sabato 7 settembre 2019

L'Osservatore Romano: Nella pienezza di essere Chiesa

Vocazione di una comunità

Nella tradizione cristiana l’idea di “vocazione” ha manifestato diverse esperienze, dandone un significato fondamentale: essa viene intesa come il momento in cui uno percepisce che Dio stesso ha assegnato una destinazione a se stesso, qualcosa che entra nell’intimo dell’animo umano e ne riconosce la parte migliore. Essa, nella libertà dei figli di Dio, può essere accolta, fare appello alla fede, all’abbandono alla forza di Dio, alla ricerca della forma che è la sua bellezza, essere creativa, pacifica e riceve sempre la forza necessaria per generare una storia della propria vita che non farà mai dubitare di ciò che gli è stato assegnato. Una tale vocazione ha come presupposto ciò che Nicola Cabasilas chiama maniakòs èros, l’amore folle di Dio per l’uomo e la risposta dell’uomo nella sua capacità di interpretare l’amore evangelico come destinazione finale della vocazione stessa.

Nel mondo attuale, anche cristiano, il termine vocazione viene ridotto ad alcuni stereotipi, ad alcune figure particolari, come il prete, il religioso. Ma questa non può essere un’esperienza di vocazione. Si tratta di capire come la fede cristiana si relazioni alla “chiamata” e questa venga posta al centro dell’avventura umana di ognuno, al fine di considerare la vita relazionale, professionale, eccetera, a partire dalla propria fede. Ogni essere umano deve avere la capacità di porsi in ascolto di sé stesso, di ciò che è spesso profondamente nascosto nel più intimo di ogni esistenza. Solo partendo dalla propria umanità, fondamentalmente di relazione, si potrà accogliere il Cristo che chiama chi vuole e che offre a chi lo segue o lo imita di andare fino in fondo al proprio cammino, per essere a immagine e somiglianza di Dio (Genesi, 1, 26-27). È necessario pertanto avere la disposizione per fare esperienza della “voce” che è dentro di ognuno. Secondo le Scritture, Dio è l’origine di questa voce, che costituisce nell’uomo la consapevolezza dell’esistenza di cose che non esistono. È la prima risposta alla chiamata misteriosa, “Eccomi!”, è ciò che l’apostolo Paolo dice di Abramo: «Egli è nostro padre davanti a colui nel quale credette, il Dio che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono» (Romani, 4, 17).

L’accogliere questo invito dà il senso dell’unicità. Non esiste un altro termine di paragone. Nessun altro può sentire la voce, la sua esistenza è unica. Nessuno può affrontare al posto di un altro ciò che nella sua vita diviene smisurato e allo stesso tempo a sua misura unica.

La chiamata è sempre e unicamente personale ma la sua accettazione ha sempre un’implicazione comunitaria. La Chiesa è «Corpo di Cristo» (1 Corinzi, 12), unione e unità nello Spirito santo dei fedeli nell’umanità deificata di Cristo. Cristo e la Chiesa sono un’unità inseparabile e inconfusa. Nel giorno di Pentecoste l’umanità glorificata di Cristo torna nel mondo, dopo la sua ascensione “ai cieli” della Divinità trisplendente, perché possa continuare la presenza di Cristo tra i fedeli (Matteo, 28, 20), ma in modo diverso, nello Spirito santo. La Chiesa, infatti, secondo Cabasilas, è fondata sia sull’eucarestia sia sulla pentecoste, cioè sulla reciprocità e il mutuo servizio del Figlio e dello Spirito santo in maniera che «il risultato delle azioni di Cristo non siano altro che l’effetto della discesa dello Spirito santo sulla Chiesa» (Spiegazione della divina liturgia).

Vocazione della comunità cristiana è la divina eucarestia, in quanto essa è necessaria per la vita in Cristo. Ognuno non partecipa nella sua individualità al sacro mistero, ma nella pienezza del suo essere Chiesa.

Se la vocazionalità eucaristica di una comunità manifesta la radicale vocazione decisionale dell’individuo, allo stesso tempo diviene una vocazionalità di tipo comunionale. Cristo non ci salva personalmente in modo autonomo, ma come comunione, come membri di un solo corpo, una comunione, una comunione del suo corpo. Ma in una comunità cristiana, che nell’amore manifesta la vocazione personale di ogni membro e nell’eucarestia centralizza questo amore, c’è la necessità dell’esempio, dell’imitazione quindi. In ogni comunità cristiana sia essa parrocchiale o monastica c’è la necessità di riconoscere gli “uomini di Dio”, che manifestino la Chiesa come mistero d’amore. Attorno a queste figure spirituali si raggruppano i figli spirituali per i quali si affaticano per una loro rinascita in Cristo, la rinascita del fedele, così come ci parla Giovanni al capitolo 3, riferendosi a Nicodemo.

