Il 1° maggio in tempo di pandemia ha un sapore amaro. Niente sarà come prima, a dispetto del refrain che ci siamo ripetuti molte volte in questi giorni: «Andrà tutto bene». Sappiamo che molte cose sono andate storte. La crisi che sta attraversando il mondo invita a uno sguardo evangelico sulla realtà, pone molteplici interrogativi e fa intuire nuove strade da percorrere.
Per prima cosa, vale la pena fermarsi. Un momento di silenzio è dovuto ai lavoratori che in questi mesi hanno perso la vita a causa del covid-19. Alcuni sono morti persino per la mancanza di dispositivi di protezione adeguati: sono medici, infermieri, operatori sanitari, addetti alle pulizie, cassieri, negozianti, operai, trasportatori, volontari... A loro giunga la nostra preghiera e tanta riconoscenza. È vivo anche il ricordo delle vittime sul lavoro nelle più svariate modalità e situazioni. Il loro sacrificio trasmette un senso di responsabilità perché la sicurezza dei luoghi di lavoro diventi scelta condivisa.
Il volto della crisi
Il lavoro è sottoposto a stress. Tanto più in tempo di pandemia. C’è chi ha lavorato troppo e chi per niente. Gli orari del personale sanitario o dei servizi cosiddetti «essenziali» sono senza precedenti e rasentano l’assurdo. L’immagine dell’infermiera di Cremona crollata sulla tastiera del pc ha fatto il giro del mondo. Si pensi, però, alle categorie dimenticate: molti marittimi impegnati per trasportare merci nei container non hanno avuto ricambi: in più porti c’è stato il divieto di cambio equipaggio. Lavori senza sosta. Come quelli relativi ai beni vitali o alla logistica.
L’altra faccia della medaglia è l’assenza di lavoro: la disoccupazione, le forme di cassa integrazione e l’affidamento al lavoro nero. L’eredità dell’emergenza sanitaria ha messo in quarantena interi settori produttivi: ci sono 3 milioni di impoveriti solo in Italia, sono aumentati gli indebitati incapaci di far fronte agli investimenti progettati e cresce il numero degli indigenti. Questi mondi si possono racchiudere sotto l’ombrello di un unico termine: povertà. C’è chi sa che non avrà più il posto di lavoro, c’è chi è rimasto senza stipendio e c’è chi non conosce le prospettive per il futuro, visto che rischia la morte economica a causa di debiti per la casa o per l’impresa. Non se la passano bene pure i 900 mila lavoratori irregolari impiegati in settori strategici come l’agricoltura o la cura delle persone (badanti) che non vedono riconosciuti i loro diritti più elementari. La regolarizzazione è la precondizione perché non finiscano in giri mafiosi o sotto forme di sfruttamento indegno (caporalato). Alcuni settori sono entrati in crisi dal primo giorno di chiusura totale: il turismo, la filiera agroalimentare, le cooperative sociali ed educative, l’edilizia, il mondo della cultura, le piccole e medie imprese, le partite iva, i settori dell’abbigliamento e dell’auto, i lavoratori stagionali... Tutti sono a rischio. Il settore florovivaistico è in ginocchio, la pesca è in difficoltà, la trasformazione del latte ha subito perdite notevoli. Ci sono aziende senza liquidità o con una liquidità che consente solo di navigare a vista.
Il quadro è desolante. Impossibile chiudere gli occhi. Questa crisi non segue un periodo pacifico. Veniamo da anni in cui si sono accresciute le ingiustizie sociali in un mondo che si è davvero globalizzato: molti beni sono in mano a pochi privilegiati e poche possibilità di riscatto sono in eterna competizione per la maggioranza delle persone. Si chiama «ineguaglianza». Circolava liberamente già prima del virus e la crisi odierna ha acuito la sua pericolosità sociale. Genera scarti umani. Molte persone rischiano di essere buttate fuori da un sistema economico che somiglia molto a una giostra che viaggia ad alta velocità per il divertimento di pochi. Chi non regge, viene sbalzato fuori. La prima cosa da fare è vedere questi nuovi poveri. L’impoverimento cova paura, angoscia e rivalsa.
