domenica 24 febbraio 2019

SETTIMANA NEWS: Gesù, incarnazione della misericordia di Dio

Gesù, incarnazione della misericordia di Dio


Relazione tenuta da José Antonio Pagola al Congresso internazionale di Avila «Misericordiosi come il Padre» il 7 settembre 2016.

Il percorso che faremo in questa esposizione è semplice: inizierò mostrando che Gesù coglie e vive la realtà di Dio come mistero insondabile di misericordia. Poi, mi soffermerò ad esporre come questa misericordia appaia incarnata nella vita di Gesù orientata radicalmente verso i più bisognosi di compassione, dedicandosi principalmente a coloro che soffrono e nella sua scandalosa accoglienza dei “peccatori” più disprezzati. In terzo luogo, ascolteremo la grande eredità di Gesù: «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso». Termineremo approfondendo la dinamica della misericordia e, a mo’ di conclusione, darò alcuni suggerimenti per camminare verso una Chiesa samaritana e per favorire una cultura che stimoli di più la misericordia.

1. Dio, mistero insondabile di Amore misericordioso
L’accordo è oggi praticamente unanime. Gesù di Nazareth è stato un uomo che ha vissuto e comunicato un’esperienza sana di Dio, senza sfigurarla con le paure, le ambizioni e i fantasmi che, di solito, proiettano i fedeli delle diverse religioni sulla divinità.

La prima cosa che va tenuta bene in mente è che Gesù coglie e vive la realtà insondabile di Dio come mistero di misericordia. Ciò che definisce Dio non è il potere, la forza o l’astuzia, come le divinità pagane dell’impero. D’altra parte, Gesù non parla mai di un Dio indifferente o lontano, che si dimentica delle sue creature. Ancor meno, di un Dio interessato al suo onore, ai suoi interessi, al suo tempio, al suo sabato… Al  centro dell’esperienza di Dio offertaci da Gesù non ci incontriamo con un «legislatore» che governa il mondo per mezzo di leggi, né con un Dio «giustiziere», irritato o adirato davanti al peccato degli uomini.

Per Gesù, Dio è “misericordioso”, “compassionevole”. Quando Gesù parlava di Dio nella sua lingua materna lo chiamava rahum (letteralmente, “viscerale”). Cioè, Dio ha rahamin (viscere di donna). Gli esperti dicono che, probabilmente, all’origine di questo linguaggio che Gesù usa, soggiace l’immagine di un Dio che è un «Padre amato» (Abba), che ha viscere di madre: Dio prova nei nostri confronti ciò che una madre prova verso il figlio che porta nelle sue viscere. Questa è l’immagine preferita da Gesù. Dio ci porta nelle sue viscere.[1]

Questa è la Buona Notizia di Dio proclamata da Gesù. Il mistero ultimo della realtà che i credenti chiamano «Dio» è un mistero di misericordia infinita, bontà senza limiti, offerta continua di perdono. In Dio la misericordia non è un’attività tra altre, ma tutto il suo essere consiste nell’essere misericordioso con le sue creature. Dobbiamo rivedere la teologia metafisica che tende a far di Dio un essere «onnipotente» e arbitrario. Dio solo può ciò che può il suo amore misterioso: non può vendicarsi di noi, non può serbare rancore, non può ricambiare male per male. La misericordia è l’essere di Dio, la sua reazione davanti alle sue creature, il suo modo di guardare i suoi figli e figlie; è questo che muove e orienta tutto il suo comportamento.

Le parabole più commoventi di Gesù, senza dubbio quelle che più gli stavano a cuore, sono quelle che raccontò per manifestare a tutti la sua fiducia assoluta nella misericordia di Dio. La più coinvolgente è, forse, quella del “padre buono”.[2] Quelli che l’ascoltarono per la prima volta restarono senza dubbio sorpresi. Non era quello che si insegnava nelle sinagoghe di Galilea, né nel tempio di Gerusalemme. Dio sarà così? Come un padre che non conserva per sé la sua eredità, che non bada al comportamento dei suoi figli, che aspetta sempre con amore i perduti, che «essendo ancora lontano» vede suo figlio e «gli si commuovono le viscere»?[3] Sarà così Dio? Come questo padre che perde il controllo, si mette a correre, lo abbraccia e bacia affettuosamente come una madre, interrompe la confessione del figlio per risparmiargli altre umiliazioni e lo reintroduce come figlio nella sua casa?