Ma non sono maestri, pedagoghi, sono coloro che partendo dalla vocazione intima del credente lo accompagnano a una rinascita: «Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo» (1 Corinzi, 4, 15); fanno cioè rinascere figli in Cristo e non propri. Questi portatori dello Spirito, pneumatofori, sono costituiti come “tempio dello Spirito santo”, santi, divinizzati, non una “élite” della Chiesa ma precursori di una via verso la divinizzazione che è di tutti i fedeli. È la vocazione di giungere alla divinizzazione, a essere “dei per grazia”, essere comunità come “laboratori di santità e ospedali spirituali”.

Nel corpo di Cristo e quindi nella vita della Chiesa, parrocchiale o monastica, giunge l’uomo per trovare sollievo, per essere guarito dalla malattia della caduta, dall’allontanamento del funzionamento orante della mente, dalla memoria di Dio. L’uomo oggi ha necessità di purificare la mente, il cuore, di purificare il suo “a immagine” per rientrare nella reale esistenza dell’illuminazione dello Spirito santo, per giungere alla grazia increata e al regno di Dio.

Solo colui che ha trovato l’illuminazione dello Spirito santo vive il vero amore, comunione con i fratelli, è il medico che ha curato sé stesso e quindi apre la sua filantropia, a imitazione del Prototipo, ai fratelli.

Credo che innanzitutto le comunità, per vocazione, debbano vivere un’autocoscienza escatologica anche nell’attuale realtà storica, così come lo è stato in tutte le epoche. Non si tratta di uno sguardo volto solamente al passato o una fuga in avanti, ma si tratta di tornare a porre la centralità dell’annuncio e la chiave di lettura dei padri. Non si può pensare solamente a un lavoro filantropico o sociale o alla pura celebrazione di liturgie e teleturgie, ma di essere laboratori viventi e operanti per la salvezza e la divinizzazione dell’uomo.

Ci vuole una lotta serrata contro la morte, il peccato, la corruzione, e divenire centri di rinascita e resurrezione. Allora sì l’opera sociale e filantropica sarà inserita nella lotta per la divinizzazione, la comunionalità e la fraternità saranno frutti naturali della comunione con la grazia divina increata. Quando una comunità diviene consapevole del reale motivo della propria esistenza, vocazione o carisma, allora cessa di essere un luogo di incontro di circostanza e diviene reale centro della vita di tutti coloro che si dicono cristiani. Il tempio non è il luogo della celebrazione o tutt’al più della preghiera, ma è il centro della vita eucaristica che continua nella vita come nella mensa del monastero a essere una liturgia dopo la liturgia.

C’è la necessità dell’unità tra vita spirituale e sociale e di una reale metánoia nella vita di ogni battezzato. Le nostre parrocchie sono divenute troppe volte luogo di incontro sterile, non troviamo la comunione “degli amici” di cui parla Gesù nell’ultima cena: «Ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Giovanni, 15, 15). I nostri monasteri spesso, molto spesso, non seguono l’indicazione patristica di essere un “gruppo di amore”, e non si vedono volti sorridenti. La filantropia è semplice elemosina, ma non un “camminare assieme”.

Concludendo, c’è la necessità di una vocazione forte delle nostre comunità, che parta dalla vocazione personale di ognuno, da quella “voce” primordiale che ci interpella e che ritrovo nel saluto di 2 Corinzi, 13, 13: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio padre e la comunione dello Spirito santo, sia con tutti voi». La grazia del Signore ci chiama, ci invita al divino banchetto, ci parla e ci fa parlare le lingue degli uomini e le lingue degli angeli, l’amore di Dio padre, ci apre all’ospitalità, alla filantropia, all’unità, e la comunione dello Spirito santo ci fa comunità, è con noi; la potenza della Trinità rappresentata da quel “sia” (e non “siano”) si fa vocazione sempre nuova e sempre presente nella Chiesa.

Cito un solo esempio di tale concretezza, prendendolo dalla vita della gerontissa Gavrilia in India. Interrogata sul perché parlasse solo inglese e non avesse mai imparato i dialetti locali per farsi più vicina ai bisognosi, la gerontissa — dopo una velocissima e intensissima preghiera — disse di conoscere cinque lingue: il sorriso, le lacrime, il contatto, la preghiera e l’amore. Penso sia la più bella vocazione di una comunità.

di Athenagoras