martedì 16 ottobre 2018

SOLIDANDO: La pedagogia divina: paternità e figliolanza – Elmar Salmann

Quando parliamo di Dio come «padre» entriamo nel regno delle proiezioni umane. Normalmente sviluppiamo la nostra immagine del Padre Eterno sulla scia delle esperienze positive o negative che abbiamo fatto con il genitore che abbiamo avuto. C’è qualcosa che non va in questo modo di pensare Dio. Quando Gesù invita a non chiamare «padre» nessuna persona sulla terra, ci invita anche a rovesciare l’ordine dei nostri pensieri rispetto alla paternità di Dio e a quella degli uomini. Dobbiamo cioè prima capire in quale modo Dio è padre per capire qualcosa della paternità umana. Dovremmo dunque invertire l’Ordine della nostra esperienza consueta.

In questa sede tenteremo dapprima di entrare nella simbologia biblica, per tentare poi una descrizione fenomenologica del rapporto tra figliolanza e paternità tra gli uomini, e ritornare infine sul paesaggio trinitario e su cosa significhino i concetti di paternità e figliolanza in Dio.

La scoperta biblica della paternità

Nella Bibbia parole come «padre» e «paternità» non si intendono da sé. Nella Bibbia la parola «Padre» è uno dei nomi, ma nemmeno quello più ricorrente e in un primo momento neppure quello decisivo. Occorre un lungo cammino di purificazione per poter usare questa parola in relazione a Dio. La Bibbia dà sempre tempo al tempo. Ci sono voluti mille anni per poter giungere alla constatazione che Dio è amore, che Dio è spirito. Sono gli ultimi scritti del Nuovo Testamento che giungono a questa affermazione apparentemente elementare. Ci sono voluti mille anni di gestazione per partorire quest’unica intellezione elementare. Dunque l’uomo ha bisogno di uscire dalla sua complessità, dai complessi di superiorità e di inferiorità, per vedere chiaro, per avere un’immagine limpida di se stesso e conseguentemente anche del suo Dio. La Bibbia ci presta questo tempo e questo spazio: non richiede da noi immediatamente una fede matura, un’immagine realistica di noi stessi e di Dio, ma ci invita a fare un lungo viaggio verso una possibile purificazione delle nostre immagini e rappresentazioni. Ora, Dio già all’inizio della Bibbia si autorivela, non sotto il nome di Padre, ma come «Io sarò con voi», «Io sono». Queste dichiarazioni offrono la garanzia di un legame, di un’alleanza. Già questa prima autopresentazione di Dio dissolve tutti i nostri antropomorfismi, tutte le nostre proiezioni terrificanti o idilliache – perché noi partiamo sempre o dalle nostre esperienze positive o da quelle traumatiche e per questo sotto le nostre mani la realtà si trasforma in un incubo o in una cuccagna.

Quando Dio si autopresenta, in occasione dell’evento toccante del roveto ardente, cancella già tutte le ideologie o le idolatrie biologiche, sociali. Dio non è un duce, non è un Führer, non è un padreterno mastodontico, un poliziotto, un tiranno, un maschio… Tutte queste immagini vanno cancellate.

«Io sarò con voi»: non c’è alcuna immaginazione. Anche l’immagine del roveto ardente si autocancella perché, appunto, non brucia, non divora; e un fuoco che non brucia è un paradosso che riflette la necessità di operare un’inversione nelle nostre immagini. Dio è una presenza – «Io sono e sarò con voi» – che è nello stesso tempo remota e liberante. Dunque non vi è nulla di una paternità schiacciante, di un padre biologico che si vanta di aver generato tanti figli. Tutte queste associazioni mentali che noi leghiamo alla paternità – dal padre di Kafka ai vari padri della patria, a padri fragili o strapotenti – non sono pertinenti nel caso e nella casa di Dio. Dio è un nome senza immagini, un creatore remoto, al massimo un liberatore nella saga dell’Esodo, o un legislatore, inteso come garante e testimone fondante della vita. Mi pare, come vedremo più avanti, che questa sia l’immagine più matura delle figure genitoriali: trasformarsi da origine biologica in testimoni di vita. Dio inizia la sua «carriera di rivelazione» così: si autopresenta come garante e testimone fondante della vita e delle leggi che sorreggono, sostengono, promuovono la vita: In questa idea, in questa presentazione iniziale forse fa già capolino, o affiora indirettamente e quasi di soppianto, la figura paterna, ma non come figura di origine, di fondazione, di adozione, ma appare come presenza, come figura protettiva e salvifica. In Is 64 leggiamo: «Tu Signore, tu sei il nostro padre». Quasi in un afflato di meraviglia avviene questa identificazione tra il Signore e l’immagine del Padre. Dunque, un riconoscimento posteriore, non un’ascendenza biologica, per cui riconosciamo, nell’immagine di questo Dio che ci accompagna, una nuova forma di paternità che del resto si lega ad altre immagini, anche e soprattutto presso i profeti: quella dello sposo o della tenerezza della madre… Non si tratta più di una parentela biologica, di un sistema di affinità predisposte e predefinite, ma della scoperta del paesaggio divino nel quale noi possiamo deambulare, fare la passeggiata della nostra vita. È evidente che qui viene attuata un’inversione di tutti i valori, di tutte le immagini e sequenze alle quali noi siamo abituati.

