l grido di sant’Agostino «Rientra in te stesso» al centro delle prediche quaresimali di padre Raniero Cantalamessa
A un uomo che sembra vivere in una grande «centrifuga lanciata a tutta velocità» verso l’esterno, il grido di sant’Agostino «Rientra in te stesso!» appare come una salutare ancora di salvezza per ritrovare Dio nella propria interiorità. Così il predicatore della Casa Pontificia, il cappuccino Raniero Cantalamessa, spiega a «L’Osservatore Romano» il senso delle prediche che si tengono in Vaticano nei venerdì di Quaresima, a partire dal 15 marzo.
Perché la scelta di questo tema “agostiniano”?
Le prediche di questa Quaresima continuano la riflessione sul versetto del salmo: «L’anima mia ha sete del Dio vivente», iniziata nell’Avvento scorso. Dio c’è sempre; «in lui ci muoviamo, respiriamo e siamo», diceva Paolo agli ateniesi; ma di solito non ce ne rendiamo conto. Una cosa infatti è sapere che Dio esiste e un’altra cosa accorgerci della sua esistenza, vivere alla sua presenza, «coram Deo» si diceva un tempo. Tra le due cose c’è di mezzo qualcosa che somiglia a ciò che avviene al risveglio mattutino. Durante la notte, le cose intorno a noi esistevano, erano come le avevamo lasciate la sera prima: il letto, la finestra, la stanza. Ma solo adesso, al risveglio, le cose cominciano o tornano a esistere per me, perché ne prendo coscienza, mi accorgo di esse. Prima era come se esse non esistessero. Avviene la stessa cosa con Dio. Occorre un risveglio, un soprassalto di coscienza per accorgersi di Lui. Le prediche quaresimali di quest’anno vorrebbero aiutare a vivere un «risveglio» di questo genere.
C’è un motivo per cui non riusciamo a “vedere” Dio?
C’è un duplice motivo: uno che dipende da Dio e uno che dipende da noi. Il primo consiste nel fatto, spesso ripetuto nella Bibbia, che «non si può vedere Dio e restare in vita». La visione faccia a faccia di Dio annienterebbe la creatura fatta di carne e sangue, a causa della sua trascendenza e maestà. L’altro motivo, dicevo, dipende da noi. Mi spiego. Dio non si può vedere «di faccia», ma si può vedere, dice la Scrittura, «di spalle», cioè di riflesso, «come in uno specchio e in enigma», secondo san Paolo. Se non lo vediamo neppure così, questo sì dipende da noi, dal fatto che non lo cerchiamo.
Esiste un luogo privilegiato dove incontrarlo?
Questa domanda mi permette di approfondire il concetto appena accennato. Ci sono “luoghi”, in cui è possibile “vedere” Dio, nel modo indiretto e mediato che ho appena descritto. Il primo di essi, accessibile a tutti, è il creato. Alcuni versi assai noti di Metastasio dicono: «Ovunque il guardo giro / immenso Dio ti vedo. / Nell’opre tue t’ammiro. / Ti riconosco in me». Di questa conoscenza di Dio attraverso le creature parla la Bibbia quando canta nel salmo: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annunzia il firmamento». Ma il luogo privilegiato della conoscenza del Dio vivente è Cristo, il Verbo fatto carne. Per questo l’evangelista Giovanni scrive: «Dio, nessuno lo ha mai visto. L’Unigenito che è nel seno del Padre, lui ce lo ha rivelato». I versi che ho appena citato di Metastasio menzionano alla fine un altro «luogo» in cui si può trovare Dio: «Ti riconosco in me». Ogni conoscenza di Dio — quella a partire dalle creature e quella che parte dal Vangelo — si opera nel cuore dell’uomo, nella sua interiorità. Altrimenti resta una conoscenza teorica, impersonale ed esteriore. Uno può conoscere a memoria il Vangelo ed essere un esperto di cristologia, senza che tra lui e Dio e tra lui e Cristo si stabilisca un vero contatto personale. Proprio per questo ho scelto come titolo dell’intero ciclo di prediche il motto famoso di sant’Agostino: «Rientra in te stesso!». La motivazione che il santo dà del suo invito è: «Perché nell’uomo interiore abita la Verità».
Perché l’uomo è chiamato ad adorare il Signore?
Prima di ogni motivazione remota del dovere dell’adorazione, ci sono le parole della Scrittura. Il primo comandamento di Dio — quello che Gesú oppone al demonio nell’episodio delle tentazioni — dice: «Adorerai il Signore Dio e a lui solo presterai culto». C’è poi la parola di Cristo alla Samaritana: «Dio è spirito e quelli che lo adorano lo devono adorare in spirito e verità. Il Padre cerca tali adoratori». L’essere «eretti», con lo sguardo rivolto in alto, è la caratteristica dell’essere umano, diceva il filosofo Kierkegaard; ma prerogativa ancora più nobile e più degna di lui è «essere curvo», avere lo sguardo rivolto a terra, in adorazione davanti al proprio Creatore. L’uomo, aggiungeva, «ha bisogno di qualcosa di maestoso da adorare», e se questo «qualcosa» o «qualcuno» non è Dio, sarà inevitabilmente qualcosa di molto meno degno di Dio e meno degno dell’uomo. Noi abbiamo svilito la parola adorare; c’è chi adora andare a caccia, chi adora il proprio cane... Ma nella Bibbia l’adorazione è l’unico sentimento riservato solo ed esclusivamente a Dio. Noi veneriamo, preghiamo e amiamo la Madonna, ma non la adoriamo, contrariamente a quanto alcuni pensano di noi cattolici.
Quale significato riveste in particolare l’adorazione della croce?
Ho parlato sopra di Gesù Cristo come del luogo per eccellenza in cui si può incontrare il Dio vivente. Bisogna, a questo proposito, tener conto di due visioni diverse, ma complementari. Nella prospettiva dell’evangelista Giovanni, è soprattutto grazie all’incarnazione che Cristo diventa il supremo rivelatore del Padre; nella prospettiva di Paolo, è soprattutto nel mistero pasquale. Dio infatti è amore e sulla croce si manifesta la vera natura dell’amore di Dio che è un amore di donazione, fino a svuotarsi di sé per le sue creature. Ho dedicato l’ultima predica di Avvento a illustrare la prospettiva di Giovanni; penso di dedicare l’ultima predica di Quaresima a illustrare la prospettiva di Paolo.
È ancora attuale il messaggio di sant’agostino?
Il grido di Agostino «Rientra in te stesso!» (“In te ipsum redi”) non solo è ancora attuale, ma non è stato mai così attuale e necessario come oggi. Viviamo in un’epoca in cui l’uomo, grazie anche agli incredibili progressi nei mezzi di comunicazione, è tutto proiettato all’esterno. Viviamo come in una centrifuga lanciata a tutta velocità. Siamo costantemente “in uscita” attraverso le cinque porte che sono i nostri sensi. E non soltanto i giovani e i ragazzi... C’è un essere “in uscita” che è buono e spesso raccomandato da Papa Francesco, ed è uscire da noi per andare verso il prossimo e portare l’annuncio del Vangelo «alle periferie esistenziali del mondo»; ma c’è un essere “in uscita” deleterio e spersonalizzante ed è quando diventiamo incapaci di sottrarci al chiasso e alla dissipazione per rientrare nel nostro cuore e lì dialogare con Dio. La Quaresima ha lo scopo di aiutarci in questo.
di Nicola Gori