Per la cura della casa comune - Economia francescana
Dalle ricerche di questi ultimi decenni è emerso un fatto incontrovertibile: l’Ordine dei frati minori o, come si usa dire, l’Ordine francescano ha prodotto, nei secoli dal Duecento al Quattrocento, molti più testi sulle questioni di etica economica di quanto non abbiano fatto gli altri Ordini religiosi e anche i teologi appartenenti al clero secolare. Si tratta di un primato incontestabile. Per molti si tratta di una sorpresa: come mai i seguaci di frate Francesco, il campione della povertà, hanno investito tante risorse intellettuali per riflettere sulla ricchezza? Per alcuni questa sarebbe una contraddizione, l’ennesimo segno che l’Ordine ha presto dimenticato Francesco e ha preso tutt’altra strada. Per altri, che non si sentono di esprimere giudizi così perentori, rappresenta comunque uno dei grandi paradossi di cui la Storia non è certo avara.
Proprio Giacomo Todeschini, uno dei protagonisti dello studio del rapporto tra francescani ed economia, ci ha insegnato a diffidare delle nostre impressioni di paradosso, e a chiederci se non abbiano piuttosto origine dai nostri pregiudizi. Siamo noi che tendiamo a contrapporre povertà (e in particolare la povertà volontaria dei francescani) alla ricchezza come se si trattasse di mondi a parte, non comunicanti. Però, le cose stavano diversamente: le comunità dei frati non vivevano la povertà costruendo comunità il più possibile distaccate dalla società e dalla sue dinamiche, come isole utopiche. Al contrario, volevano abitare la città proponendo il messaggio evangelico con la testimonianza, la predicazione e anche quello che noi chiameremmo l’impegno pastorale. La loro scelta di vita mendicante non significava soltanto che si procurassero da vivere con la questua “porta a porta”, ma soprattutto che dipendevano, proprio per l’esistenza quotidiana delle loro comunità, dalla generosità di persone pienamente inserite nella vita economica del tempo. Insomma, la loro povertà volontaria aveva intrinsecamente bisogno della ricchezza di altri. Questo portava con sé lo stabilirsi di legami, una prossimità che non restava senza conseguenze, per esempio sul piano pastorale. Come fa notare Sylvain Piron per la Linguadoca di Pietro di Giovanni Olivi (+1298), i francescani rispondevano alle questioni di coscienza con le quali si confrontava un ceto per lo più mercantile preso nel vortice di pratiche economiche sempre più sofisticate. Tuttavia, per tracciare un profilo del buon “mercante cristiano”, per redigere un manuale per confessori in cui si distinguono, per esempio, le operazioni finanziarie peccaminose da quelle lecite, bisogna provarsi di comprendere e interpretare la vita economica nel suo complesso. E questo non può che avvenire attraverso tentativi e un confronto critico tra le proposte avanzate.
Si può obiettare che osservazioni di questo genere si applicano a tutti gli Ordini mendicanti, in particolare ai domenicani e agli agostiniani e quindi non spiegano veramente l’eccezionalità del contributo francescano. E in effetti anche domenicani e agostiniani hanno una significativa produzione in campo etico-economico, che però non raggiunge l’ampiezza di quella dei francescani. Una risposta potrebbe trovarsi nei tratti specifici della povertà mendicante dell’Ordine dei minori. Mi limito a fare un esempio: secondo la Regola francescana (diversamente da quanto contenuto nelle costituzioni di domenicani e agostiniani), i frati non devono maneggiare denaro. Ma cosa si intende con questa parola “denaro”, con il quale i frati non devono avere a che fare? Si intendono esclusivamente le monete, o la proibizione riguarda qualche cosa di più ampio, di cui le monete coniate non sono che un aspetto? Rispondere a queste domande, vitali per qualsiasi frate che voglia rispettare in modo coscienzioso il proprio impegno, significa interrogarsi su cosa siano il denaro e la moneta. La radicalità della povertà francescana costringe in modo particolare a sforzarsi di comprendere e interpretare più a fondo la ricchezza, per capire le implicazioni della propria scelta religiosa, per sé e per la società in cui si è inseriti.
Da quanto detto, è evidente che i francescani non si sono accostati all’economia con l’atteggiamento di chi vuole scoprirne le leggi per puro interesse scientifico (dato e non concesso che un approccio del genere sia mai veramente esistito); intendevano piuttosto fornire indicazioni sul giusto uso delle ricchezze (ai laici impegnati nella vita economica) e sul corretto modo di vivere il voto francescano di povertà. Questa finalità portava però inevitabilmente con sé uno sforzo di comprendere e interpretare le dinamiche economiche. Non ci deve allora stupire che siano stati proprio i seguaci di Francesco a risultare in prima linea nell’etica-economica. Ricchezza e povertà (anche quella volontaria), sono sì i poli di una contrapposizione, ma sono a tal punto inscindibilmente legate tra di loro che chi professa la seconda non può esimersi dal fare i conti con la prima.
di Roberto Lambertini