Dunque, nell’Antico Testamento ci vuole un lungo cammino per riconoscere Dio come padre, per applicare il nome di paternità alla presenza divina. Si tratta di un lungo processo di ri‑conoscimento reciproco. La Bibbia è questo tirocinio, questo apprendistato per imparare il nome giusto di Dio. Ripeto: ci sono voluti mille anni di storia perché gli uomini si potessero definire figli e figlie di Dio e potessero chiamare Dio come Padre. È ovvio che nell’Antico Testamento ci voleva anche una purificazione dall’idolatria. Le divinità dei popoli vicini erano figure di padri molto forti, gioviali, che facevano anche qualche scappatella nel mondo, magari per generare figli terrestri o che solevano adottare i re e, dunque, rappresentare la propria potenza nel potere politico dei re. Di questo tipo di immaginazione ci sono soltanto assonanze remote nella Bibbia, per esempio attorno alla figura di David, ma anche questo re viene umiliato e ci viene rappresentato con tutta la sua peccaminosità, ambivalenza e fragilità. C’è una promessa messianica che si lega al nome di David e alla sua potestas regale, però tutto questo non garantisce nessuna incolumità. Non c’è una garanzia di identificazione e di potere tra Dio e l’istituzione del potere terreno. Anche questo è un passaggio di quel lungo processo di purificazione attraverso cui l’immagine del padre divino ci verrà restituita.



Passiamo al Nuovo Testamento. Per certi versi quanto abbiamo detto vale anche per l’immagine di Gesù. Non tutti i Vangeli usano il nome di «padre» per Dio. In Marco, il nome di padre ricorre soltanto quattro volte per designare Dio. Nel Vangelo di Luca è presente quindici volte. In Matteo, quarantadue volte. In Giovanni, più di cento volte. Assistiamo, dunque, a una sequenza di crescita e di frequenza che corrisponde perfettamente agli esordi, ai diversi tipi di inizio dei quattro Vangeli.

Marco ci presenta immediatamente il Gesù adulto, predicatore del regno dei cieli. L’evangelista non conosce nessuna storia di infanzia, ma bruscamente ci introduce nella vicenda adulta di Gesù e al confronto con il suo messaggio:«Convertitevi». Marco ci dice così che siamo finalmente adulti davanti al nostro Dio.

In Luca c’è una concorrenza tra le due nascite di Giovanni Battista e di Gesù che si incrociano e trovano il nodo del calice nell’incontro tra Maria e Elisabetta. È una costruzione esteticamente molto bella, ma anche drammaticamente ben riuscita, una messa in scena perfetta. Dunque Gesù ha una discendenza verificabile, ha una madre concreta, un padre che rimane un po’ in penombra (forse per cedere il posto, a lungo andare, al riconoscimento del padre celeste).

Matteo inizia con una lunga lista genealogica, ricostruisce una storia che risale agli albori del mondo e della vocazione del popolo di Israele. In questo modo l’incarnazione del Verbo e la nascita del figlio di Dio nel seno di Maria diventano la chiave di volta di un processo. Matteo pone l’accento su un’origine, una nascita, che si presenta almeno sotto tre aspetti: l’ascendenza genealogica, ossia la linea dei padri terrestri, la nascita nel seno di Maria e la nascita del miracolo della vicinanza divina.

In Giovanni assistiamo alla coeternità, alla co-presenza eterna tra Padre e Figlio, tra Dio e Logos nell’eternità. Una volta per tutte si apre il sipario e assistiamo allo spettacolo epifanico divino.

