunziato: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (…) Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori, per virtù di Colui che ci ha amati. Né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura, potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Romani, 8, 35-39). Beati coloro che sapranno annunziare, evangelizzando, con questo fuoco d’amore nel cuore. Annunziare non significa parlare di Cristo Gesù, ma mostrare agli altri la gioia di essere in Lui e per Lui: come Paolo e Francesco. (Il Missionario Francescano)

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LA CADUTA DA CAVALLO E LA CONVERSIONE



Se pensiamo alla conversione di san Paolo immaginiamo un uomo che cade da cavallo. Eppure, non ci fu alcun cavallo nelle Sacre Scritture che si limitano a dire che il santo “cadde a terra” sulla via di Damasco. Il cavallo è dunque una "narrazione" artistica perchè è plausibile che stesse viaggiando non a piedi. Come per Paolo anche in San Francesco ritroviamo la figura del cavallo nel momento più alto della conversione, in questo caso, infatti, quando si racconta dell'incontro tra l'assisiate e il lebbroso. 
«Fra tutti gli orrori della miseria umana, Francesco sentiva ripugnanza istintiva per i lebbrosi. Ma, ecco, un giorno ne incontrò proprio uno, mentre era a cavallo nei pressi di Assisi. Ne provò grande fastidio e ribrezzo, ma vincendo se stesso, scese da cavallo e corse a baciarlo. E il lebbroso, che gli aveva steso la mano per chiedere l'elemosina, ricevette contemporaneamente il denaro e un bacio. Subito Francesco risalì a cavallo, guardò intorno nell’aperta campagna, ma non vide più il lebbroso. Perciò, colmo di stupore e di gioia, cominciò a cantare e a lodare il Signore, proponendosi, da allora in poi, di elevarsi a cose sempre più grandi. » (FF 592)


giovedì 24 gennaio 2019

L'Osservatore Romano: Quel dubbio sulla potenza dell’Origine

Una riflessione sulle dinamiche che portano alla rivalità tra fratelli

«È tempo di rilanciare una nuova visione per un umanesimo fraterno e solidale dei singoli e dei popoli». E ancora: «La forza della fraternità (...) è la nuova frontiera del cristianesimo» (Humana communitas 6, 13). Così papa Francesco nella lettera dello scorso 6 gennaio alla Pontificia Accademia per la vita. Qualche giorno prima, nel discorso urbi et orbi in occasione del Natale, il papa descriveva la fraternità come ciò che «sta alla base della visione cristiana dell’umanità».

Simultaneamente il tono delle affermazioni segnala la diagnosi e la cura. La diagnosi: il difetto di fraternità, lo sfilacciamento del legame che apparenta tutti i figli e le figlie di Adamo. La cura: la fraternità stessa, scintilla che farà divampare il fuoco di relazioni giuste nelle case, nelle città e tra i popoli.

Parlando di fraternità è necessario evitare qualsiasi forma di pomposa retorica e frettoloso moralismo. La Bibbia scansa questi rischi descrivendo il legame fraterno come il più impegnativo e complicato. Attraversare con pazienza l’aspetto intrinsecamente drammatico della fraternità consente di cogliere quanto è davvero in gioco. Molto più di ciò che normalmente si ritiene.

La fraternità è in crisi non per un capriccio e nemmeno per generico egoismo; neanche per invidia, o a motivo dell’ingiustizia. Tutte queste cose sono effetti, non la causa. Il racconto di Genesi 4 è così raffinato da penetrare fino al punto di divisione delle giunture e delle midolla del legame fraterno. Perché Caino uccide Abele? Per paura. Essa è l’emozione in cui si ritrovano Adamo ed Eva dopo il peccato: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto» (Genesi 3, 10). La paura spinge la coppia a nascondersi e Adamo ad aggredire Dio ed Eva; si fa in fretta a capire che la miglior difesa è l’attacco. Anche se in ordine inverso, Caino prova i medesimi sintomi: prima l’aggressività fino alla violenza, poi il bisogno di nascondersi (Genesi 4, 14); segnali rivelatori della sua radicale paura. Di che cosa ha paura Caino? Egli è talmente sedotto dalla predilezione divina per Abele (solo da Abele Dio accetta il sacrificio) da non vedere che solo a lui Dio parla.

Accostando il testo con gli stessi occhi di Caino, generazioni e generazioni di lettori non scorgono che la pagina biblica rivela una duplice predilezione divina: una per Abele, il solo capace di offrire un sacrificio gradito a Dio, e un’altra riservata a Caino, il solo a cui Dio accorda un’incomprensibile premura, fatta di parole di richiamo, incoraggiamento, consigli, domande, accuse, castighi minacciati e, infine, di sollecita custodia della sua vita, nonostante tutto. Dio dedica tempo a Caino, mentre ad Abele non rivolge nemmeno una parola. Se “invidia” (in-videre) significa “non-vedere”, “non-voler-vedere”, “vedere male”, “vedere di malocchio”, si può dire che in Caino essa è ritorta contro se stesso prima che verso Abele, poiché percepisce benissimo la predilezione del fratello, non cogliendo la propria.

Da qui il senso di essere escluso, privato di quanto è vitale. Il terrore che lo tormenta scaturisce dal fatto che non ci sia posto per due: «Se Abele è prediletto, significa che io sono escluso». Egli non vede il posto unico riservato a entrambi, ritenendo che ci sia solo un unico posto. Ciò scopre la radice profonda della paura di Caino: considerare Dio inadeguato, insufficiente, incapace di mettere al sicuro tutta la vita di cui è origine. Al massimo, può garantire una sola scialuppa di salvataggio e, per giunta, monoposto: tutti gli altri naufraghi — coi quali ci si trova “nella stessa barca” — diventano rivali. La rivalità omicida affiorante con chiarezza nel rapporto fraterno, prima di rappresentare un deficit di carità o di giustizia, segnala innanzitutto una mancanza di fede: Caino crede che Dio ci sia, ma la paura, distorcendo la realtà, gli impedisce di fidarsi della sua competenza. Insomma: Dio c’è, ma non può. L’impotenza e l’incompetenza di Dio spingono il primogenito di Adamo all’urgente “dovere” di cavarsela da solo, occupando l’unico posto vitale a disposizione, anche a costo della morte del fratello: mors tua vita mea.

Parlare di fraternità, senza toccare il fondo della paura circa l’incompetenza, l’insufficienza di Dio (e il terribile senso di solitudine derivante) significa rimanere alla superficie del legame. Esso invece spalanca le profondità dell’anima, facendone emergere le dinamiche più nascoste. La rivalità tra fratellini, tra colleghi, tra popoli, culture, nazioni ed economie consegue la negazione della potenza dell’Origine (la mamma, il papà, la terra, Dio stesso) nel garantire un posto vitale a ciascuno. La violenta ingiustizia è effetto dell’incredulità; non tanto nell’esistenza di Dio (quante persone ingiuste ci credono!), ma nella sua custode e nutriente potenza. A dirla tutta, non esiste peccato che non sia risultato dell’incredulità nella potenza di Dio: avaro diventa chi nega il potere divino di assicurare il pane quotidiano; vendicativo è colui che non crede Dio possa prendere le sue difese; lussurioso o goloso è chi si procura da sé le consolazioni e le conferme, poiché Dio non sarebbe in grado di garantirgliele.

Gesù «non si è vergognato di chiamarci fratelli» (Lettera agli ebrei 2, 11), divenendo il Primogenito di ogni creatura, non a motivo di chissà quale generica bontà, ma per la fiducia riposta nel Padre a cui «tutto è possibile» (Marco 10, 27; 14, 36), perfino assicurare un posto unico a Caino, un posto unico ad Abele, un posto unico a ciascun uomo e a ogni popolo. A tale affidamento, Cristo non arriva astrattamente, ma per quotidiana, ordinaria, feriale, affettuosa sensibilità al mondo, guardandolo e toccandolo così com’è, non come la paura lo deforma (Francesco, Laudato si’ n. 97). Ben lo mostrano le parole rivolte a chi è preoccupato (cioè impaurito) per l’eventuale insufficienza di cibo, di acqua e di vestiti. La strategia per vincere la paura è quella di “guardare gli uccelli del cielo” (nessuno di essi muore di fame) e “osservare i gigli del campo” (vestiti di alta sartoria). Il Padre è così ricco, potente e competente da permettersi il lusso d’interessarsi a rondini e margherite (Matteo 6, 25-34). Il senso della affidabile competenza di Dio disarma la rivalità, rendendola vana.

Al fine di riacquisire “la forza della fraternità” è quindi necessario riabilitare la nostra sensibilità al mondo, alla casa comune. Non è un angusto monolocale con un posto solo, ma la profezia della “casa del Padre”, dove c’è ampio posto per tutti (Giovanni 14, 1-4).

