La fede concreta non mira a generare risultati, ma rivoluzioni. Non occupa spazi, ma inizia processi di speranza. La vita di don Pino Puglisi è tutta qui, in questo rovesciamento deciso del trono del male con il suo martirio. Sono certo, infatti, che chi vive per difendere il bene, fino alla completa consumazione di sé, non muore invano. È la prerogativa di chi vive per il Vangelo e di solo Vangelo, con addosso solo l’armatura della speranza, perché lui è profeta di speranza, davanti alle macerie della violenza cieca della malavita.
Tutta la vita di don Pino è racconto di chi si è imbattuto nella via di quella Giustizia che si affaccia dal cielo e ha camminato davanti a Dio e agli uomini con la Verità fatta germogliare sulla terra, con la propria vita (cfr Salmo 84, 12-14).
L’esempio di don Pino è un dono gratuito di amore. È risposta alla chiamata di Dio, nella sua ininterrotta laboriosità come uomo e come prete, come continuatore dell’opera infusa nell’umanità da Dio stesso. Chiunque l’abbia incontrato lo può attestare. I giovani allievi, i fedeli, i parenti, gli amici e tutte le anime che grazie a lui, alla sua parola ferma e dolce hanno ricevuto il balsamo della consolazione. E chi lo ricorda lo fa con le lacrime agli occhi. Perché un santo così non dovrebbe mai passare da questo mondo. Basta rileggere le tante testimonianze per avvertirne il calore, la nostalgia. Il suo insegnamento di vita è rimasto, si è ben radicato nel tessuto siciliano e palermitano in particolare. Per questo mi auguro che il messaggio sia diffuso nelle scuole, negli ambienti dove si decide il futuro del nostro Paese, perché don Puglisi ha tanto da suggerire in materia di lotta a favore dei più indifesi. Non sono i muscoli della corruzione, ma il sorriso di un cuore puro che oggi può e deve conquistare il mondo, dal di dentro. Con uomini che stanno in piedi, saldi nella dignità, che non si piegano ai servigi della delinquenza e non si sporcano con la criminalità.
La radicalità con cui ha dimostrato la limpidezza della sua anima oggi suscita sete e fame di liberazione dal male, dall’oppressione di quanti non vivono l’altro come fratello ma lo eliminano come nemico. Emerge chiarissimo, dalla sua figura, il volto del cristiano, della sua capacità, non solo di discernere, ma anche di porre dei segni nei tempi.
In misura crescente si avverte oggi che a mancare non sono le cose che ci possono rendere felici, quanto piuttosto il desiderio di felicità vera. Ci si imbatte talvolta in surrogati, o come ci sottolinea spesso papa Francesco, «tendiamo più ad accontentarci delle copie, invece che ricercare l’originale». La sfida è tutta qui: il compiersi della storia avviene per autenticità e genuinità, non per contraffazioni o uccisioni. Don Pino ha incarnato quanto credeva. La Parola si è fatta vita. E la vita ha corrisposto alla Parola accolta e annunciata fino a posarsi come un ramoscello d’ulivo ai piedi di quanti ha servito per amore di questa Parola, che lo ha chiamato a cooperare al Regno di Dio.
Di fronte a don Pino impallidisce chiunque finora non abbia preso sul serio la propria missione nel mondo. È lui che scrive ai suoi giovani queste parole nettissime, inequivocabili: «Dobbiamo seguire la nostra vocazione, il nostro progetto d’amore, ma non possiamo mai considerarci seduti al capolinea. Già arrivati. Si riparte ogni volta. Dobbiamo avere umiltà, coscienza di aver accolto l’invito del Signore, camminare, poi presentare quanto è stato costruito per poter dire: sì, ho fatto del mio meglio».
In don Pino l’impegno a rendere migliore la periferia dimenticata di Palermo, che gli aveva affidato il cardinale Pappalardo, è un desiderium naturale. Nessuno sforzo compie ad amare quella terra di desolazione e di paura, intrisa di mafia, segnata dalla disoccupazione e da mille problemi sociali. Non c’era una scuola media, l’unico quartiere di Palermo a non averla. Non c’erano servizi, né punti di riferimento onesti. C’erano solo tanti cosiddetti uomini d’onore ma che non onoravano di certo né i propri giovani, né riscattavano dalla povertà le famiglie, piuttosto le tenevano soggiogate al terrore. E questo non è onore! Lo ha gridato dall’altare don Pino, non temendo il suo sicario, pronto lì a farlo tacere per sempre.