Queste quattro forme di raccontarci gli esordi di Gesù non sono tra di loro incompatibili, ma nemmeno soltanto complementari. Sono quattro tagli longitudinali e trasversali attraverso il destino e l’essere di Gesù. Nessuna teologia potrà mai reggere a questo quadruplice impatto, a questa quadruplice prospettiva. Tenerne conto in modo equilibrato è impossibile. Per quanto possa sembrare strano da dirsi, il cristianesimo non è una religione dogmatica, ma ha bisogno di diversi tipi di racconto. Questa almeno è l’ottica del Nuovo Testamento: per questo abbiamo quattro Vangeli, e non uno solo. Potremmo anche dire, con una battuta, che nei Vangeli non c’è ancora Magistero.

Torniamo adesso al discorso del Gesù figlio. La Lettera agli Ebrei, in una formula un po’ enigmatica, afferma che «Gesù ha dovuto imparare l’ubbidienza». Significa che Gesù ha dovuto riconoscere lentamente i ritmi e le leggi della sua esistenza, ha dovuto imparare a riconoscere Dio come suo padre, a riconoscersi riconosciuto da questo padre, persino e soprattutto nel momento del fallimento. Ha imparato l’ubbidienza fino a scoprirsi rappresentante con‑degno, con‑geniale, con‑genito di questo padre. Forse, per la prima volta, questa scoperta è presente in quella parabola molto cangiante e molto polivalente del cosiddetto figliol prodigo o padre misericordioso che dir si voglia (in Lc 15). In quel racconto Gesù si autoidentifica con il ruolo del padre misericordioso per dimostrare che Dio è il padre che si abbassa fin quasi al ridicolo, che è accondiscendente, che viene incontro, che si espone al ludibrio dei servi e del fratello maggiore, che si umilia per il figliolo perduto, prodigo.

Gesù si mette anche nei panni del figliolo prodigo – lo desumiamo da quella frase: «Il mio figlio è morto e poi risorto» – per dimostrare che Dio si rivela anche attraverso questo ruolo. Forse c’è ancora un’altra annotazione in questa parabola che, come molte altre, ha una ricchezza semantica fuori dal comune. C’è la concorrenza tra i due figli, quello che, nel tirocinio della vita, ha imparato a riconoscere la paternità di Dio e quello che crede di avere un diritto, di esser ormai autonomo e che si sente schiacciato dal padre (forse il fratello maggiore è già un’immagine dell’antico popolo eletto, gli ebrei).

Anche se solo per accenni, abbiamo visto come la Bibbia ci inviti a fare un lungo cammino fino alla riscoperta sempre rinnovata di Dio come Padre, per non basarci sulle nostre esperienze e proiettarle in cielo. Che è quello che emerge anche dalla preghiera che Gesù ci ha insegnato. «Padre nostro che sei nei cieli» – «uno solo è il padre vostro, quello del cielo» –, «sia santificato il tuo nome». Dobbiamo uscire dalla nostra immaginazione, che rischierebbe di essere semplicemente una proiezione delle nostre esperienze, per imparare a santificare il nome di un Dio che chiamiamo «padre nostro». Per imparare che Dio non è un padre che ci sta alle spalle, che ci sorveglia, che ci pedina, che intende schiacciarci, ma un padre, misericordioso, che ci salvaguarda. Salva‑guardare, una parola bellissima, che dice precisamente il modo di essere del Padre celeste nei nostri confronti.

Definirsi figli per diventare padri

È ovvio che tra gli uomini il rapporto genitori‑figli si deve alla genesi biologica, ma già il battesimo vorrebbe interrompere questo rapporto troppo stretto. Il sacramento dell’iniziazione cristiana ci ricorda che il neonato non appartiene ai genitori, non è loro possesso, ma è una creatura sui generis e sui iuris: non appartiene soltanto alla famiglia ma anche al genere umano, alla famiglia della Chiesa. Dunque l’uomo nasce in una communitas, in una comunione, non solo biologica. Il figlio ha bisogno in modo assoluto della cura dei genitori, e il rapporto tra genitori e figli costa molto ad ambedue le parti, perché è un lungo processo tra delusioni e amore. In questo rapporto quanto mai travagliato, quanta responsabilità, quanta pertinenza, quanta pazienza costa l’essere padri e madri, così come anche l’essere figli non è cosa da poco. Il figlio e la figlia, lungo il loro cammino, devono imparare a riconoscere la loro provenienza, imparare a riconoscersi figli, imparare a onorare le loro sorgenti. È questo il senso di quel comandamento che invita a onorare il padre e la madre, che evidentemente non si limita all’idea di un rapporto sciolto e conciliato con le proprie sorgenti, i propri genitori.