Sarà questa la miglior metafora di Dio? Un padre commosso fino alle viscere, che accoglie con amore i suoi figli perduti e supplica i fratelli ad accogliere anche loro con la stessa compassione? Sarà Dio un padre che cerca di condurre la storia degli uomini fino alla festa finale dove finalmente si celebra la vita e la liberazione di tutto ciò che rende schiavi e degrada l’essere umano? Gesù parla di un banchetto abbondante aperto a tutti. Parla di musica e di balli, di figli perduti che suscitano la compassione del padre, di fratelli invitati ad accogliersi reciprocamente. Sarà questo il segreto ultimo della vita? Sarà questo il progetto umanizzante del regno di Dio, di aprire strade a un mondo più degno, più giusto, più felice per tutti?

Gesù raccontò anche un’altra parabola sorprendente e provocatoria, quella del padrone della vigna che voleva pane e lavoro per tutti.[4] Secondo il racconto, il proprietario della vigna andò di persona sulla piazza del villaggio ad assumere diversi gruppi di operai a differenti ore del giorno. Sorprendentemente, benché gli operai abbiano fatto un lavoro molto disuguale nella vigna, il padrone paga tutti con un denaro: quello che si considerava necessario per vivere a una famiglia contadina di Galilea un giorno. Il padrone non pensa ai meriti degli uni e degli altri, ma che tutti possano cenare quella sera. Quando il gruppo che ha lavorato di più protesta, questa è la sua risposta: «Non ho la libertà di fare quello che voglio delle mie cose ? Oppure, tu sei invidioso perché io sono buono?».

Lo sconcerto dovette essere generale. Che cosa stava suggerendo Gesù? Che Dio non agisce con i criteri che noi usiamo? Che per Dio non contano i meriti? Questa maniera di capire la bontà di Dio, non rompe i nostri schemi religiosi? Che cosa direbbero i maestri della legge e che cosa possono dire i moralisti di oggi? Sarà vero che, dalle sue viscere di misericordia, Dio più che fissarsi sui nostri meriti sta cercando come rispondere alla nostra necessità di salvezza?

2. Gesù, volto della misericordia del Padre

a) Una vita orientata verso i più bisognosi di compassione

Le diverse tradizioni evangeliche indicano la stessa direzione: l’attività profetica di Gesù si mette in moto, ed è motivata e diretta dalla misericordia di Dio. La sua passione per Dio si traduce in compassione per l’essere umano. È la misericordia di Dio che attrae Gesù verso gli ultimi: le vittime, quelli che soffrono, i maltrattati dalla vita o dalle ingiustizie dei potenti, i peccatori e le persone sgradite, i disprezzati da tutti. Il Dio della legge e dell’ordine, il Dio del culto e dei sacrifici, il Dio del sabato mai avrebbe potuto dar vita all’attività profetica di Gesù, così sensibile alla sofferenza degli innocenti e all’umiliazione degli esclusi.

Il vangelo di Luca, in una scena programmatica che avviene secondo il narratore nella sinagoga di Nazareth, evidenzia che non è la religione del tempio quella che orienta l’agire di Gesù, ma è lo “Spirito del Signore” che dà a tutta la sua vita la direzione verso gli ultimi. Attribuendo a se stesso il testo di Isaia 61,1-2, Gesù dice: «Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore».[5] Gesù si sente unto «dallo Spirito» di un Dio che orienta tutto il suo agire profetico in direzione dei più bisognosi di compassione.

 Questi quattro gruppi di persone, i «poveri», i «prigionieri», i «ciechi» e gli «oppressi» rappresentano e riassumono coloro che Gesù porta maggiormente dentro il suo cuore di profeta della compassione. In questa vita data per intero a infondere speranza ai poveri, a liberare da schiavitù, ad alleviare la sofferenza e ad offrire il perdono gratuito di Dio, possiamo vedere incarnata la misericordia del Padre.

b) La sofferenza, prima preoccupazione di Gesù

Dobbiamo dire qualcosa di più. Mosso dalla misericordia del Padre, «il primo sguardo di Gesù non è rivolto al peccato degli altri, ma alla loro sofferenza».[6] La chiave a partire dalla quale Gesù vive Dio e si sforza di aprire strade al suo regno di giustizia non è propriamente il peccato, ma la sofferenza per la mancanza di misericordia nel mondo. Il contrasto con il Battista è chiarificatore. L’agire profetico del Battista era pensato e organizzato in funzione del peccato. Era la sua preoccupazione suprema: denunciare i peccati del popolo, chiamare a penitenza i peccatori e purificare con il loro battesimo quanti si recavano al Giordano. Il Battista non pare vedere la sofferenza: non si avvicina agli infermi né li cura. Non pare conoscere l’esclusione e l’emarginazione in cui vivono non pochi: non guarisce i lebbrosi, non libera i posseduti dal demonio, non accoglie le prostitute. Il Battista non abbraccia i bambini e le bambine della strada, non mangia con peccatori, non li accoglie alla sua tavola. Il Battista non fa gesti di bontà. Il suo agire è strettamente religioso.

