Proponiamo una meditazione di don Nicolò Ceccolini, «La guarigione dell’anima», come aiuto per vivere questi giorni di preparazione alla Pasqua, il momento privilegiato per rivolgere il nostro sguardo a Cristo.
di Nicolò Ceccolini Marzo 2017
Come già per il popolo ebraico, anche per noi in Quaresima deve compiersi un esodo. Il lungo viaggio compiuto dagli ebrei nel deserto è un cammino di guarigione del loro rapporto con Dio, una purificazione dalle loro false immagini del compimento della promessa divina. Il nostro esodo è verso Qualcuno presente che, come scrive don Giussani, «è come l’uscita verso il significato […], ma un significato che già ci è stato dato, perciò la vita come esodo è l’affermarsi in noi di qualcosa che è già presente»1. Potremmo allora descrivere il cammino della Quaresima come un itinerario di guarigione del nostro amore verso il significato della nostra esistenza.
La crepa nell’amore
Oggi regna una grande confusione attorno alla parola “amore”, sempre più sballottata dai venti del sentimentalismo e dell’incertezza circa il suo esito ultimo. L’esperienza di amare e di essere amati è in crisi, non sappiamo più che cosa sia. Anche per coloro che incontreremo, questa esperienza bellissima rimane nascosta e sempre più sconosciuta. Quanta sfiducia, ad esempio, regna nel cuore di tanti ragazzi perché feriti e usati dalla tracotanza degli adulti. Non sappiamo amare perché siamo disancorati dall’Amore che ci ha amato per primo. Privati dell’amore siamo privati della nostra identità. Siamo fragili perché dubitiamo che esista un amore più forte della morte.
Nel suo capolavoro La strada, Cormac McCarthy racconta il viaggio di un padre e di suo figlio attraverso un mondo spettrale in cui tutto è morto e devastato, offrendoci una visione nitida di quello che è la società odierna: «[Il bambino] rimase ad ascoltare lo sgocciolio dell’acqua nei boschi. Era roccia fresca, quella. Freddo e silenzio. Le ceneri del mondo defunto trasportate qua e là nel nulla di lugubri venti terreni. Trascinate, sparpagliate e trascinate di nuovo. Ogni cosa sganciata dal proprio ancoraggio. Sospesa nell’aria cinerea. Sostenuta da un respiro, breve e tremante. Se solo il mio cuore fosse pietra»2. È lo spaccato del cuore dell’uomo, del nostro cuore defunto e cinereo, quando è sganciato dal proprio ancoraggio che è la presenza del grande Amore.
Dove si origina tutto ciò? Dobbiamo risalire alle prime pagine della Genesi nelle quali viene narrato il momento preciso in cui la confusione è entrata nel mondo, in cui una crepa si è insinuata nel rapporto amoroso tra la creatura e il suo Creatore, nel rapporto tra l’uomo, la donna e gli altri esseri, e nell’uomo in se stesso.
Così Karol Wojtyła, nella sua opera La bottega dell’orefice, descrive tale realtà, attraverso le parole di Anna, in riferimento alla crepa che si sta creando nel rapporto tra lei e suo marito Stefano:
«Non riuscivo a darmi pace / e non sapevo come impedire / la crepa: / (all’inizio i suoi margini si sono fermati / ma da un momento all’altro potevano distinguersi ancora / di più – in ogni caso sentivo / che ormai non si sarebbero più riaccostati)»3.
Questo deficit, questa mancanza strutturale che la teologia chiama peccato originale, ha origine quando nel cuore del primo uomo s’insinua il dubbio sull’amore divino: è proprio vero che Dio ama realmente l’uomo? Ecco dove risiede la tentazione originaria. L’azione del demonio consiste nell’offuscare la certezza dell’amore che il Padre ha per ognuno di noi, è la negazione di questa relazione che ultimamente impedisce all’uomo un lieto abbandono nelle braccia di Dio. «La gente segue la propria illusione, senza cercare di innestare questo amore [l’amore umano] nell’Amore che ha una tale misura [la dimensione dell’Assoluto]. Non hanno neanche il sospetto di questa necessità perché sono accecati non tanto dalla forza del sentimento quanto dalla mancanza di umiltà. È una mancanza di umiltà verso quello che dovrebbe essere l’amore nella sua vera essenza»4.
Ecco il delitto che ha intaccato il cuore di ogni uomo, ecco che cos’è il peccato originale: una mancanza di umiltà verso l’amore nella sua essenza. A riguardo Giussani commenta: «Che cos’è l’amore nella sua vera essenza? L’uomo ama solo se riconosce e accetta di essere amato»5. La radice di ogni peccato è la mancanza di umiltà nell’accettare questo evento originario: che siamo voluti, che siamo fatti, che c’è un Padre buono all’origine del nostro esistere.