Ci vuole un lungo cammino per riconoscersi riconosciuti dai genitori e viceversa. Il comandamento non dice di amare i genitori, ma di onorarli. Evidentemente l’amore è un sovrappiù che non si lascia comandare o imporre, è un sovrappiù quasi inattendibile. Ed è già molto se i figli riescono a onorare i loro genitori, a rispettare il loro ceppo originario, il retroterra della loro vita, a poter confessarsi figli. Perché è traumatico non essere creatori di se stessi, scoprire che siamo stati gettati su questo pianeta e nessuno ce l’ha chiesto. La vita ci è stata non soltanto donata ma anche imposta, come il nome che portiamo. Questo dimostra che nessuno di noi è signore della sua vita, ma dipende totalmente dalla volontà altrui. Oggi facciamo particolarmente fatica a riconoscere ciò, ma forse questo era già il primo peccato: non riuscire ad ammettere di dovere la propria esistenza a un altro, di essere debitore della propria vita a un altro, non poter riconoscere che la mia sostanza, la mia vita, la mia libertà, il mio nome, le mie doti, tutto questo mi viene da lontano e non potrò mai prendere possesso delle mie origini.

È necessario un lungo processo di maturazione per potersi confessare figli e figlie di questi genitori, ma solo una persona che avrà imparato a onorare le sue sorgenti, il suo retroterra, i suoi genitori, potrà diventare a sua volta padre e madre, creare nuova vita, diventare testimone della bontà della vita. Non per nulla il comandamento «onora il padre e la madre» aggiunge «affinché tu abbia una lunga vita». Solo chi si riconosce figlio può diventare padre, auctoritas, non solo a livello biologico, ma soprattutto come testimone della vita. Colui cha ha un rapporto sciolto, conciliato con il passato, potrà anche generare la propria vita, prenderla in mano, avere un futuro. Oggi sperimentiamo un’inettitudine diffusa a diventare padri, genitori, testimoni di vita, perché non abbiamo più il coraggio di definirci figli. Significativamente oggi si punta piuttosto all’essere e allo scoprirsi tutti fratelli con gli stessi diritti…

Un’affermazione che in sé non costituisce certamente un male, ma che andrebbe comunque relativizzata, dal momento che la fratellanza non è che ci renda migliori o ci preservi dalla possibilità di sbagliare. Anche i fratelli si ammazzano: è così fin da Caino e Abele, da Romolo e Remo… E quindi una società di fratelli non è per forza di cose più pacifica, priva di guerra, di concorrenza, di conflittualità.

Quello che vorrei mettere in luce è che forse stiamo vivendo un momento di trapasso da una società «paterna» a una società «fraterna». E operiamo una rimozione rispetto ai limiti della vita, per cui da un lato non sappiamo più riconoscere il significato di dipendenza che è implicito nella nascita e, parallelamente, non abbiamo più la forza di abbandonarci alla morte (non è un caso neppure che chiediamo alla medicina un prolungamento esasperato della nostra vita).

La crisi del cristianesimo contemporaneo è la crisi di una religione che ha un rapporto coraggioso e adorante nei confronti della nascita, e un rapporto di accettazione e di accoglienza ospitale nei confronti della morte. Oggi sembra, invece, che il nostro rapporto adolescenziale con la vita non permetta più un riconoscimento della nascita, ossia della nostra dipendenza, né un riconoscimento della nostra morte, ossia della nostra finitezza. Non riusciamo più ad accettare e ad abbandonarci a questi punti cruciali e nodali della nostra esistenza che implicano una passione, ma direi anche una passività, visto che un altro dei miti contemporanei è quello dell’attività.

Solo una persona che accetti la sua figliolanza può diventare a sua volta padre, auctoritas nel senso buono della parola, ma per questo ci vuole molto impegno e parecchio tempo.

Naturalmente, il padre umano è sempre un’istanza biologica, un generatore, che condivide qualcosa con suo figlio, e per certi versi è anche un concorrente del figlio, nel senso che, per esempio, intralcia il rapporto con la madre, come Freud ha mostrato parlando dei complessi edipici (peraltro, tendo a credere che un modello migliore di Edipo sarebbe stato Abramo). A lungo andare il padre dovrà trasformarsi sempre di più in un garante della libertà, del distacco, del riconoscimento.