Al contrario, la prima preoccupazione di Gesù sono la sofferenza e l’emarginazione che patiscono le persone inferme e denutrite di Galilea, la difesa di quei contadini sfruttati dai potenti latifondisti. I vangeli non presentano Gesù che cammina per la Galilea in cerca di peccatori per convertirli dai loro peccati. Lo descrivono che si avvicina agli infermi per alleviare la loro sofferenza; accarezzando la pelle dei lebbrosi per liberarli dall’esclusione. Per dirlo in altro modo, nell’agire di Gesù è più determinante eliminare la sofferenza e umanizzare la vita che denunciare i peccati e chiamare a penitenza i peccatori. Non è che non lo preoccupi il peccato ma, per il Profeta della compassione, il peccato più grande contro il progetto umanizzante del regno di Dio consiste nell’introdurre nella vita sofferenza ingiusta o tollerarla con indifferenza, disinteressandoci delle persone che soffrono.

Questa attenzione alla sofferenza fa di Gesù un profeta guaritore. Gesù vive il Dio della misericordia come un amico della vita. Soffre al vedere la distanza enorme che c’è tra la sofferenza di tanta gente denutrita e inferma e la vita sana che Dio vuole per i suoi figli e figlie. Per questo si sente Profeta guaritore, pieno dello Spirito buono di Dio, non per condannare e distruggere, ma per curare, liberare dagli spiriti maligni e rafforzare la vita. Per Gesù, Dio è una Presenza buona che benedice la vita e vuole la guarigione, prima dell’osservanza del sabato. Per questo, benedice gli infermi che non possono avere accesso alle benedizioni del tempio. Impone le sue mani su di loro perché vuole avvolgere con la tenerezza di Dio quanti, secondo la credenza popolare, vengono considerati castigati da lui. Voglio richiamare l’attenzione su un dato significativo. Secondo i vangeli sinottici, Gesù non guarisce per confermare il suo messaggio o per provare la sua condizione messianica. Tutti insistono su quello che fa perché, vedendo la sofferenza degli infermi, «gli si commuovono le viscere».[7] Il termine che si usa (splanchnizomai) è lo stesso che Luca usa per parlare della misericordia di Dio.[8] Gesù è rahum: ha viscere di misericordia come il padre della parabola che accoglie il figlio perduto.

Gesù sperimenta anche il Dio della misericordia come il Dio degli ultimi: gli impoveriti dai potenti e i dimenticati dalla religione. Gesù soffre vedendo che nessuno fa loro giustizia. Per questo, si sente anche Profeta difensore dei poveri. Il suo primo gesto è condividere con loro la loro sorte. La vita povera e itinerante di Gesù e dei suoi discepoli, senza scorte né tunica di riserva, non è austerità. È la sua forma di condividere la mancanza di difesa, la vulnerabilità e i rischi che patiscono tanti disgraziati. Gesù, profeta povero del Dio della misericordia, vive tra i poveri, conosce la loro fame e le loro lacrime, stringe al petto i bambini e le bambine della strada, e soffre con loro. Gesù incarna la misericordia del Padre nella sua vita solidale con i poveri.

Nello stesso tempo, Gesù comincia a parlare un linguaggio nuovo e provocatorio. La misericordia di Dio sta chiedendo che si faccia giustizia ai suoi figli più indifesi. Essi devono sapere che la misericordia di Dio non li abbandonerà mai. Per questo, Gesù incomincia a lanciare il suo grido profetico per tutta la Galilea. Si incontra con famiglie che non hanno potuto difendere le loro terre davanti agli abusi dei latifondisti e grida: «Beati voi che non avete niente[9] perché vostro è il regno di Dio». Osserva la denutrizione delle donne e dei bambini, e li assicura: «Beati voi che adesso avete fame perché sarete saziati». Vede piangere di impotenza i contadini quando gli esattori si portano via il meglio dei raccolti e li consola: «Beati voi che adesso piangete perché riderete».[10]

Non è burla né cinismo. Gesù sta condividendo la loro povertà e parla loro in nome del Padre misericordioso. Il messaggio delle Beatitudini è centrale nell’agire profetico di Gesù: «Quelli che non interessano a nessuno sono quelli che più interessano a Dio; coloro che vengono messi ai margini negli imperi costruiti dagli uomini hanno un posto privilegiato nel suo cuore; quelli che non hanno una religione che li difenda, hanno Dio come Padre». Se il regno di Dio è accolto, il mondo cambierà per il bene degli ultimi.