La negazione del padre e l’eclissi dell’uomo
Qual è la conseguenza più drammatica in cui l’uomo di oggi si trova a vivere? È come se ogni mattina dovesse scendere in campo e intraprendere una lotta quasi estenuante tra la sua pretesa di autoaffermazione e autonomia da una parte e l’originale dipendenza dall’altra. Si ritrova schiavo della sua pretesa di costruirsi la sua esistenza e la volontà di avere pari diritti con tutti. Questa pretesa oscura il centro di gravità della nostra vita: la dipendenza originale e la vita come vocazione. Negando il Padre si eclissa anche la statura dell’uomo. «Il concetto di elezione è come una bomba che entra dentro questa pretesa e la dissolve. […] L’uomo che pretende di farsi da sé dimentica la sua dipendenza totale ed originale: Io ti ho amato di un amore eterno, per questo ti ho attratto a me avendo pietà del tuo niente: Senza di me non potete far nulla. […] Noi siamo creature, siamo stati scelti a vivere, scelti ad essere. Non c’era alcuna ragione perché io esistessi»6. Questa è la certezza che ci fa vivere e che deve farsi spazio tra le nuvole della vita, come i raggi del sole che cercano in tutti i modi di perforare le nubi per tornare a illuminare e riscaldare la nostra terra.
Il sintomo più terribile della vittoria di tale oscuramento è la tristezza, frutto dell’accidia, di quella pigrizia spirituale che viene così descritta dall’allora cardinale Ratzinger: «Oggi vediamo, spesso proprio sul volto dei giovani, una strana amarezza, una rassegnazione. […] La radice più profonda di questa tristezza è la mancanza della grande speranza e l’irraggiungibilità del grande amore. Simile tristezza deriva da una mancanza di magnanimitas (animo grande), da un’incapacità a credere alla grandezza della vocazione umana, quella che è stata pensata per noi da Dio. L’uomo non ha fiducia nella sua propria vera grandezza, vuole essere “più realistico”. La pigrizia metafisica è quindi identica a quella pseudo-umiltà, oggi così diffusa. L’uomo non vuole credere che Dio si occupi di lui, lo conosce, lo ama, lo guarda, gli è vicino. Esiste oggi uno strano odio dell’uomo contro la sua grandezza»7.
La tristezza è l’esito esistenziale della fuga da Dio, del «desiderio [dell’uomo] di essere solo con se stesso e con la propria finitezza, di non essere disturbato dalla vicinanza di Dio»8. Questa tristezza ci fa scoprire ultimamente soli, ma di una solitudine negativa che converte il nostro rapporto con la vita e con gli altri in una vuota indifferenza che, nel migliore dei casi, viene sostituita da forme diverse di affettività naturale e perciò puramente istintiva9.
Vediamo così ripetersi la storia. Anche nelle vicende del popolo d’Israele incontriamo spesso tale tentativo. Ancora Ratzinger: «Israele trova la sua elezione troppo faticosa, questo continuo andar insieme con Dio. Si preferisce ritornare in Egitto, nella normalità, ed essere come tutti gli altri»10. L’amore privilegiato che Dio nutre per il suo popolo è un peso troppo pesante da portare, un amore troppo carico di pretese che Israele preferisce tenere a distanza, un amore troppo bruciante per compromettersi fino in fondo.
Qual è quindi l’antidoto alla crepa del peccato originale, causa della nostra tristezza? Se facciamo attenzione è la liturgia di questo tempo di Quaresima a suggerircelo: Ritornate, Israeliti, a colui al quale vi siete profondamente ribellati (Is 31,6); Ritornate, figli traviati, io risanerò le vostre ribellioni (Ger 3,22); Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi rispetto al male (Gl 2,13). Se il peccato è la dimenticanza di Dio e della storia che da lui è nata, allora il comandamento obbligato è la memoria. Questo, in fondo, è l’invito della Quaresima: ritornare a guardare Cristo.
La strada di guarigione è guardare Cristo
C’è un noto testo di Ratzinger che mette a confronto due antifone dei vespri del lunedì della seconda settimana – una per il tempo di Quaresima e l’altra per la Settimana Santa – che introducono il salmo 44. Questo salmo descrive le nozze del re, la sua bellezza, le sue doti, il suo compito per poi trasformarsi in un’esaltazione della sposa11. La prima antifona, quella utilizzata per la Quaresima e che abbraccia anche l’intero corso dell’anno liturgico, ci parla di colui che è il più bello tra i figli dell’uomo, sulle cui labbra è diffusa la grazia. In questo breve versetto la Chiesa non fa altro che riconoscere il riecheggiare di parole familiari che descrivono il volto del suo Signore e del rapporto che lui nutre con la sposa, cioè la Chiesa stessa. «Riconoscere Cristo come il più bello tra gli uomini; la grazia diffusa sulle sue labbra significa l’intima bellezza della sua parola, significa la gloria del suo annuncio. Non è dunque la bellezza esteriore della figura del Redentore a essere glorificata: ciò che si manifesta in lui è invece la bellezza della Verità, la bellezza stessa di Dio che ci attira e nel contempo ci procura la ferita dell’Amore, l’eros (la “sacra passione”) che ci fa correre, assieme alla Chiesa e nella Chiesa/Sposa, incontro all’Amore che ci chiama»12.