La maternità è un fattore molto più biologico che non la paternità nei confronti dei figli. La madre ha un rapporto intimo, fisiologico con il bambino, mentre appunto la paternità va riconosciuta. Oggi ci sono i test a dimostrarcelo, mentre prima era essenzialmente un atto di riconoscimento giuridico: il padre dava il nome. Il padre dunque è un’istanza che dovrebbe dettare le leggi e introdurre nelle leggi della vita, ma, in questo, dovrebbe evocare anche la libertà dei figli.

Un buon padre vuole che i figli diventino liberi, che possano diventare a loro volta padri e madri, che non rimangano figli dipendenti e neppure che siano dei semplici imitatori e ripetitori delle figure genitoriali.

Ripenso a mio padre, un mercante ebreo che non mi ha mai costretto a calcare le sue orme, anche se l’ironia della vita mi porta oggi a scoprire, a distanza di tanti anni, quanto io sia simile a lui. Quando diventai sacerdote, mi disse, semplicemente, che gli sembrava giusto che seguissi la mia strada e la mia vocazione (anche se non mancò di avvertirmi che, secondo lui, entravo in un’azienda fallimentare; e devo riconoscere che aveva fin troppa ragione…).

Un’autorità vera favorisce la libertà altrui, perché sa che essa stessa è stata figlio, assolto, sciolto da un altro padre. La vera autorità, la vera paternità, richiede poi una grande capacità di solitudine, per riuscire a non dipendere dal figlio o dai dipendenti. Oggi non vogliamo più essere padri, non vogliamo più essere insegnanti, perché temiamo la solitudine della decisione, dell’autorità. Mentre fa parte del difficile mestiere di padre, di madre, di insegnante, il fatto di non dipendere dal riconoscimento immediato dell’altro. Un cattivo insegnante vuole avere una risonanza immediata, si preoccupa di avere successo. La solitudine dell’autorità non è superbia, non è freddezza, ma è una disposizione umile eppure sicura di sé, perché sa che c’è con i figli o gli allievi uno spirito comune che viene condiviso e di cui l’autorità si fa testimone.

L’autorità genera o, meglio, rigenera la vita. Dobbiamo passare sempre più dalla logica della generazione a quella della rigenerazione, dalla nascita alla rinascita. Questo è la pedagogia.

Un’autorità deve superare l’indolenza, superare se stessa, i propri limiti, avere il coraggio di iniziare qualcosa, di investirsi, di esporsi, di esporre il proprio verbo, il proprio spirito, la propria sostanza di vita per generare e rigenerare la vita altrui. Ogni autorità sa che si procrea la sua concorrenza, che forse a lungo andare la ucciderà. Non posso investirmi per mietere riconoscenza e gratitudine: l’investimento nella vita è sempre più grande della risonanza, è ontologicamente così, non dipende dall’ingratitudine dei figli. Questa sproporzione rimarrà sempre, perché la vita è fatta così: ha una linea di investimenti che non vengono ripagati, ed è un sovrappiù quando torna qualcosa.

Autodominio, signorilità, potestas e potenza e, accanto a questo, fecondità, accondiscendenza, un’inclinazione amorosa nei confronti dell’altro. In questo sta l’auctoritas, la paternità e la pedagogia divina e poi umana: in un ritmo di distacco e di fecondità, per cui il padre assume tratti materni.

La paternità divina

Gesù, il figlio di Dio, afferma: «Il mio cibo è di fare la volontà di colui che mi ha mandato». E aggiunge: «Il figlio non fa nulla da sé, ma tutto opera il padre nel figlio» (Gv 5). Allo stesso momento il figlio dichiara in modo assoluto: «Io sono». Gesù è un io adulto, forte, autonomo. In Gesù il riconoscimento della dipendenza assoluta e l’autonomia altrettanto assoluta si favoriscono e accrescono insieme.

In questo, si rispecchia qualcosa dell’immagine trinitaria. In Dio non ci sono conflitti edipici tra padre e figlio, non c’è una concorrenza perché c’è un’assoluta sincronicità. Il Padre non dà qualcosa di sé ma comunica tutta la sua coscienza di essere Dio, la natura divina, che possiamo per l’appunto definire come la coscienza che Dio ha di essere Dio. E il Figlio riceve tutta questa natura, questa coscienza divina, nel medesimo momento. Il Padre dà tutto il sé divino e il Figlio esprime questo dono e lo riceve. E interessante che la seconda persona della Trinità non si chiami soltanto Figlio, ma anche Verbo: dunque è espressione congeniale di Dio Padre, è tanto congeniale che è allo stesso momento persona, figura in sé stante, responsoriale, corrispondente. Non c’è prima il padre che poi decide di generare un figlio, come nelle mitologie, ma c’è una sincronicità assoluta e perfetta, un comunicazione e testimonianza della coscienza e della vita che loro condividono perfettamente.