Questo messaggio di Gesù non significa subito la fine della fame e della miseria, ma una dignità indistruttibile per tutte le vittime. Sono i prediletti di Dio e questo dà alla loro dignità una serietà assoluta. In nessuna parte si costruirà la vita così come vuole il Padre della misericordia, se non liberando i poveri dalla fame e dalla miseria. Nessuna religione sarà benedetta da Dio, se non cerca più giustizia per loro. Questo vuol dire introdurre la misericordia di Dio nel mondo: mettere le religioni e i popoli, le culture e le politiche a guardare gli ultimi e a lavorare per la loro dignità: ancora di più, questo è introdurre nel mondo la speranza ultima di una vita piena per quelli che sono stati esclusi ingiustamente da una vita degna e felice in questo mondo.

c) L’accoglienza dei “peccatori” più disprezzati

I vangeli osservano che quello che provocò più scandalo e ostilità nei confronti di Gesù fu la sua amicizia nei confronti di un bene collettivo riconoscibile nelle persone che venivano chiamate con disprezzo “peccatori”. Non era mai successo niente di simile nella storia di Israele. Nessun profeta si era avvicinato a loro con il rispetto, l’amicizia e la simpatia di Gesù. Il termine “peccatore” non aveva in quel tempo il contenuto preciso che avrà poi nella tradizione cristiana. Questo collettivo di «peccatori» era considerato escluso dall’Alleanza, sia per il suo comportamento immorale, sia per la sua professione, sia per il contatto con i pagani, sia per la sua collaborazione con Roma o ragioni simili. Formavano un gruppo proscritto e disprezzato, soprattutto, dai settori più rigoristi che li escludevano dalla convivenza (matrimonio con loro, banchetti, negazione del saluto…). La loro conversione era considerata impossibile. I collettivi più rappresentativi erano gli esattori e le prostitute.

Ciò che più scandalizzava era l’abitudine di Gesù di sedersi a mangiare con loro alla stessa mensa. Non è qualcosa di aneddotico o secondario. È il tratto che caratterizza il suo modo di fare con i peccatori più disprezzati. Secondo un buon numero di autori, è il gesto profetico più originale e rappresentativo del profeta della misericordia. In mezzo a un clima di condanna e di discriminazione generale, Gesù introduce un gesto profetico di accoglienza e inclusione. La reazione fu immediata. Le tradizioni raccolgono fedelmente, prima la sorpresa: «Che? Mangia con pubblicani e peccatori?».[11] Non si tiene a debita distanza. Che vergogna! Poi, l’ostilità, il rifiuto e gli insulti: «Avete un mangione e un beone, amico di peccatori».[12] Gesù non lo smentì mai perché realmente si sentiva «amico di peccatori». La questione era esplosiva. Sedersi a tavola con qualcuno è sempre una prova di rispetto, fiducia e amicizia. Non si mangia con uno qualsiasi e, ancor meno, nel popolo scelto di Israele, dove ci si preoccupava tanto della propria santità. Quello che sta facendo Gesù è qualcosa di impensabile in uno considerato come un “uomo di Dio”. Come poteva sentirsi amico di pubblicani e prostitute?

Però, va aggiunto, Gesù si avvicinava a mangiare con loro, non come un maestro della legge, preoccupato di esaminare la loro vita scandalosa, ma come profeta della misericordia di Dio, che offre loro la sua amicizia e comunione. Il significato profondo di questi pasti consiste nel fatto che Gesù crea con loro una «comunità di mensa»[13] davanti a Dio. Condivide con loro lo stesso pane e lo stesso vino; pronuncia con loro la «benedizione a Dio» e celebra anticipatamente il banchetto finale che, secondo quanto annuncia Gesù, il Padre sta preparando per i suoi figli. Con questo gesto profetico, Gesù sta loro annunciando la Buona Notizia di Dio: «Questa discriminazione che state soffrendo all’interno del popolo eletto non riflette il mistero ultimo di Dio. Anche per voi il Padre è misericordia e benedizione».