Tempo di discernimento
La tempesta smaschera le contraddizioni delle nostre scelte economiche ed ecologiche. Una delle scene più impattanti di questo periodo è la preghiera del Papa in piazza san Pietro deserta e bagnata. La data è stampata in memoria visiva: venerdì 27 marzo 2020. La sua preghiera non è stata meno efficace. Ha usato l’immagine della velocità: «In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato». Dunque, la realtà parla: si tratta di ascoltare il grido dei poveri e quello del creato, come ricorda Laudato si’ 49.
La sosta forzata ci ha messo nelle condizioni di fare discernimento. Cosa c’è che non va? E quale direzione intraprendere per non finire nello stesso burrone? La crisi ha evidenziato una capacità di resilienza che è preziosa. C’è chi ha potuto lavorare grazie alla tecnologia. Smart working e didattica on line hanno consentito di non chiudere del tutto. È una possibilità concreta anche per affrontare alcuni problemi che ci trasciniamo da tempo: la conciliazione dei tempi familiari con quelli del lavoro e l’inquinamento delle città esposte al traffico ordinario.
La resilienza va accompagnata con il coraggio della conversione. Ci siamo resi conto che mantenere investimenti nella produzione e nel commercio delle armi per sottrarli sistematicamente alla sanità è semplicemente folle. Perseverare in spese militari così imponenti è struttura di peccato. Si parla di 2 mila miliardi di dollari all’anno destinati all’industria della guerra. Continueremo su questa strada? La crisi è sistemica e chiama in causa la giustizia sociale. Ormai è chiaro a tutti che un’economia fondata su un sistema sanitario fragile non regge. Anche chi ha provato a difendere l’idea dell’«immunità di gregge», per tutelare gli affari (business is business), ha dovuto fare marcia indietro. Subito. Si è rivelato lupo travestito da pecora: a che pro sacrificare i più fragili di una società illudendosi di mettere al sicuro gli interessi dei più forti? Il darwinismo sociale si è dimostrato un clamoroso autogol, ma ha sempre la fila di tifosi disposti a sostenerlo.
Il discernimento si potrebbe allargare a più fronti. Per esempio, perché non mettere in discussione le università a numero chiuso su alcuni settori strategici della società (medicina...)? E perché ignorare che in questa pandemia se qualcosa del tessuto sociale è rimasto in piedi al servizio dei più deboli (disabili, senza fissa dimora, anziani soli, malati psichiatrici...) lo si deve all’intraprendenza del tanto bistrattato Terzo settore? E poi, quanto dobbiamo al volontariato in termini di cura alle persone? Inoltre, perché illudersi che un Paese possa farcela da solo, quando abbiamo assistito al generoso soccorso del personale sanitario cinese, albanese, cubano, russo, americano... nelle nostre città? Faremo ancora il verso a una società «ribaltata», dove i personaggi dello sport e della televisione sono strapagati, mentre un infermiere professionale riceve qualche applauso solo in tempo di pandemia? Riapriremo come se nulla fosse il gioco d’azzardo, vera epidemia sociale?
Le domande potrebbero continuare. Molti temi si affacciano all’attento osservatore dei fenomeni sociali. C’è un tema che non ci esime dal discernimento ed è il legame tra questa crisi e quella ecologica. Le intersezioni sono notevoli. È in gioco il rapporto tra l’uomo e le altre specie viventi, soprattutto animali. L’inquinamento atmosferico ha il suo peso sull’aggravarsi di situazioni come quella causata dal covid-19. L’esposizione prolungata dei polmoni umani al particolato li rende più sottoponibili a forme croniche di infiammazioni. Si è osservata una correlazione significativa tra il livello di polveri sottili e le ospedalizzazioni d’emergenza per polmoniti bilaterali. Gli stessi cambiamenti climatici potrebbero esporci in modo più frequente a simili crisi sanitarie: questo fatto dovrebbe preoccupare molto di più della data di riapertura delle attività o di scoperta e distribuzione del nuovo vaccino.
Se le cose stanno così, quale direzione?
