in “l'Espresso” del 15 settembre 2019
Mi ha molto divertito ricevere la richiesta di parlare della canzone di Patti Smith dal titolo “The night belongs to lovers”, la notte è fatta per gli amanti.
Cosa mai può avere da dire su un testo simile, così pieno di passione erotica, un vecchio prete cattolico? E per di più un prete inglese? Eppure mi è parso subito un argomento affascinante.
Non solo perché come tutti voi sono un essere umano. Bensì perché tutto ciò che ha a che fare con l’amore ci dice qualcosa di quel Dio che noi riteniamo essere amore.
Il testo più appassionato di tutto il mondo antico si trova proprio nella nostra Bibbia.
È il Cantico dei Cantici. E poi sì: la notte è fatta per gli amanti. Ma è fatto per loro anche il giorno.
L’amore si arricchisce nell’alternanza di notte e giorno. E l’uno ha bisogno dell’altro se il nostro amore deve essere davvero appassionato, umano e addirittura santo.
Cominciamo dal volto. Nell’oscurità della notte, il volto dell’amato non si vede. Possiamo forse toccarlo, ma ci è invisibile. L’invisibilità del volto è un segno di grande intimità. Quando noi vediamo qualcuno che amiamo dall’altra parte della stanza, ne vediamo tutto il corpo. Poi, mentre ci avviciniamo e lo abbracciamo, riusciamo a scorgerne solo il volto. E, se lo baciamo, anche il volto scompare. Ma non possiamo restare abbracciati per sempre. Dobbiamo prima o poi dividerci e ricominciare a guardarci. La stessa cosa succede nella nostra relazione con Dio.
Wittgenstein ha scritto: «Il volto è l’anima del corpo». Rivela ciò che siamo. O a volte lo nasconde.
Noi tutti a volte indossiamo delle maschere. Eleanor Rigby, nella canzone dei Beatles, esce da casa sua «mettendosi la faccia che tiene nel barattolo vicino alla porta». Le nostre facce possono essere maschere dietro cui ci nascondiamo, con dei falsi sorrisi o con una gelida indifferenza.
Amare qualcuno significa imparare l’arte di leggere il suo volto. Noi impariamo a penetrare dietro la sua maschera.
Una volta ero in viaggio in Algeria con il vescovo di Orano. A causa dei combattimenti non potemmo prendere l’aereo e dovemmo usare la vecchia auto del vescovo. Fummo bloccati da violenti combattimenti tra la gente e l’esercito. La gente circondò la vettura e fece scendere il guidatore e i passeggeri, presumibilmente per prenderli in ostaggio.
Davanti alla vettura un giovane uomo, con in mano una pietra delle dimensioni di un pallone da calcio, gridava alla folla di circondarci.
Mentre gli altri arrivavano sembrava proprio che anche noi saremmo stati fatti prigionieri. Ma il vescovo vide una via d’uscita, diede gas e riuscimmo a scappare.
Non dimenticherò mai il volto di quel giovane uomo. Era, a prima vista, solo pieno di rabbia. Ma sotto la rabbia, potevo vedere la paura. Magari si stava chiedendo come aveva fatto a finire in quei disordini e che cosa gli sarebbe toccato fare a quel punto. E poi sotto la paura si vedeva il volto di un giovane uomo amato e amabile. Il volto di una persona cui in altre circostanze avrei potuto volere bene. Ripensando a questo incontro, fui colpito dalla complessità del suo volto, un vero caleidoscopio di emozioni.
Il nostro amore gli uni per gli altri, sia amicizia o passione amorosa, richiede che noi guardiamo, tocchiamo e conosciamo bene il volto dell’altro. Eppure nella notte, se abbiamo una relazione di passione, il volto scompare, come pure scompare in un abbraccio affettuoso. Il volto di chi si unisce fisicamente a noi smette di esistere in quanto volto di un’altra persona. Si diventa un essere unico, “una carne sola” come dice la Bibbia.
I confini svaniscono. Non c’è più “io” o “tu”, solo “noi”. Ma, come dice l’Ecclesiaste, c’è «un tempo per abbracciarsi e un tempo per allontanarsi». L’amore significa che noi ci prendiamo cura con affetto dell’indipendenza e dell’alterità dell’altro.
Come cristiano io credo che questo ritmo di notte e giorno, di separazione e di vicinanza sia una piccola parte di quell’amore infinito che è Dio. Perché, come ha detto Sant’Agostino, Dio è più vicino a noi di noi stessi. O, come lo esprime il Corano, “Dio è più vicino a me della mia giugulare”. Dio è al centro del mio essere, e mi dà esistenza. E se Dio mi sembra assente forse è perché io sono assente da me stesso. Dio mi è più vicino di quanto io possa immaginare.