La tavola di Gesù è una tavola aperta a tutti. Dio non esclude nessuno, neppure i peccatori più disprezzati. Gesù sa molto bene che la sua tavola con peccatori non è la “tavola pura” dei farisei che escludevano gli impuri, né la “tavola santa” della comunità di Qumran, alla quale non si ammettevano i “figli delle tenebre”. È la “tavola accogliente” di Dio. Questa tavola, condivisa da tutti, rompe il cerchio diabolico della discriminazione e apre uno spazio nuovo dove tutti sono accolti e invitati a incontrarsi con il Padre della misericordia. Gesù pone tutti, giusti e peccatori, davanti al mistero insondabile di Dio. Non vi sono giusti con diritti e peccatori senza diritti. A tutti si offre gratuitamente la misericordia infinita di Dio. Sono esclusi coloro che non l’accolgono.

Questa misericordia insondabile del Padre può essere annunciata solo da una Chiesa accogliente, che elimina pregiudizi e rompe frontiere. In ogni atto di evangelizzazione non può mancare il messaggio del perdono gratuito e immeritato di Dio. Anche oggi tutti i collettivi che sono condannati, discriminati o ignorati in qualche misura dalla società o dalla Chiesa (prostitute, delinquenti, tossicodipendenti, gay, lesbiche, transessuali…) devono ascoltare il messaggio di Gesù: «Quando vi vedete condannati dalla Chiesa, sappiate che Dio vi guarda con amore. Quando nessuno vi perdona, sentite sopra di voi il perdono inesauribile di Dio. Quando vi sentite soli e umiliati, ascoltate il vostro cuore e sentirete che Dio è con voi. Anche se tutti vi abbandonano, Dio non vi abbandonerà mai. Non lo meritate. Non lo meritiamo nessuno. Ma Dio è così: misericordia e perdono senza limiti».

3. «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso»
Gesù visse in una società profondamente religiosa. Tutto l’ordinamento religioso e sociale del “popolo eletto” e la spiritualità di tutti i gruppi venivano da un’esigenza radicale che era formulata nel vecchio libro del Levitico: «Siate santi perché io il Signore, vostro Dio, sono santo».[14] Il popolo deve essere santo, come lo è il Dio che abita nel tempio: un Dio che ama il suo popolo eletto e rifiuta i pagani, benedice coloro che osservano la legge e maledice i peccatori, accoglie i puri, ma separa gli impuri. La santità è la qualità essenziale di Dio, il principio per orientare la condotta del popolo. L’ideale è essere santi come Dio è santo.

Paradossalmente, questa imitazione della santità di Dio, intesa come separazione da ciò che è pagano, non santo, impuro e contagioso, che era pensata per difendere l’identità del popolo eletto, andò di fatto generando una società discriminante ed escludente. All’interno del popolo eletto i sacerdoti godono di un rango di purezza superiore al resto del popolo, perché sono a servizio del tempio dove abita il Dio santo. Gli osservanti della legge beneficiano della benedizione di Dio, mentre i peccatori sono discriminati. Gli uomini appartengono a un livello superiore di purezza sulle donne, sempre sospettate di impurità a motivo delle mestruazioni e dei parti. «I sani godono della predilezione di Dio mentre i lebbrosi, i ciechi, gli invalidi… considerati come “castigati” per qualche peccato, erano esclusi dall’accesso al tempio».[15] Questa religione generava barriere e discriminazione. Non promuoveva la reciproca accoglienza, la comunione e la fraternità.

Gesù lo colse subito e, con una lucidità e un’audacia sorprendenti, introdusse per sempre nella storia umana un principio che la trasforma tutta: «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso».[16] È la misericordia e non la santità il principio che deve ispirare la condotta umana. Dio è grande e santo, non perché rifiuta pagani, peccatori e impuri, ma perché ama tutti senza escludere nessuno dalla sua misericordia. Dio non è proprietà dei buoni. Il suo amore misericordioso è aperto a tutti. «Egli fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi».[17] Nel suo cuore c’è un progetto integratore. Dio non esclude, non separa né scomunica, ma accoglie e abbraccia. Non benedice la discriminazione. Cerca un mondo accogliente e solidale dove i santi non condannano i peccatori, i ricchi non sfruttano i poveri, i potenti non abusano dei deboli, gli uomini non dominano le donne.

Noi seguaci di Gesù dobbiamo incidere con fuoco nel nostro cuore le parole di Gesù: «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso». Queste parole non sono propriamente una legge o un precetto in più. Si tratta di riprodurre nella terra la misericordia del Padre del cielo. Questo invito alla misericordia è la chiave del vangelo, la grande eredità di Gesù all’Umanità. L’unico cammino per costruire un mondo più giusto e fraterno. L’unico modo di costruire una Chiesa più umana e più credibile.