Quando appresi la notizia della sua uccisione, scrissi sul mio diario, raccolsi lacrime e sdegno, speranze e orizzonti nuovi, nel mistero dell’immolazione. Sentii subito cioè che si trattava di un martire, umile e semplice. Mite, soprattutto, di quella mitezza che sconvolge e abbatte i potenti dai troni. Come per Maria di Nazareth.
Sento che è un modello autentico, per me e per i preti, per ogni cristiano che fa della giustizia, della carità verso gli ultimi il suo pane quotidiano. E, credo, per tutte le Chiese del Sud che non possono fare a meno di guardare a don Pino come a quel fascio di luce che irradia la terra del Sud. Modello, perché ha saputo camminare a testa alta, come spesso mi raccontava suor Carolina Iavazzo, che io accolsi nel 2001, a Bosco Sant’Ippolito, una frazione di Bovalino, ai piedi di san Luca, quando ero vescovo a Locri.
Quella suora, che tanto ha operato con don Pino, ora, lasciato Brancaccio, opera in questa realtà, segnata dalla mafia, con grande zelo e frutto. Attua tutti quegli insegnamenti che aveva appreso dal nostro Beato, in tanti anni. Don Pino infatti ha educato a questo, perché voleva che i suoi ragazzi camminassero così. Non mafiosi, dal collare scintillante, ma ragazzi veri, che frequentavano il Centro Padre Nostro, da lui creato, proprio perché ogni bambino avesse un orizzonte grande come il cielo. Perché solo quel Padre che «è nei cieli» ci permette di camminare senza diventare schiavi della criminalità: né padroni né padrini, ma un solo Padre, quello nei cieli. Per questo, è partito dai bambini, perché con loro si può iniziare un sentiero pulito. A loro ha insegnato le regole del gioco, da quelle del pallone a quelle dei campeggi estivi, tra il verde della Sicilia.
Non si è opposto alla mafia per una scelta volontaristica. Altri lo hanno fatto e facevano rumore. Lui, no. Lui faceva il prete. E lo faceva bene, pregando, annunciando il Vangelo con chiarezza, vivendo in stile di vera povertà, libero dal denaro e dagli schemi di giudizio.
Solo un prete povero e libero poteva gridare e chiamare «bestie» i mafiosi. Li svergognava pubblicamente, per la loro viltà, denunciando le loro opere attuate nel buio, sempre ai danni di qualche fratello. Diceva con chiarezza: «Chi usa la violenza non è un uomo!». La mafia teme le coscienze libere e pure.
Il 9 maggio 1993 si recò in Sicilia, ad Agrigento, Giovanni Paolo ii. Nel chiudere il suo discorso nella Valle dei Templi, battendo con forza il pastorale, affermava con tono d’anatema: «Dopo tante sofferenze, avete diritto di vivere nella pace. I colpevoli, la minoranza, che portano sulle loro coscienze tante vittime umane debbono capire che non si permette di uccidere degli innocenti. Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, qualsiasi mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Qui ci vuole una civiltà della vita». E aggiunge, con parole profetiche, impresse nel cuore di tutti noi: «Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Verrà un giorno il giudizio di Dio!».
Padre Puglisi ascoltò in parrocchia quelle parole. E lì in quel momento lui sentì che erano per il suo quartiere, per la sua gente. Ma soprattutto per lui. Nonostante tutto, continua a credere nella conversione dei mafiosi. Sente che sono cattivi soprattutto perché soli, rintanati in una logica di morte. Li vuole anch’essi liberi. Dalla paura, dalla violenza, dalla morte. È morto per questo. Col desiderio ardente che ogni uomo conoscesse Cristo e si lasciasse amare da Lui e ripulire dalle seduzioni del male, per correre tra le valli del Bene, dove la fiaccola della vera vita non si spegne mai. Proprio lì dove ora don Pino dimora intercedendo per la conversione di quanti ancora impugnano le armi dell’odio e si impediscono di essere uomini tra gli uomini. Ponendosi al seguito della Verità del Vangelo, don Pino si è donato al cuore di Dio e al cuore dei propri fratelli, con la stessa intensità e fedeltà.
Nel dibattuto tema della giustizia sociale, l’urgenza è quella di creare posti di lavoro, pulito e dignitoso per tutti i nostri giovani. Solo partendo da qui, capiremo che abbracciare l’altro e impegnarci per il suo bene non è mai una sconfitta, ma la più grande vittoria sulle divisioni, sugli sfruttamenti e le malvivenze. Il cambiamento allora avrà la sua casa, la sua fioritura di riscatto per tutti.
di Giancarlo Bregantini