La storia del cristianesimo è la storia del volto di Dio. Israele desiderava vedere il volto di Dio: «Lascia che il tuo volto risplenda su di noi e noi saremo salvati». Essere salvati significava essere ammessi alla visione del volto di Dio. Noi crediamo che duemila anni fa Dio si sia fatto carne e sangue nel volto di un Ebreo del primo secolo, Gesù. Lui guardò la gente e vide chi erano. Loro lo guardarono e il mondo si rischiarò. Era il momento diurno della nostra relazione.
Poi il volto di Gesù scomparve e non fu più in mezzo a noi. Noi addirittura non sappiamo che viso avesse. Ogni generazione inventa la sua immagine. Tuttavia questa non è una assenza di Gesù, ma una più profonda intimità. È l’intimità della notte che è fatta per gli amanti. Noi tutti perdiamo il volto di Dio qualche volta. Solo che il cristiano perde Dio per ritrovare Dio ancor più vicino a sé.
Per l’ateo c’è solo l’assenza. Atei e cristiani perdono entrambi l’immagine infantile di Dio come simpatico vecchietto con la barba bianca seduto sulla nuvola.
Per i credenti questo significa riscoprire Dio ancor più vicino. Per l’ateo, ognuna di queste esperienze significa un’assenza più profonda.
Mick Jagger dei Rolling Stones canta così: “Non vuoi andare in giro e parlare di Gesù/ vuoi solo vedere la sua faccia”. In quest’epoca in cui è notte e non vediamo il volto di Gesù, noi dobbiamo essere quel volto gli uni per gli altri. Come forse ha detto Santa Teresa d’Avila: egli «non ha altro volto che il tuo». La testimonianza più importante della nostra fede è il nostro stesso volto, che guarda il mondo con amore e compassione, che sorride. Lo possiamo incontrare dovunque.
Brian Pierce, un domenicano americano, durante i suoi anni universitari si trovava in viaggio in Perù per studiare lo spagnolo. Un giorno stava attraversando in automobile un povero villaggio andino, quando una donna indigena lo guardò attraverso il finestrino per chiedergli una moneta. Lui fu colpito dal suo volto. Prima che lui potesse fare alcunché, la macchina sfrecciò via: da allora ha il grande rimpianto di non aver neppure toccato la sua mano. Il suo volto pieno di sofferenza e dignità gli è rimasto impresso nella memoria. Lo sarà per sempre. Fu l’inizio della sua vocazione da domenicano. Ha scritto: «In superficie ero semplicemente sopraffatto, mi faceva male lo stomaco.
Ma nel profondo del mio essere Dio stava preparando il terreno. Grazie a Dio, ho visto quel volto e ho cercato di toccare quella mano molte, molte volte. Oggi per me quel volto è il volto del coraggio e della dignità. Oggi io penso a quel volto come al volto di Dio».
La notte è il tempo per toccarsi. Ma questo, la canzone ci dice, è sicuro. «Le mie mani non possono ferirti». San Tommaso d’Aquino ci dice che il tatto è il più umano di tutti i nostri sensi. È anche l’unico ad essere intrinsecamente reciproco. Posso vedere senza essere visto. Posso udire senza essere udito. Posso sentire degli odori senza venire a mia volta percepito. Ma se si tocca in modo adeguato e sicuro, allora si viene anche toccati.
La pelle è il più esteso degli organi umani. Ci circonda e al tempo stesso costituisce il confine tra noi stessi e gli altri. Ma è anche il luogo dei contatti più intimi.
La parola stessa “contatto” ha nella sua radice una sensazione tattile reciproca: con-tatto. Ma perché la pelle sia il luogo del contatto bisogna anche che ci sia la giusta distanza. Se ci si tocca sempre si diventa invadenti.
Questo però non può durare. Arriva sempre il tempo di separarsi e di essere di nuovo distinti. San Tommaso d’Aquino dice bene quando scrive: «Nell’amore due diventano uno, pur restando distinti». Se non ci fosse separazione, ci staremmo divorando. E dunque la notte è fatta per gli amanti, ma lo è anche il giorno. C’è il tempo per essere due e il tempo per essere uno. L’arte di amare consiste nel sapere quando dare spazio e quando essere intimi. Sviluppare la capacità d’amare un altro essere umano significa imparare ad essere vicino agli altri, ma anche saper dare loro spazio, in modo che non siano sopraffatti da noi. Al cuore del cristianesimo c’è la credenza che Dio sia un dio che ci tocca. Nella Cappella Sistina Michelangelo dipinse Dio che allunga la sua mano per chiamare un Adamo dormiente alla vita. Il tocco divino si è fatto carne e sangue in Gesù, e adesso in noi stessi. Gesù toccava gli intoccabili: i lebbrosi, gli ammalati e addirittura i morti.