4. Dinamica della misericordia
Come accogliere l’invito di Gesù ad essere misericordiosi come il Padre? Dopo secoli di cristianesimo, oggi è necessario riscattare la misericordia come un “principio di azione pratica”, liberandola da una concezione sentimentale e moraleggiante. Il linguaggio della misericordia può essere pericoloso e ambiguo. In concreto, può suggerire i buoni sentimenti di un cuore buono, ma carente di impegno pratico; può ridursi a “fare opere di misericordia” in qualche momento, senza affrontare le cause ingiuste di molte sofferenze; può intendersi come un comportamento paternalistico nei confronti di alcuni individui senza reagire davanti a una società che continua a funzionare senza misericordia e senza giustizia.

Dobbiamo ascoltare l’invito di Gesù alla misericordia come un grido d’indignazione assoluta: la sofferenza degli innocenti dev’essere presa sul serio; non può essere accettata come qualcosa di normale perché è inaccettabile per Dio. Per questo, il teologo Jon Sobrino propose alcuni anni fa di parlare del «principio misericordia», cioè, un principio interno che è all’origine del nostro agire privato e pubblico, che permane sempre presente e attivo in noi, che imprime in noi un’attenzione verso coloro che soffrono e che ci fa vivere sradicando la sofferenza e le sue cause o, almeno, alleviandola.[18]

a) La parabola del buon samaritano

Lo stesso Gesù disegnò la dinamica della misericordia in una parabola indimenticabile che raccoglie il vangelo di Luca e che è conosciuta come “parabola del buon samaritano”.[19]

Per non uscire malconcio da una conversazione con Gesù, un maestro della legge termina facendogli questa domanda: «Chi è il mio prossimo?». La domanda era molto importante in quella società. L’“amore al prossimo” era riconosciuto da tutti come un grande precetto, unito al comando dell’“amore a Dio”. Il Levitico ordina così: «amerai il prossimo tuo come te stesso».[20] Però, al tempo di Gesù, questo precetto si interpretava a partire da una concezione molto pragmatica: “Prossimo” è chi è vicino a noi e che è obbligatorio amare. Però, l’obbligo di amare chi è “prossimo” a noi diminuisce nella misura in cui cresce la distanza delle persone (membro della propria famiglia, clan, tribù, popolo di Israele…). Possono esserci perfino persone così lontane da noi (pagani, avversari di Israele, nemici di Dio…) che non è obbligatorio amare; le possiamo anche rifiutare. Questa è la domanda del maestro della Legge: Chi devo considerare “prossimo”? Fino a dove arrivano gli obblighi?

Gesù, che vive alleviando la sofferenza di quanti incontra nel suo cammino, trasgredendo, se occorre, la legge del sabato o le norme di purità, gli risponde con la “parabola del buon samaritano”, dove disegna, in maniera molto concreta, la vera dinamica della misericordia, al di sopra di ogni legalismo che ignori la sofferenza delle persone.

Secondo il racconto, un «uomo» assalito, derubato e spogliato di tutto, giace «mezzo morto», abbandonato nella cunetta di una strada pericolosa. Per fortuna, passano per la strada due viandanti. Prima un sacerdote e poi un levita. Sicuramente vengono dal tempio dopo di avere compiuto il loro servizio cultuale. Il ferito li vede arrivare pieno di speranza: rappresentano il Dio santo del tempio, senza dubbio avranno compassione di lui. Non è così. I due agiscono senza alcuna compassione. Arrivati sul posto «vedono» il ferito, «lo scansano» e continuano il loro cammino. Forse, come servitori del tempio, si attengono al “principio di santità” del Levitico.

All’orizzonte appare un terzo viandante. Non è sacerdote né levita. Neppure appartiene al popolo eletto. È uno spregevole samaritano. Il ferito può aspettarsi il peggio. Questo samaritano, invece, agisce secondo il “principio-misericordia”. Luca descrive il suo comportamento in ogni dettaglio. Arrivato sul posto, «vede» il ferito, «si commuove»[21] e «si avvicina» a lui. Poi, mosso dalla compassione, fa per quello sconosciuto tutto quello che può per rimettere in sesto la sua vita: cura le ferite, le benda, lo fa salire sulla sua cavalcatura, lo porta a un alloggio, si prende cura personalmente di lui e paga quel che manca per la sua guarigione.

b) Dinamica della misericordia

Lo sguardo di compassione. Il samaritano sa guardare il ferito con compassione. La misericordia si risveglia in noi, non tanto per l’attenzione alla legge o la riflessione sui diritti umani. Sgorga in noi quando sappiamo guardare in maniera attenta e responsabile coloro che soffrono, commuovendoci davanti alla sofferenza. Questo sguardo è quello che può liberarci dall’indifferenza che blocca la nostra compassione e dagli schemi ideologici o religiosi che ci permettono di vivere con la coscienza tranquilla.