Il lunedì della Settimana Santa il medesimo salmo è invece introdotto dalle opposte parole del profeta Isaia: Non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore (Is 53,2). Come stanno insieme queste due versioni? Il volto più bello tra i figli dell’uomo è così sfigurato e martoriato da risultare il più miserevole tra gli uomini13.
Ratzinger fa notare che la novità del cristianesimo è tale da mettere in reale crisi la raffinata filosofia estetica greca e porre nuovamente la domanda essenziale su cosa realmente siano la bellezza e l’esperienza del bello. Guardare Gesù significa, infatti, guardare il Crocifisso, nel quale si è manifestato l’Amore consumato fino alla fine, in cui vediamo che «la bellezza è verità e che la verità è bellezza; ma nel Cristo sofferente [apprendiamo] anche che la bellezza della verità include offesa, dolore e persino l’oscuro mistero della morte»14.
La pedagogia di Cristo nel rivelare la sua bellezza
Guardare il Crocifisso significa lasciarsi conquistare dalla bellezza di Cristo che risplende sulla croce, al momento sommo del suo sacrificio. È lui la bellezza della nostra esistenza. Aiutiamoci allora a scorgere in alcuni episodi narrati dai Vangeli una vera e propria pedagogia di Cristo nel rivelare la propria bellezza fino a renderne partecipi i suoi discepoli.
La bellezza di essere un tutt’uno con il Padre e con noi: il Battesimo nel Giordano.
Gesù giunge sulle rive del Giordano come uno fra tanti. La bellezza della sua divinità è nascosta, non appare, è mescolata in mezzo a quella degli uomini che erano andati a farsi battezzare da Giovanni. Nessuno si accorge di lui, tranne il più grande dei profeti che inizialmente rifiuta di concedere il battesimo a quell’uomo perché intuisce e intravede nei tratti del suo volto e nell’intensità dello sguardo una segreta bellezza. Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia (Mt 3,15). Scendendo nelle acque del Giordano, Cristo ha preso su di sé la nostra bruttezza. È diventato un tutt’uno con ciascun uomo, con ognuno di noi.
Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli (Mt 3,15-16). Ora però Dio si fa presente, nello Spirito che discende come colomba e nel Padre che fa udire la sua voce. Nella scena del battesimo Gesù si mostra come colui che è un tutt’uno con l’uomo e un tutt’uno con Dio: questo è un primo tratto della sua bellezza.
La bellezza dell’amore nuovo: le nozze di Cana
Il miracolo alle nozze di Cana è l’inizio dei segni compiuti da Gesù. Egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui (Gv 2,11). Come Gesù manifesta la sua gloria, tanto da convincere i discepoli a credere in lui? Si sa che la presenza del vino è indice di gioia e di festa. La sua mancanza dona alle giornate una tonalità grigia e di maggior tristezza. A Cana si mostra la bellezza dell’amore nuovo, dell’amore della madre per i suoi figli più piccoli a cui non sfugge che, nel momento della vera festa, viene loro a mancare un elemento importante; dell’amore del Figlio che mostra ai discepoli che il vero vino della festa sarà la sua Presenza. «Il primo vino è bellissimo: è l’innamoramento. Ma non dura fino alla fine: deve venire un secondo vino, cioè deve fermentare e crescere, maturare. Un amore definitivo che diventi realmente “secondo vino” è più bello, migliore del primo vino. E questo dobbiamo cercare»15, ha detto Benedetto XVI. La bellezza di Gesù si manifesta nel rendere possibile l’impossibile, nell’aprire la strada ad un amore vero e duraturo già sulla terra. Il primo vino deve essere sostituito da un secondo, dal vino redento e reso definitivo dall’amore del Signore. Qui, nella gioiosità e serenità di Cana, già si intravede anticipata la presenza di un altro calice, contenente il vino nuovo, quello del sangue versato una volta per tutte sulla croce, che renderà possibile e definitivo tutto ciò.