Benedetta inclusione
«Costruire un’economia diversa non solo è possibile, ma è l’unica via che abbiamo per salvarci e per essere all’altezza del nostro compito nel mondo»: scrivono i vescovi italiani nel loro Messaggio in occasione del 1° maggio. Le forme di esclusione sociale rivelano alla radice una mancanza di fraternità. Il problema è etico. Nessun «elicottero di denaro» versato sui nostri conti correnti e nessuna iniezione di liquidità nelle casse delle imprese possono essere risolutivi senza un rinnovamento dei rapporti sociali. C’è bisogno di inclusione. Di riabbracciare le situazioni più dimenticate e più fragili. Serve il coraggio di aprire nuovi spazi che consentano forme di ospitalità e di solidarietà reciproca. Il messaggio che dovrebbe arrivare alla pelle di ogni persona è che c’è posto per tutti. Nessuno deve perdere il lavoro, che è innanzi tutto uno dei luoghi che rivelano la dignità umana e non rappresenta mai semplicemente una fonte di guadagno. Si può giustamente invocare un nuovo patto sociale. Per fare questo non occorre limitarsi a guardare i problemi solo da un punto di vista tecnico. Gli economisti sono importanti, ma non intercettano le questioni se pensano che il sociale lo si rinnovi immettendo o togliendo risorse monetarie, favorendo investimenti e intervenendo sul mercato finanziario. Perché non uscire dall’equivoco? Quando si invoca «più Europa» significa «più soldi europei» per i singoli Paesi o «più solidarietà» tra gli Stati per cui la sofferenza di uno li rende tutti coinvolti? Se è il secondo caso, ciò comporta che il mettere mano al portafoglio sarà una conseguenza inevitabile di una diversa convivenza tra i popoli.
Lo sguardo dovrebbe andare alle relazioni sociali, alla capacità di tenere insieme un tessuto relazionale che è patrimonio indispensabile per uscire da qualsiasi crisi. È la tenuta morale di un Paese che costituisce la condizione di possibilità per una buona economia, per una seria ecologia e per una virtuosa vita sociale. In pochi, però, stanno lavorando su questo fronte. Diciamolo: una politica in perenne caccia di capri espiatori per salvare se stessa non aiuta. Un dibattito pubblico appiattito sui miliardi da far arrivare, sull’indebitamento che ci possiamo permettere e sui livelli di pil in concorrenza, non è sufficiente. Servono costruttori di legami a tutti i livelli, politico, economico, sociale. La controprova la vediamo su due temi sempre presenti, come due bestie capaci di succhiare il sangue buono che scorre nelle vene del Paese: la corruzione e l’evasione fiscale. La crisi potrebbe essere di nuovo una fiorente attività affaristica per le mafie. La corruzione distrugge le coscienze. Le compra e alimenta il senso di impotenza. L’evasione fiscale, che in Italia raggiunge i 110 miliardi di euro l’anno, si sostiene sul principio che il più scaltro si salva. In realtà, si tolgono risorse al bene comune, che si chiamano famiglie, poveri, disoccupati, scuole, sanità, piccole e medie imprese, lavoratori precari... Un nuovo patto sociale chiede scelte condivise. Riusciremo a percorrerle insieme? Avremo il coraggio di regalarci stili di vita e tempi più umani? Saremo capaci di vera solidarietà che guarda ai precari, ai disoccupati, ai giovani e agli ultimi come i primi destinatari di una nuova attenzione? Custodiremo la nostra fragilità abbandonando quel senso di onnipotenza che talora ci sovrasta e ci schiaccia? Le domande restano, ma intuiamo che questo è il livello. Si può ripartire se c’è un nuovo progetto di cura per la vita sociale e per la casa comune. Torniamo a respirare aria di cittadinanza attiva in presenza di una comunità solidale e di una rinnovata responsabilità ecologica.
Ogni costruzione sta in piedi se ha fondamenta solide. Così ogni ricostruzione. La nuova stagione sarà post-crisi. Ossia tempo di giudizio di fronte al bivio delle due «i»: ineguaglianza o inclusione?
di Bruno Bignami