Come dicevamo sopra, le tradizioni su Gesù hanno conservato il ricordo del suo sguardo compassionevole nel guarire gli infermi, però Matteo insiste sullo sguardo compassionevole di Gesù, non solo nei confronti degli individui, ma anche delle folle. «Sceso dalla barca, vide molta gente, sentì compassione di loro e guarì molti infermi».[22] Al vedere la gente, sentì compassione per loro, perché erano stanchi e abbattuti, come pecore senza pastore».[23] Johan Baptist Metz ha ricordato che di fronte alla «mistica degli occhi chiusi» più propria dell’Oriente, rivolta soprattutto all’attenzione all’interiorità, chi si ispira a Gesù si sente chiamato a coltivare una «mistica degli occhi aperti», una spiritualità di responsabilità assoluta verso coloro che soffrono.

Vicinanza a chi soffre. Il samaritano, mosso dalla compassione, si avvicina al ferito. Non si domanda chi è quello sconosciuto per vedere se può avere qualche obbligo nei suoi confronti per ragioni di razza o di qualche parentela. Semplicemente, si avvicina e si fa suo prossimo. Il comportamento di chi vive mosso dalla compassione non è domandarsi: «chi è il mio prossimo?», ma «chi ha bisogno che io mi avvicini a lui e mi faccia suo prossimo?». Quando uno vive mosso dalla compassione di Dio, si accosta con serietà ad ogni essere umano che soffre, qualunque sia la sua razza, popolo o ideologia. Non si domanda chi devo amare, ma chi mi vuole vicino.

Le tradizioni evangeliche su Gesù lo descrivono mentre si ferma e si avvicina a ogni infermo o mentre chiede ai lontani di avvicinarsi. Nel racconto di Matteo, Gesù, alla periferia di Gerico, ascoltando un cieco che, seduto lungo la strada, gli domanda compassione, arresta il suo cammino verso Gerusalemme. Niente è più importante per lui del grido di chi soffre.[24] Poi, ordina ai suoi discepoli di chiamare il cieco e, quando l’ha vicino, si rivolge a lui con queste parole: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Questa è la disponibilità di Gesù nei confronti di chi soffre.

Il compromesso dei gesti. Il samaritano non si sente obbligato a sottostare a un determinato codice legale. Semplicemente, mosso dalla compassione, risponde alla situazione del ferito, inventando ogni sorta di gesti per alleviare la sua sofferenza e ridonargli la vita.

Di Gesù restò il ricordo di un Profeta che, «unto da Dio con lo Spirito Santo e con potere, passò la vita facendo del bene».[25] Gesù non ha potere politico, né possiede l’autorità religiosa dei dirigenti del tempio. Non può risolvere gli abusi e ingiustizie che si commettono in quell’angolo dell’impero, però cammina per la Galilea e la Giudea, mosso dal potere che gli infonde lo Spirito Santo di Dio, seminando gesti di bontà e compassione.

Solo alcuni esempi. Abbraccia i bambini e le bambine della strada. Perché? Perché non vuole che gli esseri più fragili di quella società vivano come orfani quando hanno Dio come Padre. Benedice gli infermi. Perché? Perché non si sentano “maledetti da Dio” per non poter ricevere la benedizione dei sacerdoti del tempio. Accarezza la pelle dei lebbrosi, perché nessuno li escluda dalla convivenza. Guarisce trasgredendo il sabato, perché tutti sappiano che neppure la legge più sacra è al di sopra dell’attenzione verso coloro che soffrono. Accoglie i disprezzati e mangia con peccatori e prostitute perché, nel momento di esercitare la misericordia, il peccatore e l’indegno abbiano diritto come il giusto e il pio ad essere accolti con misericordia.

Per capire bene la dinamica della misericordia possiamo distinguere tre elementi. Nel primo momento, per così dire, dobbiamo interiorizzare la sofferenza altrui, lasciando che penetri in noi; farla nostra, lasciare che ci faccia male. In un secondo momento, questa sofferenza interiorizzata provoca in noi una reazione; diventa un punto di partenza di un comportamento attivo e responsabile; viene ad essere un principio di azione, uno stile di vita. Da ultimo, questo stile di vita va concretandosi in impegni e gesti, orientati a sradicare la sofferenza, o almeno, ad alleviarla.