Perché Cristo ha voluto il legame fraterno per i propri discepoli? Certo, affinché annuncino e ricordino a tutti gli umani, a tutti i popoli, a tutte le creature il vincolo derivante dall’unica generosa origine e dall’unico invitante destino. Ma insieme a tale motivazione ad extra, nella scelta di Gesù vibra anche una ragione ad intra, a favore della stessa Chiesa e d’ogni credente. Infatti, ponendoci nella fraternità, in questo legame indissolubile e difficile, pieno d’affetto e fomentatore di rivalità, siamo messi in condizione di verificare con schiettezza la qualità reale della nostra fede nella competenza di Dio a favore della vita, ora e al momento della nostra morte. Infatti la fraternità compiuta trasforma in carne e sangue la fiducia piena in colui che è così longanime (ha l’animo così ampio) da poter prediligere Abele e prediligere Caino.

Un Dio così è a tal punto potente da avere una riserva inimmaginabile di soluzioni... anche di fronte alla nostra morte.

di Giovanni Cesare Pagazzi

mercoledì 23 gennaio 2019

Avvenire: Anticipazione. Come leggere la Bibbia, voce dell'infinito

Non conosco miglior iniziazione all’infinito che l’esperienza della lettura, e della lettura biblica. I commentatori ebrei dell’Antico Testamento erano convinti che per ogni passo della Torah esistessero quarantanove possibilità di interpretazione. Quarantanove è il risultato della moltiplicazione di sette per sette, e sette è il simbolo dell’infinito. Dunque, la lettura stessa della Bibbia presuppone sempre un’ipotesi di infinito. Per non parlare della sua natura di Parola associata in modo unico alla Rivelazione. Infinito è anche il compito che il lettore della Bibbia sente, non di rado, nel prendere contatto con il testo. Da un lato la Bibbia esercita un’attrazione inesauribile. Dall’altro, questa attrazione ci mostra che abbiamo bisogno di un’iniziazione al mondo testuale che ci sta di fronte. Non basta che ci mettiamo a leggere la Bibbia: abbiamo bisogno di un’ermeneutica, per semplice o complessa che sia. La Parola biblica è una finestra, uno specchio, una fonte, una luce, e in ognuna di queste modalità essa è imprescindibile non solo alla costruzione del cammino credente, ma anche alla crescita culturale.

Eppure non è possibile accedervi senza mettere in campo una sorta di arte della lettura. Proprio con questa necessità il mio lavoro entra in dialogo. Amo molto quel proverbio inglese che dice: «clarity, charity». La chiarezza si raggiunge percorrendo la via dell’amore. Se c’è una cosa che questi saggi di teologia ed esegesi biblica vogliono trasmettere, si trova in questo proverbio. L’arte di leggere non è altro che l’arte di amare. A un certo momento, racconta Flaubert, sant’Antonio, turbato da grandi debo-lezze, chiede a Dio di infondergli coraggio, ed entra nella sua capanna. Accende una torcia che gli permetta di vedere le lettere del grosso libro e, ancora vacillante, tra fantasmi che lo spingono verso derive che egli rifiuta, apre la Bibbia a più riprese (cinque volte, precisa il racconto), in cerca di protezione. Tutte e cinque le volte, però, chiude il libro con le mani tremanti. Le ossessioni contro cui lotta, sulla purificata via dell’ascesi, tornano ad assalirlo, incontrollabili, nelle descrizioni del testo sacro. Una voce dal cielo ordina di mangiare dalla grande tovaglia che discende sulla terra, appestata da rettili e quadrupedi. La violenza, il sangue e l’eccesso si mescolano alla nebbia di foschi sortilegi e presagi… Secondo Michel Foucault, nella prefazione all’opera di Flaubert, l’eremita comprende che «Il libro è il luogo della Tentazione».

Per questo allontana da sé la Bibbia, invocando l’aiuto di Dio. Ma raccontando questa storia di sant’Antonio Abate, Flaubert in fondo che cosa racconta? Che è inutile imporre al testo un programma di comprensione, quando ci è richiesto il contrario: che ci esponiamo al testo, nella nostra fragilità, al fine di ricevere da esso, e alla sua maniera, un io più vasto. In realtà, solo chi non l’ha mai avvicinata ignora che la Bibbia è un luogo di prova. Libro sacro per i credenti di più di una religione, superclassico della letteratura, chiave indispensabile per decifrare il pensiero e la storia, oggetto interminabile di curiosità, di ricezione e studio, la Bibbia richiede, evidentemente, un’arte dell’interpretazione. Essa possiede uno spessore storico inalienabile, che dev’essere tenuto in considerazione: scritta due o tremila anni fa, in lingue con un’espressività molto diversa da quella che hanno le nostre, in una grammatica molto particolare, scritta sull’acqua, sul corpo, sulla fiamma, racchiude generi tanto specifici e diversificati da rappresentare di per sé una colossale sfida per qualunque lettore. Più che un libro è una biblioteca: può essere letta come canzoniere, libro di viaggi, memoriale di corte, antologia di preghiere, cantico d’amore, pamphlet politico, oracolo profetico, corrispondenza epistolare, libro di immagini, testo messianico. E, legata a questa umana parola, la rivelazione di Dio. Cipriano (200-258) diceva: «Se nella preghiera parliamo con Dio, nella lettura Dio parla con noi». Girolamo (347-420), scrivendo a un discepolo, raccomandava: «Non allontanare mai la mano dal Libro, e non distogliere da esso i tuoi occhi». Cassiodoro (490-583), riferendosi alla farmacia della lectio, scriveva: «Come un fertile campo produce erbe odorose utili alla nostra salute, così la lectio divina offre sempre una cura per l’anima ferita». Ed è ancora un’immagine campestre quella che serve a Giovanni Damasceno (675-750): «Bussiamo alla porta di quel bellissimo giardino delle Scritture».

Potremmo moltiplicare per mille gli aforismi di questo tipo, che mostrano come la tradizione cristiana si sia pensata, fin dall’inizio, come una pratica di lettura. Una lettura infinita. Qualunque parola, e ancor di più la parola letteraria con cui è ordito il testo biblico, è istanza di rappresentazione. Designa «a un tempo indicazione e apparizione; rapporto con un oggetto e manifestazione di sé». Questa parola (quella che denominiamo «prosa di Dio»), è quindi radicata in un territorio di duplicità: da un lato è una specie di aura, puro respiro, sintomo indissociabile, rivelazione; dall’altro è direzione, evocazione, cenno che segnala la necessità di un’indagine. Come in quel passo di Gdc 5,22 («Allora martellarono gli zoccoli dei cavalli al galoppo, al galoppo dei destrieri»), in cui la sonorità dei due sostantivi plurale ( midda’arôt da’arôt) imita il battere degli zoccoli degli animali sulla prateria, la parola rende presente un’esperienza, l’originale rumore di quell’interminato galoppo, e al tempo stesso testimonia un’esperienza che sta al di là di essa. L’atto della comunicazione biblica è costituito da questa duplicità inconsutile: la strategia del pensiero si identifica con e tuttavia è solo parzialmente identificabile nella strategia verbale e discorsiva. La rappresentazione è, così, condizione di questo linguaggio. E il linguaggio è il teatro di Dio.

José Tolentino Mendonca sabato 11 novembre 2017

sabato 19 gennaio 2019

Don Tonino Bello: Maria, donna del vino nuovo

Nel vangelo c’è un episodio, quello delle nozze di Cana che gli ultimi approfondimenti biblici ci obbligano decisamente a rivedere, soprattutto per ciò che riguarda il ruolo di Maria.

Chi sa quante volte ci siamo commossi pure noi dinanzi alla sensibilità della Madre di Gesù che con finezza tutta femminile, ha intuito il disappunto degli sposi, a corto di vino, e ha forzato la mano del figlio, troncando sul nascere l’evidente imbarazzo che ormai serpeggiava dietro le quinte.

Pare certo, però, che l’intenzione dell’evangelista non fosse tanto quella di mettere in evidenza la sollecitudine di Maria a favore degli uomini, o la potenza della sua intercessione presso il figlio. Quanto, quella di presentarla come colei che percepisce a volo il dissolversi del piccolo mondo antico e, anticipando l’«ora» di Gesù, introduce sul banchetto della storia non solo i boccali della festa, ma anche i primi fermenti della novità.

Festa e novità, quindi, irrompono nella sala su espresso richiamo di lei.

A darcene conferma c’è nella pagina di Giovanni un particolare tutt’altro che accidentale, che anzi, a ben considerarlo, esplode con la prepotenza di un invadente protagonismo. È costituito dalle sei giare di pietra, per la purificazione dei giudei.