Nella Trinità abbiamo una circolarità del riconoscersi riconosciuti e questa è una bella definizione, forse un po’ astratta, dell’amore. Riconoscersi riconosciuti, reciprocamente: questo è l’ideale, il punto culminante dell’amore. Sapersi riconosciuti dall’altro che sa che io lo riconosco: questo è il campo ellit­tico dell’amore. Viviamo nella fecondità dell’amore che non distrugge il distacco, che non tende verso un’identità o verso l’annullamento delle differenze, ma rispetta lo spazio di libertà altrui, anzi vuole che l’altro sia altro da me, non un’imitazione di me.

In un rapporto signorile, generoso, ci riconosciamo riconosciuti, ci testimoniamo a vicenda la vita e l’amore, lasciamo che l’altro sia diverso. Questo è un rapporto inseparabile e inconfondibile. Questa è la vita trinitaria, uno spazio ellittico nel quale il Padre è quello che comunica la vita e il Figlio la riceve, senza che però ci sia una dipendenza umiliante, ma un riconoscimento reciproco. Questo deve essere il modello dei nostri rapporti di coppia, di amicizia e, a lungo andare, anche di quello tra genitori e figli.

Dio è in sé processo di riconoscimento, scioltezza, spazio, paesaggio multipolare. Per questo la fede nel Dio cristiano dovrebbe contrastare ogni ideologia mitologica che vede Dio come utero materno, come spazio che assorbe tutto. Le ideologie, in fondo, hanno un tratto di iper‑maternalismo e iper‑paternalismo. Pensiamo al fascismo con i suoi duci e i suoi Führer a costituire la sfera iper‑paterna accanto a quella sfera quasi uterale, costituita dal popolo, dalla razza che contiene tutti. La Chiesa non è del tutto esente da questa simbologia materna e, talvolta, è prevalsa anche un’immagine dittatoriale di Dio.

Il cristianesimo non è una religione facile rispetto, per esempio, all’Islam che risulta più plausibile, con un Dio totalmente trascendente e senza immagini che impone alcune regole elementari di vita (e questa è la forza dirompente dell’Islam). Nell’ebraismo, Dio è già più complesso che nell’Islam, perché si tratta di un Dio assolutamente trascendente, che però si lega a un popolo e fatalmente anche a una terra con tutte le conseguenze della teologia politica, che spacca oggi lo Stato di Israele. Il Dio cristiano, un Padre nostro che contiene in sé il mistero della figliolanza, è senz’altro più complicato, ma forse per questo sa reggere alle vicissitudini della vita e indicarci la necessità di un rapporto sciolto tra di noi. Ci vuole un lungo cammino per uscire dalle delizie e dai traumi della nascita, dal rapporto primordiale con i genitori, e poter interpretare con gratitudine e riconoscenza la propria vita e testimoniare la vita. Ecco il compito o, meglio, l’invito che ci viene da Dio cristiano: vivere la paternità, la maternità, la figliolanza con libertà, con sprezzatura, con signorilità, con fecondità e distacco, testimoniando la libertà e la vita.

NOTE BIOGRAFICHE :

Elmar Salmann, nato il 12 maggio nel 1948, a Hagen
(Germania), ha compiuto studi di filosofia, lettere e
teologia a Paderborn, Vienna e Münster. Diventa monaco
benedettino dell’Abbazia benedettina di Gerleve
(Westfalia) nel 1973. Dal 1981 è docente filosofia e teologia sistematica
presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo (Roma), alla
Pontificia Università Gregoriana (Roma), e alla
Hochschule für Philosophie (Monaco di Baviera).

Si occupa di poesia e teologia, ebraismo e fede
cristiana, modernità e cristianesimo. I suoi principali studi vertono sul rapporto
fra esperienza umana e simbolismo, cristianesimo e
cultura moderna, mistica e filosofia, teoria della grazia
e psicologia, attraverso un confronto con filosofi (Kant, Hegel, Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger, Levinas…), teologi (Tommaso, Rahner, de Lubac, Barth, von Balthasar, Drewermann, Jüngel…), senza rinunciare alla grazia dei poeti (Caproni, Montale, Sbarbaro, Borges, Pessoa…).