5. A mo’ di conclusione

a) Verso una Chiesa samaritana

Per la Chiesa è molto importante trovare il suo posto nella società moderna. È evidente che la Chiesa di Gesù non può vivere chiusa in se stessa, preoccupata solo dei suoi problemi, pensando esclusivamente ai suoi interessi. Deve stare in mezzo al mondo, però non in qualsiasi modo. Se accoglie veramente l’eredità del Profeta della misericordia, deve stare in un luogo molto preciso: là dove si produce sofferenza, là dove vi sono le vittime, gli impoveriti, i maltrattati dalla vita o dall’ingiustizia degli uomini, le donne maltrattate nella propria casa, i rifugiati, gli stranieri senza documenti. Per dirlo in una parola, deve stare nella cunetta accanto ai feriti.

Nel corso dei secoli sono sorti nella Chiesa istituzioni benefiche, centri assistenziali, ospedali, luoghi di accoglienza, congregazioni religiose per assistere infermi, orfani, appestati, bimbi abbandonati, prostitute, malati psichici. Sono il volto compassionevole della Chiesa, il meglio che abbiamo nella Chiesa. Però non è sufficiente. Dobbiamo lavorare perché la Chiesa come tale sia configurata nella sua totalità dal principio della misericordia. La Chiesa dovrebbe farsi notare per essere il luogo dove si possa osservare la reazione più impegnativa e audace davanti alla sofferenza che c’è nel mondo. Il luogo più sensibile davanti a tutte le ferite fisiche, morali e spirituali degli uomini e delle donne di oggi. È la misericordia che può rendere la Chiesa di oggi più credibile.

Che cosa può significare oggi, nella nostra cultura, una parola del magistero sul sesso, la famiglia, la donna o sui diversi problemi della vita, detta senza compassione nei confronti di coloro che soffrono? A che serve una teologia accademica, se non ci risveglia dall’indifferenza? A che serve insistere sulla liturgia e sul culto se l’incenso e i canti non ci lasciano udire le grida di coloro che soffrono? Ha ragione J.B. Metz, che va da anni denunciando che nelle comunità cristiane dei paesi sazi d’ Europa vi sono troppi canti e poche grida di indignazione, troppa compiacenza e poca nostalgia di un mondo più umano, troppa consolazione e poca fame di giustizia.

 D’altro canto, è urgente introdurre nell’agire e nel messaggio della Chiesa un principio di evangelizzazione che formulerei così. Tutto quello che impedisce, oscura o rende difficile cogliere il mistero di Dio come misericordia, offerta continua di perdono gratuito e sollievo della sofferenza, deve sparire dalla Chiesa, perché non contiene la Buona Notizia di Dio proclamata da Gesù.

b)Verso una cultura sotto la spinta della misericordia

Se siamo fedeli all’eredità di Gesù sulla misericordia di Dio, dobbiamo affermare che ciò che è decisivo per la storia umana è accogliere, introdurre e sviluppare la compassione che esige giustizia nei confronti di coloro che più soffrono. Non basta sviluppare un progresso secondo la visione che hanno i potentati economici, politici e religiosi, quasi sempre orientati verso i loro interessi. È necessario parlare di giustizia, sì, ma di giustizia che nasce dalla compassione e che introduce nel mondo una nuova dinamica e una nuova direzione. La compassione orienta e dà impulso a tutto per una vita più degna nei confronti di coloro che più soffrono.

 Non c’è progresso umano, non c’è politica progressista, non c’è proclamazione responsabile dei diritti umani, non c’è giustizia nel mondo se non si cerca una vita più degna, più giusta e più solidale con gli ultimi della terra. Anche oggi, per i seguaci di Gesù, gli ultimi devono essere i primi. La strada verso un mondo più degno e felice per tutti si incomincia a costruirla a partire da loro. Questo primato è assoluto. Lo vuole Dio. Non dev’essere sottovalutato da nessuna politica, ideologia o religione.

Sono convinto che noi cristiani dobbiamo imparare a seguire Gesù a partire dalle vittime. Questo comporta rompere la cultura dell’indifferenza, pensare a partire dalla sofferenza delle vittime, fare spazio nella nostra vita agli emarginati e agli esclusi, promuovere la solidarietà a livello mondiale pensando alle necessità degli ultimi e dimenticandoci dello sviluppo del nostro benessere.[26]

Terminerò ricordando le grida strazianti di Francesco nella piccola isola di Lampedusa: «Abbiamo perduto il senso della responsabilità fraterna»; «La cultura del benessere ci rende insensibili alle grida degli altri»; «Siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza»; «Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro… e ora non ci interessa, non è compito nostro».[27]

Testo a cura di Francesco Strazzari.