Oscene nella loro immobilità. Ingombranti nella loro ampiezza prevaricatrice. Gelide come cadaveri, perché di pietra. Inutili, perché vuote, agli effetti di una purificazione che sono ormai incapaci di dare.

Sei, e non sette che è il numero perfetto. Simbolo malinconico, quindi, di ciò che non giungerà mai a completezza, che non toccherà più i confini della maturazione, che resterà sempre al di sotto di ogni legittima attesa e di ogni bisogno del cuore.

Ebbene, di fronte a questo scenario di paresi irreversibile rappresentato dalle giare (di pietra, come le tavole di Mosè), Maria non solo avverte che la vecchia alleanza è ormai logora e che l’antica economia di salvezza fondata sulle prescrizioni della Legge ha chiuso da tempo la sua contabilità, ma sollecita coraggiosamente la transizione.

Vede raggiunti i livelli di guardia da un mondo che boccheggia nella tristezza, e invoca da suo figlio non tanto uno strappo alla legge della natura, quanto uno strappo alla natura della legge. Questa non contiene ormai nulla, non è in grado di purificare nessuno, e non rallegra più il cuore dell’uomo.

Interviene, perciò, d’anticipo, e chiede a Gesù un acconto sul vino della nuova alleanza che, lei presente, sgorgherà inesauribile nell’ora della croce.

«Non hanno più vino». Non è il tratto di una provvidenziale gentilezza che sopraggiunge a evitare la mortificazione di due sposi. E un grido d’allarme che sopraggiunge per evitare la morte del mondo.

Santa Maria, donna del vino nuovo, quante volte sperimentiamo pure noi che il banchetto della vita languisce e la felicità si spegne sul volto dei commensali!

È il vino della festa che vien meno.

Sulla tavola non ci manca nulla: ma, senza il succo della vite, abbiamo perso il gusto del pane che sa di grano. Mastichiamo annoiati i prodotti dell’opulenza: ma con l’ingordigia degli epuloni e con la rabbia di chi non ha fame. Le pietanze della cucina nostrana hanno smarrito gli antichi sapori: ma anche i frutti esotici hanno ormai poco da dirci.

Tu lo sai bene da che cosa deriva questa inflazione di tedio. Le scorte di senso si sono esaurite.

Non abbiamo più vino. Gli odori asprigni del mosto non ci deliziano l’anima da tempo. Le vecchie cantine non fermentano più. E le botti vuote danno solo spurghi d’aceto.

Muoviti, allora, a compassione di noi, e ridonaci il gusto delle cose. Solo così, le giare della nostra esistenza si riempiranno fino all’orlo di significati ultimi. E l’ebbrezza di vivere e di far vivere ci farà finalmente provare le vertigini.

Santa Maria, donna del vino nuovo, fautrice così impaziente del cambio, che a Cana di Galilea provocasti anzitempo il più grandioso esodo della storia, obbligando Gesù alle prove generali della Pasqua definitiva, tu resti per noi il simbolo imperituro della giovinezza.

Perché è proprio dei giovani percepire l’usura dei moduli che non reggono più, e invocare rinascite che si ottengono solo con radicali rovesciamenti di fronte, e non con impercettibili restauri di laboratorio.

Liberaci, ti preghiamo, dagli appagamenti facili. Dalle piccole conversioni sottocosto. Dai rattoppi di comodo. Preservaci dalle false sicurezze del recinto, dalla noia della ripetitività rituale, dalla fiducia incondizionata negli schemi, dall’uso idolatrico della tradizione.

Quando ci coglie il sospetto che il vino nuovo rompa gli otri vecchi, donaci l’avvedutezza di sostituire i contenitori. Quando prevale in noi il fascino dello «status quo», rendici tanto risoluti da abbandonare gli accampamenti.

Se accusiamo cadute di tensione, accendi nel nostro cuore il coraggio dei passi. E facci comprendere che la chiusura alla novità dello Spirito e l’adattamento agli orizzonti dai bassi profili ci offrono solo la malinconia della senescenza precoce.

Santa Maria, donna del vino nuovo, noi ti ringraziamo, infine, perché con le parole: «Fate tutto quello che egli vi dirà» tu ci sveli il misterioso segreto della giovinezza.

E ci affidi il potere di svegliare l’aurora anche nel cuore della notte.

Tonino BELLO, Maria donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000,66-68

mercoledì 16 gennaio 2019

L'Osservatore Romano: La sfida della fraternità

La parola dell'anno



L’idea di fraternità ha conosciuto, nell’ultimo ventennio, una nuova e forte manifestazione di interesse, soprattutto per quanto riguarda la possibilità del suo utilizzo nella dimensione pubblica, in particolare come principio giuridico e politico. Si stanno sviluppando scuole di pensiero e di azione che rileggono la storia dei popoli e delle culture mettendo in luce il ruolo che la fraternità ha avuto nella formazione delle loro identità e cercano di comprendere il contributo che la fraternità può portare nei diversi contesti geopolitici e nelle varie discipline.

Questo è un fatto nuovo, soprattutto nella storia dei rapporti tra Europa e America Latina, i due continenti dove questa nuova tendenza è più rilevante. Non si tratta infatti di una teoria che, sorta in un determinato luogo, viene poi esportata altrove; al contrario, i centri di studio e i soggetti sociali che approfondiscono la fraternità hanno radici ben piantate nei diversi contesti culturali, pur collaborando regolarmente tra loro. Del resto, la comprensione e l’applicazione della fraternità in politica, proprio perché viene intesa come fraternità universale, può venire attuata solo con il contributo originale e dialogante di ogni area culturale del pianeta.

Si tratta di una inversione di tendenza, seppure iniziale. L’idea di fraternità non appartiene infatti a nessuna tradizione di studi, a nessun insegnamento consolidato delle diverse discipline che si occupano di politica, di diritto o di economia. Lo stesso termine “fraternità”, fino a una ventina d’anni fa, era pressoché assente, tranne rare eccezioni, dai dizionari di queste discipline. La situazione oggi sta cambiando; l’introduzione del principio di fraternità ha permesso di elaborare l’idea della «economia civile», importanti risultati sono stati ottenuti nello studio del rapporto tra fraternità e diritto; l’apertura della riflessione sul «principio dimenticato» nelle discipline politologiche ha prodotto un grande numero di studi sull’inculturazione della fraternità e sulla possibilità di renderla operativa nel contesto delle scienze empiriche.

Un “deficit” del pensiero

Fin dagli anni Sessanta del Novecento si è fatta strada la percezione di un “deficit” della riflessione politica, di una sua, almeno parziale, impotenza nell’affrontare i problemi irrisolti, non solo quelli dei popoli economicamente e politicamente più fragili, ma anche quelli delle democrazie più evolute ed economicamente potenti. Queste ultime, infatti, hanno dato una certa realizzazione ai principi di libertà e uguaglianza, ma è sotto gli occhi di tutti che sono ancora lontane da una loro piena realizzazione; in molti, addirittura, ha cominciato ad affacciarsi il dubbio se la democrazia sia effettivamente in grado di applicare tali principi e di assicurare ai cittadini i diritti universali per i quali è nata. Sta crescendo un movimento di sfiducia nei confronti delle istituzioni della democrazia, per certi aspetti simile a quello che favorì la nascita dei regimi autoritari e totalitari nella prima metà del Novecento. La crisi finanziaria ed economica che ha attanagliato i Paesi occidentali dal 2008 in poi, ha avuto tra i suoi effetti quello di polarizzare sempre più le società avanzate, aumentando la differenza tra ricchi e poveri e il numero assoluto di questi ultimi; e ha peggiorato ulteriormente le condizioni dei popoli che già vivevano le maggiori difficoltà, spingendoli sempre più verso il ruolo di “scarto” denunciato da papa Francesco. Oggi, in conclusione, siamo tutti meno liberi e meno uguali.

Eppure nel mondo ci sono risorse materiali e capacità organizzative sufficienti per dare a tutti il necessario per vivere e per costruire il proprio progetto di vita: perché allora, i conti non tornano? In realtà, sono le risorse relazionali quelle che mancano, sono i rapporti umani sbagliati che impediscono la libertà e l’uguaglianza. Uno dei primi ad accorgersene fu Paolo VI: «Se è vero che il mondo soffre per mancanza di pensiero — scriveva nel 1966 nella Populorum progressio — aprite le vie che conducono, attraverso l’aiuto vicendevole, l’approfondimento del sapere, l’allargamento del cuore, a una vita più fraterna in una comunità umana veramente universale».