Questo lo rendeva ritualmente impuro agli occhi dei Farisei. Gesù non aveva paura di essere toccato.
La nostra società sta vivendo una crisi del contatto fisico. Spesso lo sentiamo come un abuso o come un gesto possessivo. Un gesto che invade la privacy dell’altro, non ne rispetta l’alterità.
Questa crisi ha contagiato anche la Chiesa, che ha subito accuse di abusi sessuali in tutto il mondo.
Questa è una cosa che distrugge l’essenza stessa, il centro dell’essere di una persona. È un’esperienza di annichilimento. Come possiamo ritrovare la bellezza di un toccarsi che non fa male? Abbiamo bisogno del tocco della notte, rispettoso, non possessivo. E anche, a volte, del non toccarsi. Del lasciare che l’altra persona sia. Perché la persona che amiamo non è lì solo per noi. Lei o lui è anche una figlia o un figlio, una madre o un padre, un’amica o amico di altri. Noi siamo tutti il frutto di tante relazioni differenti.
È un’illusione del romanticismo moderno immaginare che nel mondo possiamo esserci solo “noi due”. Tutti abbiamo bisogno di tante relazioni differenti per stare pienamente nell’esistenza.
Nel romanzo di Madeleine Thien sugli immigrati cinesi negli Stati Uniti dal titolo “Non dite che non abbiamo niente”, uno dei protagonisti dice: «Non cercare mai di essere una singola cosa, un essere umano indiviso. Se così tante persone ti vogliono bene, puoi dire in tutta onestà di essere una sola cosa?» Così l’amore della notte deve lasciare spazio a un amore del giorno. L’amore dell’altro deve spingerci a riconoscere che egli è di più di quello che è per me. L’esistenza dell’altro necessita di altri volti, di altri sorrisi, di altre parole oltre alle mie. Ogni amore profondo significa che noi avremmo il desiderio di possedere l’altro e tuttavia dobbiamo lasciarlo andare.
La notte è fatta per gli amanti, e così pure il giorno. Ogni cosa ha il suo tempo. Quando il sole tramonta, anche se c’è la luce elettrica, ogni cosa rallenta o addirittura si ferma. Noi non vediamo più le ombre allungarsi come succede di giorno sotto il sole. Il tempo si ferma. E si avverte il tocco dell’eternità.
Gli amanti vorrebbero che la notte non ifnisse mai. Eppure finisce. Perché noi siamo dei corpi e viviamo con le memorie del passato e con le speranze del futuro. Henri Lacordaire, domenicano francese dell’Ottocento, diceva: «Tra il passato, dove stanno i nostri ricordi, e il futuro, dove stanno le nostre speranze, c’è il presente». Dobbiamo sempre tornare al giorno, in cui il tempo scorre. E noi stessi invecchiamo.
Il tempo senza tempo della notte cede il passo al giorno, che prende forma nella memoria e nell’aspettativa.
I cristiani hanno preghiere per la notte, che servono a lasciar andare il passato. Un mio amico, ministro di culto battista, Ian Stackhouse scrive: «La notte si macchia di quella che per noi moderni è l’estrema eresia: ci costringe a fermarci. Per dormire bene bisogna abbandonare qualcosa, lasciar andare. E siccome il lasciar andare non è una cosa in cui siamo bravi molti di noi non dormono bene».
E poi abbiamo preghiere per il mattino, che servono ad aprirci al nuovo. Chiediamo a Dio di sorprenderci!
E poi abbiamo preghiere per il presente che, come gli amanti nella notte, sono spesso silenziose.
Nella notte gli amanti non dicono molte parole. La comunicazione assume altre forme.
Quando due amanti sono felici, il loro silenzio condiviso parla la lingua dell’intimità.
Tutte le parole che si sono detti, fin dal primo momento, li hanno portati alla comunicazione più completa, in cui non c’è più bisogno di dire nulla. Forse l’unico suono che si sente è quello del respiro. Ma ci vogliono tante parole per preparare questo silenzio pieno di senso. E poi il giorno dopo ci saranno di nuovo parole, quando i due si separeranno un’altra volta e si guarderanno in viso alla luce del giorno. Le parole conducono al silenzio, e il silenzio alle parole. Viviamo nel ritmo della loro alternanza, come gli amanti vivono nell’alternanza di notte e giorno.