mercoledì 3 ottobre 2018

Enzo Bianchi: "soffio vacuo"

A più riprese nel corso del suo pontificato, papa Francesco ha stigmatizzato con forza il vizio della chiacchiera e della mormorazione, così ricorrente in ogni comunità sia in ambito ecclesiale che sociale.
Ultimamente ha mostrato che preferisce rispondere con un silenzio di decantazione ad accuse che appaiono come il debordare nel pubblico dominio di quanto fermentato in ambienti non sempre trasparenti né disinteressati.

Ma cosa sono le mormorazioni? La mormorazione è parola, discorso ostile che esprime riprovazione, malumore, ma che non viene detta ad alta voce e a chi la si dovrebbe dire come eventuale correzione fraterna, bensì viene sussurrata di nascosto, celata, più simile a un rumore indistinto che a una parola umana (murmur). È il modo più facile di sfogare la violenza verso l’autorità e le sue decisioni o verso altri in comunità, quando non si ha il coraggio del faccia a faccia, del rivolgere la parola chiaramente a chi giudichiamo bisognoso di correzione e di critica, oppure del prendere la parola negli opportuni contesti di dialogo franco.

Sì, nella mormorazione si giudica l’altro, lo si contesta, ci si allea contro l’altro, nutrendoci dell’inimicizia che ci abita e che vorrebbe la negazione dell’altro, soprattutto se l’altro ci ricorda il limite, la legge, la regola, il Vangelo. La sapienza dei padri del deserto ci fornisce un antidoto efficace a prescindere dall’istituzione all’interno della quale serpeggiano le mormorazioni: “Se un fratello ti costringe ad ascoltare calunnie contro un suo fratello, non lasciarti intimidire e non credergli, peccando contro Dio, ma digli piuttosto: ‘Sono un pover’uomo: ciò che mi dici riguarda me e non sono in grado di portarne il peso’” (Abba Isaia, Discorsi ascetici 4,1).

Quando poi la mormorazione trova uno spiraglio e si insinua al di fuori dello spazio asfittico in cui è nata e si è sviluppata, ecco che si deforma ulteriormente in “calunnia” la quale, per natura, richiede di ritagliarsi uno spazio nel dominio pubblico. A proposito di questo vizio leggiamo nel Midrash ai Salmi: “La calunnia è peggio dello spargimento di sangue! Chi commette un assassinio, infatti, uccide una persona sola, mentre chi sparge calunnie ne uccide tre: se stesso che le racconta, quello che a esse presta ascolto, e quello a cui si riferiscono” (Sul Salmo 52,2). Ecco la gravità della calunnia, che spingerà l’Apostolo a scrivere: “I chiacchieroni, i maldicenti, i mormoratori non erediteranno il regno di Dio” (cf. 1Cor 6,10).

San Paolo accosta qui tre categorie contigue di cattivo uso della parola, cominciando dalla chiacchiera, che traveste di innocua leggerezza la propria pericolosità. La chiacchiera infatti, pur meno grave, è più quotidiana ed estesa e rischia così di creare assuefazione. Nella sua apparenza banale, non ha di mira tanto l’autorità, ma ama sostare su problemi e vicende che riguardano gli altri. Nella chiacchiera si inventano molte cose, magari senza calunnie, ma le parole hanno il loro peso e di solito influenzano chi le ascolta o lo ispirano a pensare in un determinato modo. Nella chiacchiera, inoltre, si interpretano soggettivamente i fatti o le parole, ma si pretende di essere oggettivi e soprattutto si distorcono molti messaggi, molti significati, o non dicendo tutto, oppure calcando, mettendo in evidenza alcune parole ascoltate rispetto ad altre. Sì, chiacchiera come pettegolezzo, come noncuranza e stupidità di chi non sa ciò che dice, come lingua irrefrenabile, incapacità di tacere portando il peso di una solitudine che è fondamentalmente costitutiva di ogni essere umano… Scrive Giacomo nella sua Lettera: “Chi sa tenere a freno la lingua è un giusto, un maturo” (cf. Gc 3,2), perché “la lingua è un fuoco, un mondo di male” (Gc 3,6).

Conosciamo bene come nelle curie, nelle comunità, in ogni gruppo sociale ci siano sovente persone che, non appena si incontrano, devono parlare degli altri e parlarne male: non hanno molte cose da dirsi, perché hanno un “io minimo” e vivono in un mondo piccolo e angusto, perché restano oziosi e così riempiono con le chiacchiere il loro tempo, soprattutto perché non vogliono guardarsi dentro e contemplare le proprie opacità. Diventano allora esperti a riconoscerle negli altri e a parlarne sempre, in ogni occasione. Ma sul soffio vacuo di queste parole non si edifica nulla.