Questa idea della fraternità come via da percorrere nel pensiero e nell’azione, ha cominciato un po’ alla volta a farsi strada anche al di fuori dell’ambito cristiano. Edgar Morin e Anne Kern, ad esempio, quasi trent’anni dopo, arrivano ad una considerazione simile, denunciando la generale incapacità di “pensare la crisi” da parte di una mentalità dominante, caratterizzata da una «intelligenza cieca» che «rende incoscienti e irresponsabili». Morin e Kern recuperano la libertà, l’uguaglianza e la fraternità come principi di tipo programmatico per la realizzazione di una piena democrazia planetaria, sottolineando il ruolo della fraternità come criterio dirimente: «Il richiamo della fraternità non deve soltanto superare la vischiosità e l’impermeabilità dell’indifferenza. Deve vincere l’inimicizia. (...) e il problema chiave del compimento dell’umanità è di allargare il noi, di abbracciare, nella relazione matri-patriottica terrestre, ogni ego alter e di riconoscere in lui un alter ego, cioè un fratello umano». Nel 2007 è la volta di Zygmunt Bauman di osservare in quale modo la società occidentale ha perso i suoi punti di riferimento: è avvenuto, senza che la maggior parte di noi se ne renda conto, un cambiamento nei significati dei grandi principi che avevano orientato la ricerca della felicità personale e pubblica. Il “trittico” della Rivoluzione francese, scrive Bauman, sosteneva che «per raggiungere la felicità gli esseri umani dovevano essere liberi, uguali e fraterni»; ma oggi è stato sostituito da un altro: siamo pronti a rinunciare a una parte di libertà in cambio di maggiore «sicurezza», al posto dell’uguaglianza effettiva c’è una «parità» superficiale, e abbiamo scambiato la vera fraternità con un suo sostituto illusorio: la «rete».

Le radici del “trittico”

In anni recenti, dunque, avviene una riscoperta della fraternità, non solo nella dimensione dei rapporti personali, ma come principio capace di un ruolo sociale e pubblico: è la fraternità considerata non separatamente, ma insieme agli altri due principi del “Trittico” del 1789. Esso è un “evento” che va considerato almeno sotto due aspetti.

Da una parte, abbiamo la tradizione. L’intuizione che diede forma al trittico era frutto di un percorso millenario che andava ben oltre il fatto storico, pur importante, della Rivoluzione: il trittico sintetizza, in una formula eccezionalmente efficace, quello che potremmo considerare come l’ideale della modernità. I tre grandi principi attraversano infatti l’esperienza storica dell’Occidente, che si snoda, nell’area culturale indoeuropea e mediterranea, attraverso l’antica Grecia, Roma, l’ebraismo, il cristianesimo. E dunque la fraternità esisteva come idea e come pratica ben prima del 1789, proveniva dalla religione ebraica e diviene il centro della vita cristiana. Nel corso dei secoli, la fraternità cristiana era stata vissuta sul piano personale ed ecclesiale, ma anche civile: aveva praticato l’ospitalità, aveva costruito ospedali e ospizi per i poveri e per i vecchi, scuole per i ragazzi del popolo. Non era cioè rimasta nell’ambito delle relazioni private, ma aveva assunto un ruolo pubblico, aveva dato vita a pratiche e a istituzioni che i Paesi democratici dell’età contemporanea hanno realizzato come diritti della cittadinanza, in nome della libertà e dell’uguaglianza e, anzi, preparando l’avvento e il riconoscimento di tali diritti.

D’altra parte, proprio questo è il punto: la fraternità, prima che la libertà e l’uguaglianza si affermassero come principi politici e giuridici, era stata vissuta in assenza e in sostituzione di questi. È solo con l’ondata rivoluzionaria del Settecento (Boston, Parigi, Port-au-Prince) e con il successivo inizio del processo di decolonizzazione in America Latina, che i due principi diventano costitutivi dell’ordine politico e si impongono: ed è solo da quel momento che la fraternità, insieme alla libertà e all’uguaglianza, diventa principio politico. La fraternità, componendo il Trittico, si secolarizza, assume un significato inedito, che gli stessi cristiani devono comprendere come una realtà nuova. Ma anche la libertà e l’uguaglianza, che in altro modo esistevano in Grecia e a Roma, hanno nel trittico un significato originale, vi sono caratterizzate come libertà fraterna e uguaglianza fraterna; i tre principi, uniti insieme nel Trittico, vivono un dinamismo di rapporti che crea significati inesplorati.

Caino: fraternità e politica

La rivoluzione francese esplicita un processo di secolarizzazione che era già in atto da secoli; esso consiste nella comunicazione alla cultura, alla società, alla politica, di principi e valori, originariamente religiosi, che costituiscono le fondamenta della società umana. Questo processo si presenta nella storia, talvolta, in forme antagonistiche, con aspetti antireligiosi e, più frequentemente, anticlericali. Ma nella sua sostanza, nel suo significato duraturo, esso è la progressiva acquisizione, da parte dell’umanità, dei doni che le religioni portano in sé.

Alla fraternità viene spesso obiettato di essere un principio religioso e, per questo, non adatto a venire utilizzato nella sfera civile e politica. A questa obiezione si risponde facilmente: non solo la fraternità, ma tutti i grandi principi antropologici e relazionali delle diverse civiltà iniziano la loro storia da racconti originari, appartenenti alla sfera religiosa. In molti di questi racconti incontriamo anche alcuni nuclei concettuali, spesso frutto di tradizioni più recenti e culturalmente più evolute, che si inseriscono dentro un patrimonio antico, tramandato, dapprima, oralmente; un caso molto conosciuto, per fare un esempio, è quello dei racconti della creazione dell’uomo e della donna nel libro della Genesi. Queste prime narrazioni religiose danno vita a diverse culture, alle quali trasmettono interpretazioni della fraternità, della libertà, dell’uguaglianza o disuguaglianza degli esseri umani, dell’autorità, della relazione uomo-donna, ecc., che le culture successivamente elaborano e, spesso, arrivano a separare dalla radice religiosa originaria. L’obiezione contro la fraternità dovrebbe essere rivolta, allora, contro tutti gli altri grandi principi della convivenza umana.

Per entrare più profondamente in questo processo, prendiamo il caso di Caino e Abele. Caino, prima della nascita di Abele, è “il” figlio, l’erede, colui che riassume in sé tutta l’umanità del futuro. L’arrivo di Abele non mette in discussione i diritti di primogenitura di Caino, ma opera un cambiamento più profondo: Caino non è più solamente il figlio di Adamo ed Eva, è il fratello di Abele. La sua identità ora è cambiata, è legata all’esistenza di un altro, e Caino non lo accetta: «Non sono il custode di mio fratello»; rifiuta lo shomar, il «custodire», l’avere cura, la responsabilità dell’altro che, per Dio, è l’essenza dell’umano. Quando Dio lo interroga, infatti, chiedendogli “dov’è” suo fratello, gli pone in realtà la domanda sul suo “luogo” interiore: hai dato un posto nel tuo cuore a tuo fratello? Sei andato oltre te stesso e ti sei aperto a lui? Sei diventato grande come Io ti vorrei? La risposta di Caino è un rifiuto radicale della visione di Dio sull’uomo, simile, per la sua violenza, a quella che suo padre Adamo diede quando, addossando a Eva la colpa del peccato, la tolse dalla parità reciproca nella quale Dio li aveva costituiti: così facendo la subordinò creando, nell’intimo stesso dell’umano — l’unità tra l’uomo e la donna —, la prima struttura ingiusta.

Le domande di Dio a Caino ci rivelano chi è l’uomo ai Suoi occhi: è colui che sa rispondere di suo fratello; la fraternità è una struttura antropologica che definisce l’essere umano. Poco importa, allora, se un fratello o una sorella nascono dentro la mia casa, oppure se mi arrivano alla spiaggia su un barcone: essi accadono “dentro” di me. Il modo in cui li accolgo non dice chi sono loro, ma chi sono io.

A quel punto Dio pone un segno su Caino, affinché egli diventi inviolabile e l’eccesso del male che ha compiuto non venga ripetuto da altri. Il «Non uccidere!» nasce per proteggere il fratricida, che ha salva la vita e può ricominciare la sua storia. La Genesi ci rivela, subito dopo, che Caino «divenne costruttore di una città». Notiamo che il testo ebraico usa la parola ’îr, che caratterizza la città propriamente detta, in genere fortificata; la traduzione greca dei Settanta la traduce, infatti, con polis. Nella tradizione biblica, Caino è il fondatore della vita urbana, della vita associata politicamente: la politica viene qui presentata come una seconda possibilità, offerta a colui che ha ucciso il fratello, di vivere la fraternità. La politica è il recupero e lo sviluppo del legame di fraternità, vivendolo non più attraverso un rapporto diretto e immediato (come fratelli di sangue), ma attraverso la mediazione della legge, cioè come cittadini.

Determinazioni formali della fraternità

Quali sono i contenuti della fraternità che emergono da questo racconto, che non parla del passato, ma di noi e di come siamo fatti? La fraternità si presenta anzitutto come un principio di realtà: possiamo scegliere i nostri amici, la sposa o lo sposo, ma non i fratelli e le sorelle: non sono autore della loro esistenza e non ne posso disporre. Essi sussistono accanto a me, uguali in valore umano, dignità e diritti. Ma la fraternità è allo stesso tempo principio di differenza, poiché non esiste un fratello uguale all’altro: l’uguaglianza, tra fratelli e sorelle, consiste nella possibilità di essere, ciascuno e ciascuna, liberi nella propria diversità. La fraternità spiega dunque il modo con il quale l’essere umano è, e con il quale vuole essere considerato: libero e uguale, perché fratello. Il principio di fraternità implica dunque una relazione tra libertà e uguaglianza e dà loro un fondamento e una misura. La fraternità, sotto questi aspetti, è la condizione umana nella sua oggettività, è la condizione umana come noi la riceviamo.

Ma la fraternità richiede anche una componente soggettiva: accetto o non accetto l’esistenza dell’altro essere umano? La fraternità è l’interruttore che accende o spegne la possibilità di dare vita a una comunità, che sia famigliare, economica o politica: è la condizione fondativa della vita associata. Sulla sua base possono poi fiorire tutti gli altri modi di porsi in relazione con gli altri, a seconda delle situazioni e delle necessità: solidarietà, amicizia, misericordia, assistenza, generosità, guida, reciprocità nelle sue varie forme. In questo senso, la fraternità presenta un terzo aspetto in quanto principio, oltre alla realtà e alla differenza: è principio regolatore delle forme che libertà e uguaglianza assumono, in modo che la libertà non diventi la legge del più forte e l’uguaglianza non degeneri in un appiattimento imposto.

Da quanto fin qui detto possiamo concludere, senza la pretesa di offrire una definizione, ma un semplice punto di appoggio al pensiero e al dialogo, che la fraternità può essere considerata una relazione orizzontale tra soggetti liberi ed uguali, i quali riconoscono l’uno all’altro una origine e una appartenenza comuni che precedono ogni regola successiva, e le loro azioni sono tali da riconoscere, rispettare, favorire la differente identità di ciascuno e da ripristinare le condizioni di libertà ed uguaglianza qualora fossero venute meno.

Perché la fraternità scompare?

Oggi ci rendiamo conto di quanto fosse geniale l’intuizione del Trittico, e quanto difficile tenere insieme i tre principi: un’impresa al di sopra delle forze della Rivoluzione dell’89. In quegli anni, la prima a scomparire è la fraternità; la libertà e l’uguaglianza, prive del loro principio regolatore, si separano e si combattono. Nei due secoli successivi vivranno un equilibrio precario, e daranno vita, nel Novecento, a due sistemi politici ed economici radicalmente contrapposti. Invece, là dove riescono a convivere, come nei sistemi democratici con economia sociale di mercato, quali si costituiscono in Europa nella seconda metà del Novecento, i risultati saranno nettamente migliori.

Ma perché la fraternità scompare durante la Grande Rivoluzione? E quali processi si innescano allora, tali da arrivare a escluderla dal dibattito pubblico? Da questa vicenda c’è molto da imparare: cerchiamo di rispondere almeno alla prima domanda, indicando due delle principali cause. Anzitutto, la rivoluzione del 1789 si trasforma rapidamente in guerra civile: sotto il governo del Terrore si impone una cultura del sospetto che rifiuta tutto ciò che somiglia alla fiducia, alla trasparenza, alle condizioni che rendono possibile la fraternità. Il 16 luglio 1794, negli ultimi giorni del regime giacobino, Bertrand Barère e Maximilien Robespierre rinunciano esplicitamente alla fraternità, spiegando che non si può fraternizzare con tutti, ma solo con i «patrioti», cioè con chi la pensa come loro, e che si potrà vivere la fraternità, sottolinea Barère, solo dopo che il popolo sarà stato «epurato», eliminando tutti gli oppositori. Da ciò impariamo che il rifiuto dell’altro, la logica di Caino, può organizzarsi in ideologia.

In secondo luogo, la fraternità, insieme agli altri due principi del Trittico, subisce la grande prova storica che, dall’esterno, rivelerà maggiormente la Rivoluzione francese a se stessa: la sfida lanciata alla Francia dai suoi schiavi nella colonia di Saint-Domingue, l’odierna Haiti. La Rivoluzione non riconosce ai Neri i diritti che aveva proclamato nella Dichiarazione universale del 1789. Ma nell’agosto 1791 gli schiavi si ribellano: il decreto con il quale Parigi, tre anni dopo, riconosce loro la libertà, arriva molto dopo che essi si erano già liberati da soli. Nella stessa estate del 1794, quando Robespierre mette fuori legge la fraternità, l’ex schiavo Toussaint Louverture lancia il suo appello agli schiavi delle piantagioni del Nord, chiedendo loro di unirsi alla lotta di liberazione, chiamandoli «fratelli». La bandiera della fraternità era passata dal Bianco al Nero. Dopo 13 anni di insurrezione e di guerra i Neri di Haiti proclameranno, il primo gennaio 1804, la prima «Repubblica Nera» e la Francia perderà la sua colonia più ricca. E da questo impariamo quanto sia pericoloso non riconoscere i diritti degli altri, anche di coloro che, oggi, sembrano troppo deboli per vendicarsi.

Francesco e la strategia della fraternità

Come si può constatare, la fraternità contiene una profondità e una complessità straordinarie non appena si cerchi di ricavarne un pensiero capace di vincere le sfide che ci troviamo ad affrontare oggi; e contemporaneamente la fraternità vissuta è limpida e semplice, e il viverla è sempre la condizione per riuscire a comprenderla. La fraternità è sempre stata vissuta e lo è anche oggi: non ci sarebbe un pensiero della fraternità se così non fosse. Certamente, però, il recente fiorire di centri di ricerca e di produzione scientifica, l’istituzione di corsi universitari riguardanti i diversi aspetti del principio di fraternità, l’esistenza di soggetti sociali che lo assumono come orizzonte di impegno e cercano di trasformarlo in progetti concreti: questo è realmente un elemento nuovo, solido e in fase crescente.

Certamente la fraternità sorge dal cuore intelligente dell’essere umano, senza distinzioni di culture o di religioni. Dobbiamo prendere atto, però, che la fraternità dev’essere accesa nel cuore umano, alimentata e compresa. E questo è un compito che il cristianesimo si è assunto e che trova, nell’azione e nel pensiero di papa Francesco, una fonte costante, chiara, intelligente. Esiste infatti una specifica «intelligenza fraterna», che si assume proprio il compito che è oggi più importante: superare i conflitti e le divisioni, recuperare ciò che viene scartato o disprezzato, costruire l’unità della famiglia umana.

Se leggiamo il Messaggio che Francesco inviò per la Giornata mondiale della pace il primo gennaio 2014, vi troviamo una vera e propria strategia della fraternità. In un’epoca nella quale prende forza la tendenza di erigere muri e di ritirarsi dentro i propri confini, la visione planetaria di Francesco, coerentemente inserita nella tradizione del pensiero sociale cristiano, spiega le ragioni di una fraternità universale che non è solo sentimento né utopia, ma genera progetti.

Vorrei sottolineare, però, che il riferimento alla fraternità è quotidiano nel pensiero di Francesco e ci rivela la sua anima fraterna, con la quale il popolo cristiano si è messo immediatamente in sintonia, fin dalla sera della sua elezione. La fraternità è una categoria strutturante il suo pensiero, perché profondamente interiorizzata. C’è dunque una singolare affinità tra lo sviluppo del principio di fraternità cui stiamo assistendo nel mondo e l’«oggi» della Chiesa espresso da Francesco.

Tutti ricordiamo che le prime parole che ha rivolto a Roma e al mondo appena eletto, la sera del 13 marzo 2013, sono state: «Fratelli e sorelle». Le ha ripetute congedandosi. Ha parlato di un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia «fra noi»; e ha pregato perché «una grande fratellanza» ci sia in tutto il mondo.

Il 15 marzo, due giorni dopo l’elezione, nell’udienza con i cardinali ricorda «l’intensa comunione ecclesiale», vissuta durante le riunioni preparatorie e il conclave, come un’esperienza di condivisione fraterna caratterizzata dalla conoscenza e dalla mutua apertura che, egli sottolinea, «ci hanno facilitato la docilità all’azione dello Spirito». E descrive l’azione dello Spirito in una chiave tipicamente fraterna; la fraternità, infatti, quale la sperimentiamo nella vita quotidiana, è la convivenza, in uguale dignità, di fratelli che si accettano nelle loro diversità: «Il Paraclito fa tutte le differenze nelle Chiese, e sembra che sia un apostolo di Babele. Ma dall’altra parte, è Colui che fa l’unità di queste differenze, non nella “ugualità”, ma nell’armonia. Io ricordo quel Padre della Chiesa che lo definiva così: Ipse harmonia est. Il Paraclito che dà a ciascuno di noi carismi diversi, ci unisce in questa comunità di Chiesa, che adora il Padre, il Figlio e Lui, lo Spirito Santo». La fraternità, che si intreccia così spontaneamente con la relazione trinitaria dalla quale scaturisce, non è dunque un mero sentimento, ma una logica delle relazioni: forma l’ambiente umano nel quale si può accogliere lo Spirito e discernere il bene.

Pochi giorni dopo, un’altra tappa essenziale: la Messa per l’inizio del ministero petrino. Essa cade il 19 marzo, solennità di san Giuseppe e papa Francesco coglie l’occasione per interpretare il potere conferito a Pietro, e al Vescovo di Roma suo Successore, alla luce di quanto operato da san Giuseppe: «Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità (...) La vocazione del custodire, però — spiega Francesco —, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti». La “custodia” così descritta, come vocazione universale umana, è proprio la fraternità espressa nei suoi contenuti, quella che Caino rifiutò.

Come si vede, nella prospettiva di Francesco la fraternità è radicata nell’Amore Trinitario, dunque è espressione della specificità cristiana; e allo stesso tempo è espressione dell’umano. Il cristiano e l’umano, una formidabile alleanza: saprà ricomporre e realizzare il progetto del Trittico, che la Rivoluzione francese annunciò e distrusse?

di Antonio Maria Baggio

martedì 15 gennaio 2019

L'Osservatore Romano: Misericordia non sacrificio

L’amore che Dio dà all’uomo per salvarlo


È un «piccolo trattato sulla divina e sulla umana misericordia» il volume Il volto della misericordia (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2018, pagine 187, euro 9,90) scritto dal predicatore della Casa pontificia. Il libro è dedicato a Papa Francesco «che ha messo la misericordia al centro della vita e della riflessione della Chiesa». Pubblichiamo il capitolo dedicato alla conversione di Matteo.

C’è qualcosa di commovente nella chiamata di Matteo il pubblicano (Matteo, 9, 9-13). È una pagina autobiografica, la storia dell’incontro con Cristo che cambiò la sua vita. «Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì». Il Caravaggio ci ha lasciato una tela famosa su questa scena. Il futuro apostolo è seduto a un tavolo. Sopra di esso, oltre alle monete, ci sono penna e calamaio (gli serviranno un giorno per un altro scopo). Una luce parte dal volto di Cristo, segue il movimento della sua mano e cade, illuminandoli, sui volti di Matteo e degli altri che sono seduti con lui al tavolo delle imposte. Un modo suggestivo per dire che la chiamata esteriore è accompagnata da una luce interiore. Senza questa, del resto, non si spiegherebbe la prontezza con cui Matteo “si alza”, lascia tutto e segue Cristo, senza bisogno di spiegazione alcuna.


Il dialogo invisibile tra Cristo e il futuro apostolo è tutto affidato al gesto delle rispettive mani. Quella di Cristo, in piedi, si protende in direzione di Matteo, in segno però più di elezione che di comando (nessun indice puntato verso Matteo, ma solo una mano tesa). A questo gesto corrisponde quello di Matteo che si porta la mano al petto, come chi si stupisce della scelta e dice: «Io? Sei sicuro che vuoi proprio me?».

Di fronte al rifiuto del giovane ricco di seguirlo, Gesù aveva osservato con tristezza che «è più facile che un cammello entri per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli». Agli apostoli che gli chiedono: «E chi potrà salvarsi allora?», egli rispose: «Impossibile agli uomini, non a Dio» (Matteo, 19, 24-26). La chiamata di Matteo è la riprova che a Dio è possibile salvare anche un ricco. Il confronto con l’invito rivolto al giovane ricco ci dice qualcosa anche di Matteo, della sua apertura a Dio. Non era affatto scontato che Matteo rispondesse con tanta prontezza alla proposta di Gesù. All’invito di Gesù: «Vieni e seguimi», il giovane ricco «se ne andò triste»; Matteo «si alzò e lo seguì».

Il comportamento di Matteo ha dell’inverosimile. Possiamo immaginarcelo seduto, intento a riscuotere i dazi, a contemplare rapito le monete che i commercianti depongono sul tavolo. È al massimo dell’euforia, quando tutto ciò che fino a quel momento ha dato senso alla sua vita perde valore. Matteo si alza, abbandona ogni cosa e segue Gesù. Non ha assistito ad alcun miracolo; siamo quasi agli inizi del ministero pubblico di Gesù ed egli non è ancora famoso: come si spiega tanta prontezza? Caravaggio ha colto nel segno: lo sguardo di Gesù. Le traduzioni dicono: «lo vide», ma forse meglio sarebbe tradurre «lo guardò». Il Venerabile Beda dice che lo guardò «con sguardo di misericordia e di elezione», miserando et eligendo: le parole che Papa Francesco ha scelto come motto del suo stemma papale.

L’episodio della chiamata di Matteo non è ricordato principalmente per l’importanza personale che rivestiva per l’autore del Vangelo, tanto è vero che anche Marco e Luca lo riferiscono, chiamando Matteo con il suo secondo nome di Levi (cfr. Marco, 2, 14; Luca, 5, 27). L’interesse è dovuto alla frase che Gesù pronunciò nel corso del «grande banchetto» che Matteo offrì «nella sua casa», prima di congedarsi dai suoi ex colleghi di lavoro, «pubblicani e peccatori». Come spesso, un episodio evangelico è tramandato grazie a un logion di Gesù legato a esso. Il fatto serve da cornice al detto. Alla reazione scandalizzata dei farisei per essere entrato in casa di un pubblicano e aver mangiato con i peccatori, Gesù risponde: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Noi siamo talmente assuefatti alle parole del Vangelo che le troviamo scontate e naturali, anche quando esse sono obbiettivamente “scandalose” e dovrebbero almeno suscitarci degli interrogativi. Dio preferirebbe i peccatori ai giusti? Allora a che scopo la Legge e i comandamenti? Sono proprio le domande inquietanti che ci conducono a scoprire, a volte, le risposte liberanti del Vangelo. La spiegazione della frase di Cristo è semplice. Gesù non è venuto a chiamare i giusti (come se esistessero giusti prima di lui e senza di lui), ma è venuto a fare i giusti. Scrive l’apostolo nella lettera ai Romani: «Non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue» (Romani, 3, 22-25).

Gesù non nega che esistesse prima di lui una certa giustizia, «la giustizia che deriva dall’osservanza della legge» (cfr. Filippesi, 3, 6); riconosce volentieri tale giustizia nei farisei, che continua, perciò, a chiamare, senza ironia, “i giusti”. Solo cerca di spiegare loro che questa giustizia non basta a salvare perché non può dare la vita. Doveva servire solo a fare «desiderare la grazia» e riconoscerla al momento della sua venuta. Fallito questo scopo, si trasforma in pseudo-giustizia, in giustizia che perde, anziché salvare. Fu il dramma degli oppositori di Cristo; di essi l’apostolo dice mestamente che «ignorando la giustizia di Dio, cercano di stabilire la propria» (Romani, 10, 3). Tutto questo lo vediamo già nella vita di Matteo. L’incontro con Cristo, da «pubblicano e peccatore» lo ha reso «giusto» e rendendolo giusto ha fatto di lui una persona nuova, un apostolo di Cristo. Se fosse rimasto un esattore delle tasse, Caravaggio (per nominare la più piccola delle sue glorie) non si sarebbe interessato di lui, il mondo non saprebbe neppure che è esistito un certo Matteo detto anche Levi.

Ci resta da chiarire un punto oscuro. Alla luce di quello che abbiamo detto, che significa la frase di Osea, ripresa da Cristo: «Voglio l’amore e non il sacrificio»? Forse che è inutile ogni sacrificio e mortificazione e che basta amare perché tutto sia a posto? Non manca chi interpreta proprio così e lo insegna agli altri. Di questo passo si può arrivare a rigettare tutto l’aspetto ascetico del cristianesimo, come residuo di una mentalità afflittiva o manichea, oggi superata.

Di nuovo, una domanda inquietante diventa occasione di una scoperta illuminante. Anzitutto c’è da notare un profondo cambiamento di prospettiva nel passaggio da Osea a Cristo. In Osea, il detto si riferisce all’uomo e a ciò che Dio vuole da lui. Dio vuole dall’uomo amore e conoscenza, non sacrifici esteriori e olocausti di animali. Sulla bocca di Gesù, il detto si riferisce invece a Dio. L’amore di cui si parla non è quello che Dio esige dall’uomo, ma quello che dà all’uomo. «Misericordia io voglio e non sacrificio», vuol dire: voglio usare misericordia, non condannare. Il suo equivalente biblico è la parola che si legge in Ezechiele: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva» (33, 11). Dio non vuole “sacrificare” la sua creatura, ma salvarla.

Con questa precisazione, si capisce meglio anche il detto di Osea. Dio non vuole il sacrificio “a tutti i costi”, come se si dilettasse nel vederci soffrire; non vuole neppure il sacrificio fatto per accampare diritti e meriti davanti a lui, o per malinteso senso del dovere. Vuole però il sacrificio che è richiesto dal suo amore e dall’osservanza dei comandamenti. «Non si vive in amore senza dolore», dice la Imitazione di Cristo (III, 5) e la stessa esperienza quotidiana lo conferma. Non c’è amore senza sacrificio. In questo senso, Paolo ci esorta a fare dell’intera nostra vita «un sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Romani, 12, 1).

Sacrificio e misericordia sono entrambi cose buone, ma possono diventare l’uno e l’altra cose cattive, se mal ripartite. Sono cose buone, se (come ha fatto Cristo) si sceglie il sacrificio per sé e la misericordia per gli altri; diventano tutte e due cose cattive se si fa il contrario e si sceglie la misericordia per sé e il sacrificio per gli altri. Se si è indulgenti con se stessi e rigorosi con gli altri, pronti sempre a scusare noi stessi e spietati nel giudicare gli altri. Non abbiamo proprio nulla da rivedere, a questo riguardo, della nostra condotta?

Non possiamo concludere il commento della chiamata di Matteo senza dedicare un pensiero affettuoso riconoscente a questo evangelista che ci accompagna così spesso, con il suo Vangelo, nel corso dell’anno liturgico. Lo facciamo con alcuni versi a lui dedicati da Paul Claudel (il poeta dice di preferire per Matteo il simbolo del bue, anziché quello più tradizionale dell’uomo o dell’angelo): «È Matteo, il pubblicano, che ebbe per primo l’idea, conoscendo la forza di uno scritto, di fissare in nero sulla carta Gesù, ciò che esattamente aveva detto e i loro occhi avevano contemplato. Per questo, riprendendo lo strumento che serviva un tempo ai suoi calcoli, coscienzioso, sereno, imperturbabile come un bue, comincia ad arare il suo gran campo di carta bianca. Traccia un solco, torna a capo, ne inizia un altro, così che nulla sia omesso di quello che la memoria gli offre e il santo Spirito gli detta. Non per il suo tempo solamente, ma per tutta la Chiesa che verrà».

di Raniero Cantalamessa

lunedì 14 gennaio 2019

Enzo Bianchi "Siamo gli ultimi cristiani?"

Jesus - Bisaccia del mendicante - Gennaio 2019
di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose

Jean-Marie Tillard, grande teologo dal soffio ecumenico, e per me maestro e amico, negli ultimi anni di vita domandava spesso: “Siamo gli ultimi cristiani?”.
Era un discepolo di Gesù, non colto da pessimismo o da amarezza, ma quella domanda gli sorgeva spontanea; ed era spinto a porla e a porsela non dalle statistiche che rivelavano la diminuzione del numero dei cristiani nel nostro occidente, ma constatando il venir meno della passione, della convinzione da parte di molti battezzati che pur continuavano a dirsi cristiani e magari confessavano un’appartenenza alla chiesa.

Ormai anziano, sono anch’io tentato di pormi questa domanda, e per l’evidenza delle stesse ragioni. Raramente, infatti, trovo cristiani che nutrono una passione per Gesù Cristo, per il Vangelo, e sono davvero convinti non solo che Gesù possa essere una risposta alle loro domande di senso della vita, ma sia la loro vita, il loro futuro. È vero, oggi si può constatare tra i cristiani una ricerca di vita spirituale o interiore molto intensa, forse più intensa di ieri. Ma sovente si tratta di una spiritualità che si nutre di una certa credenza in Dio, di una ricerca di benessere interiore, e attende non il Regno che viene, non Gesù Cristo, ma un insegnamento etico per vivere meglio, una didascalia antropologica che consenta di trovare pace, armonia in sé e con gli altri.

Così il messaggio di Gesù è svuotato e ridotto a una spiritualità raffinata ma senza la grazia, a una via di auto-salvezza. Chi cita ancora la parola di Gesù: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà” (Mc 8,35)? Proprio per questo viene a mancare la passione, che è un’esperienza più che un sentimento, un’esperienza in grado di destare vita nella nostra vita. Se c’è questa passione, allora ci sarà anche la gioia di essere cristiani, di poter vivere insieme a Gesù Cristo, di poterci sentire fratelli e sorelle nella comunità dei discepoli del Signore.

L’esperienza cristiana è molto più del vivere una spiritualità che, come vita interiore, tutti gli esseri umani possono fare. Sono numerosi oggi quelli che sembrano abbagliati dall’attenzione di molti battezzati alla “spiritualità”; ma se poi si indaga a fondo, si scopre che costoro non sono impegnati in una “vita spirituale”, cioè animata dallo Spirito santo, dunque vita in Cristo, ma piuttosto in cammini di interiorità scaturiti dalle diverse sapienze umane. Purtroppo anche tanti autori, vere star della spiritualità che si dicono cattolici, in realtà insegnano solo un’etica terapeutica. La fede cristiana non può essere ridotta a una via per “diventare personalmente migliori”, ma deve restare una comunicazione di vita, una grazia che giustifica l’esistenza di ciascuno e la rende gioiosa. La gioia del Vangelo è gioia della fede!

Benedetto XVI ha ricordato con forza che “all’inizio dell'essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì un evento, l’incontro con una persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò un orientamento definitivo” (Enciclica Deus caritas est 1, 25 dicembre 2005). Nell’incontro con Gesù Cristo si è generati come amanti, come persona la cui passione è veramente amare più lui che il padre, la madre e persino la propria vita (cf. Lc 14,26; Mt 10,37), è veramente conoscere la profondità e l’ampiezza dell’amore. E si faccia attenzione: non mi riferisco a un amore mistico, semplicemente di desiderio, ma all’amore che conosce la gratuità dell’amore di Dio, sempre preveniente e mai da meritarsi.

Allora pregare è una festa, celebrare la liturgia è una festa, leggere le scritture ascoltando la parola è una festa, una beatitudine. Siamo dunque gli ultimi cristiani? Dobbiamo rassegnarci a vivere in comunità dove manca il fuoco, quel fuoco che Gesù volle portare sulla terra e desiderò tanto vedere ardere (cf. Lc 12,49)? Siamo stati incapaci di trasmettere quella passione che rende la fede contagiosa? A volte mi dico che la durezza di cuore è meglio della tiepidezza… In ogni caso, credo che queste domande e soprattutto questa ricerca di un’intensa passione per Cristo non possano essere evase o tralasciate con sufficienza.

giovedì 10 gennaio 2019

ANSELM GRÜN – Battesimo di Cristo come metafora

«Un tentativo di rendermi conto dell’amore di Dio è stato per me la meditazione sul battesimo di Gesù (Lc 3,21s.). Gesù si cala nel Giordano, nell’acqua che è carica della colpa dei molti che si sono fatti battezzare nel fiume da Giovanni. Mentre entra in acqua, il cielo si apre sopra di lui. E Dio gli dice: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».

Nella meditazione ho sperimentato la realtà di questo amore quando ho sovrapposto consapevolmente la frase «Tu se il mio figlio prediletto» alla paura, all’oscurità, al fallimento, alla mediocrità, alla menzogna esistenziale in me. Ho tentato di calarmi nell’acqua del mio inconscio, nel regno delle tenebre in cui ho rimosso tutto quanto fugge alla luce del sole, ciò che non mi va di guardare alla luce del giorno. Per me è una bella immagine del battesimo di Gesù il fatto che il cielo sopra di lui si sia aperto proprio quando egli si è calato nelle profondità del Giordano. Il cielo vuole aprirsi anche sugli abissi della mia anima. Ma devo avere il coraggio di calarmi in tali abissi, per percepire là in fondo, con un suono nuovo, le parole: «Tu sei il mio figlio prediletto»; «Tu sei la mia figlia prediletta». Solo quando ho sovrapposto alla mia esistenza concreta la frase secondo cui sono il figlio prediletto, essa mi ha toccato nell’intimo, donandomi la pace interiore. Ogni parlare che si fa dell’amore di Dio ci lascia indifferenti se non giunge alle esperienze della nostra vita quotidiana.

Gesù si cala nei flutti della colpa, nell’inconscio, nella pulsionalità, negli elementi della terra, come lo rappresentano sempre le icone. Calandosi in essi, prega tanto intensamente che il cielo si apre sopra di lui, che quanto è essenziale prorompe e la luce di Dio risplende sopra di lui. È un profondo desiderio anche mio quello di saper pregare in modo tale che il cielo si apra sopra di me, che l’amore di Dio rifulga nel profondo del mio inconscio, negli abissi della mia colpa. E anelo a saper pregare anche per gli altri, in modo tale che il cielo si apra sopra di loro. Pregare significa aprire il cielo sopra le persone, in modo che sia loro consentito di sentire il rapporto con Dio come la loro unica salvezza.

Gesù sente dal cielo aperto la voce di Dio che è rivolta a lui: «Tu sei il figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11). Questo è anche il mio anelito più profondo, l’essere il figlio prediletto di Dio, non essere rispettato, ammirato e amato solo dagli esseri umani, bensì da Dio, la causa prima di ogni esistenza, il creatore del mondo».

A. GRÜN, Apri il tuo cuore all’amore, Queriniana, Brescia, 2005, 20-23

mercoledì 9 gennaio 2019

Il Regno: MORALIA DIALOGHI Accogliere: spunti per un’ospitalità reciproca, ecclesiale e teologica

Gioacchino Campese , 08/01/2018




Il costante e insistente appello di papa Francesco ad accogliere migranti e rifugiati rivolto alla società e soprattutto alla Chiesa (parrocchie, comunità religiose, monasteri, santuari…) avviene in un momento in cui la paura sembra si stia affermando come il sentimento dominante nei confronti di queste persone in Europa, come dimostrato dalle più recenti ricerche e sondaggi condotte in tutto il continente, Italia compresa. Ricorrendo al linguaggio della teologa Susanna Snyder, pare che in questa particolare congiuntura storica l’ecologia della paura abbia il sopravvento sull’ecologia della fede.

Un’“ecologia” della paura?
La paura è certamente comprensibile in un periodo di trasformazione demografica, sociale, culturale, economica e religiosa come quello attuale e siamo certamente chiamati a coglierne le origini e motivazioni che, a dire il vero, non sempre sono supportate dai fatti. Quest’ultimo elemento conta fino a un certo punto perché ci accorgiamo sempre di più nelle nostre conversazioni quotidiane e dibattiti pubblici che le percezioni e le emozioni nei confronti di alcune categorie di migranti sono più forti dei fatti. Questa consapevolezza deve orientare la nostra riflessione pastorale e teologica sul tema.

Bisogna anche aggiungere che alle volte la paura diventa un “sentimento di convenienza”, una buona scusa per chiudere gli occhi di fronte alla realtà, per nascondere egoismi personali e collettivi ed evitare di affrontare con determinazione e serietà le cause e conseguenze dei cambiamenti che stanno avvenendo nelle nostre società e soprattutto ricercare e individuare le nostre complicità rispetto a situazioni delle quali noi stessi siamo responsabili, almeno parzialmente. In questo contesto anche la stessa identità cristiana viene spesso usata per alimentare l’ecologia della paura specialmente da persone che si ergono a paladini di un cristianesimo di facciata che ha poco a che fare con la radicalità esigente e mite del Vangelo. La domanda da porsi in questo caso è: ma accogliere non è parte integrale dell’identità di chi si proclama discepolo di Gesù Cristo? 

Un’“ecologia” della fiducia e della fede
Il messaggio di papa Francesco ci aiuta non solo a ritrovare la centralità dell’accoglienza nella vita cristiana, ma anche a intenderla come l’inizio di un processo integrale che comprende passaggi altrettanto fondamentali come proteggere, promuovere ed integrare. Questo vuol dire che l’accoglienza o l’ospitalità non è scollegata dagli altri tre elementi, ma è parte costitutiva di un percorso che deve portare la persona a partecipare pienamente alla vita della società e della Chiesa e a dare il proprio contributo alla creazione di una comunità aperta, inclusiva e giusta. In altre parole, se non si capisce che l’ospitalità deve essere orientata all’integrazione della persona in una comunità, si rischia di continuare con una pratica dell’accoglienza che si svolge ai margini della società e quindi è destinata a creare persone marginali e ad alimentare la cultura dello scarto denunciata sia da intellettuali come Zygmunt Bauman che dallo stesso papa Francesco.

L’altro rischio è quello di limitarsi ad una “prima accoglienza”, cioè ad una accoglienza “ad orologeria”, a “breve scadenza” che pensa e spera di aver risolto la “questione migranti” e delle società che li ospitano in pochi mesi, senza aver avviato un impegnativo processo di conoscenza e comprensione reciproca che deve condurre ad una convivenza armoniosa ed arricchente, un percorso che richiede tempo, pazienza, e dedizione; un percorso spesso faticoso costellato di successi, ma anche di criticità e fallimenti. Non dimentichiamo che l’accoglienza è sempre un incontro tra sconosciuti che devono imparare a conoscersi, a comprendersi e a convivere e quindi include l’esperienza di ospitare ed essere ospitati. Questa reciprocità ci permette di non ridurre l’ospitalità alla pretesa di aiutare e risolvere problemi degli altri da una posizione di superiorità, ma la converte nell’atteggiamento di chi entra in punta di piedi nel mondo dell’altro, con l’intenzione di non condividere principalmente la propria ricchezza materiale, ma soprattutto quella umana e spirituale, di rendere la persona partecipe della propria vita con le sue gioie e dolori.

Migrazioni e cattolicità: una prospettiva ecclesiale
Da una prospettiva ecclesiale l’attuale spostamento dell’asse del cristianesimo verso il Sud globale diventa il contesto nel quale siamo chiamati a interpretare l’accoglienza. La stessa elezione del card. Jorge Mario Bergoglio, argentino e figlio di emigranti italiani, a vescovo di Roma può essere letta come il simbolo di un cristianesimo sempre meno occidentale e sempre più globale e influenzato nella storia passata e recente da importanti flussi migratori. Non bisogna andare lontano per osservare le conseguenze di questa trasformazione, che si fa ancora fatica ad accettare anche in campo teologico: il sociologo Enzo Pace ci fa osservare che la vera novità in un paese di secolare tradizione cattolica come l’Italia non è tanto la presenza significativa dell’islam, ma la realtà oramai affermata di un cristianesimo plurale che spesso rimane invisibile alla maggior parte delle persone, credenti o non.

In questo contesto l’ospitalità diventa un canale privilegiato per la cattolicità e l’ecumenismo: l’accoglienza del cristiano di cultura, rito e tradizione diversa ci porta a divenire sempre più consapevoli della qualità della chiesa che ci insegna che siamo una piccola parte di un tutto caratterizzato allo stesso tempo da una straordinaria diversità e una radicale tensione verso l’unità nella Trinità. Nell’era del cristianesimo globale l’accoglienza ci conduce a diventare cristiani mondiali, membri di «un popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale» (EG 111).

L’ospitalità: un tempo e un luogo opportuno per conoscere Dio
L’episodio di Abramo che accoglie i tre pellegrini presso le querce di Mamre (cf. Gn 18, 1-15), il passaggio in cui Gesù chiede l’ospitalità di Zaccheo (cf. Lc 19, 1-10) e l’incontro di Gesù con la donna cananea che chiede insistentemente di essere ascoltata (cf. Mt 15, 21-28) sono tre esempi biblici in cui le esperienze di accogliere ed essere accolti si confondono e completano e in questo processo qualcosa di molto più importante avviene: la Buona Notizia irrompe inattesa e diventa realtà nell’annuncio della nascita del figlio di Abramo e Sara e nella conversione di Zaccheo e dello stesso Gesù.

L’ospitalità, quindi, non deve essere considerata solo come una virtù cristiana e politica, ma il tempo (kairos) e lo spazio dove, superata la paura e mancanza di conoscenza dell’altro, Dio si rivela inaspettatamente trasformando la vita delle persone. L’accoglienza diventa, quindi, un locus theologicus, il luogo in cui accogliendoci reciprocamente accogliamo in realtà Dio e i suoi angeli, anche senza rendercene conto (cf. Eb 13, 2).