La bellezza che libera: l’annuncio del Regno
Gesù si dimostra in tutte le pagine dei Vangeli come una persona sovranamente libera. Nessuno è capace di distoglierlo dai suoi propositi. Si mostra libero nei confronti di quelli del suo clan, di fronte alle guide del popolo e ai suoi avversari. Nutre profondo rispetto per le autorità costituite, ma al tempo stesso non ha timori reverenziali per il ruolo da esse ricoperto. Anche la franchezza del suo parlare è riconosciuta dai nemici. Gesù è libero nei confronti delle persone a lui care e che nutrono per lui affetto quando le loro parole contrastano con la sua missione, tanto da diventare un ostacolo. Don Giussani ha tante volte commentato l’episodio nella sinagoga di Cafarnao e il discorso di Gesù sul mangiare la sua carne per avere la vita. Di fronte all’incomprensione e all’allontanamento dei più, non ha avuto timore di rivolgersi ai suoi e rilanciare loro una provocazione ulteriore: Volete andarvene anche voi?, non interessato al fatto che sarebbe potuto rimanere solo. Infine Gesù sembra non curante di tutti i giudizi che vengono formulati su di lui. Continua sulla propria strada e non appare affatto preoccupato del travisamento della sua buona fama: È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e peccatori” (Mt 11,19)16.
Proprio perché Gesù manifesta la sua bellezza in questa libertà, anche il suo annuncio è di una bellezza che libera. La sua parola ci rende liberi: Io sono la via, la verità e la vita… conoscerete la verità e la verità vi farà liberi (Gv 8,32).
La bellezza della preghiera: la Trasfigurazione
Gesù aveva incominciato a preparare i suoi discepoli a quello che sarebbe accaduto di lì a poco tempo dopo. Il Figlio dell’uomo avrebbe dovuto soffrire, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi e infine venire ucciso. Inoltre aveva indicato la modalità della sequela: rinnegare se stessi, prendere la propria croce e seguirlo. Subito dopo però il Signore ha voluto mostrare ai suoi i tratti della propria divinità, del destino promesso, della bellezza preparata anche per loro, raggiungibile attraverso il sacrificio della croce. Gesù porta con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e si incammina sul monte, in disparte. Lì, davanti a loro, il suo volto diventa più splendente del sole e le sue vesti così bianche che nessun lavandaio sarebbe in grado di renderle tali. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto (Lc 9,29). Gesù mostra lo splendore della sua bellezza nell’esperienza della preghiera. Cristo si rivela bello agli occhi dei suoi mentre prega, cioè entra in rapporto con il Padre e si trasfigura. I discepoli entrano in contatto con la bellezza del mondo di Dio, del Padre, proprio vedendo Gesù nell’atto di pregare, tanto da far esultare il cuore di Pietro: “Maestro, è bello per noi essere qui” (Lc 9,33). Per Pietro, Giacomo e Giovanni non era la prima volta che sorprendevano il Maestro ritirarsi, solo, a pregare. Tale era il fascino e l’attrattiva che suscitava da spingere i suoi discepoli a chiedere a Gesù di insegnare anche a loro a pregare, di rendere partecipi anche loro di quella sua bellezza.
Il segreto della bellezza di Gesù è il dono di sé
Qual è il segreto della bellezza di Cristo? Che cosa rende così bella, affascinante e attraente la sua vita, tanto da farla diventare così luminosa e desiderata dai suoi discepoli e da noi?
Alcuni greci erano saliti a Gerusalemme per la festa di Pasqua e un gruppetto di essi si era avvicinato a Filippo per chiedere di poter anche loro vedere Gesù. Nella loro richiesta possiamo intravedere il desiderio di partecipare anch’essi della bellezza del Signore, di cui tanto avevano sentito parlare. E Gesù rivela loro il suo segreto: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna (Gv 12,24-25). Ecco il segreto della sua bellezza: il dono di sé, la vita offerta per la salvezza del mondo, il seme che muore per portare maggiore frutto. Con queste parole Gesù ci indica però una strada importante anche per noi: ciò che è decisivo non è il morire, ma è il dare la vita, offrirla come atto d’amore. È nel dono della propria esistenza che il cristiano può trovare la vera vita. Questo stesso invito diventa ancora più esplicito nei discorsi dell’Ultima Cena, durante la quale Gesù, dopo aver consegnato ai suoi discepoli il comandamento nuovo, indicherà nel dare la vita per i propri amici la perfezione dell’amore (cfr. Gv 15,13). Il chicco di grano diventerà ostia per tutti noi.
Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (Gv 13,1). Con queste parole l’evangelista Giovanni ci introduce alla scena simbolica della lavanda dei piedi che riassume l’intera esistenza di Gesù. Innanzitutto la vita e la morte di Gesù sono dominate da un amore consumato e vissuto fino alla fine. Più precisamente la fine di Gesù è il suo fine: tutto il suo amore è teso al Padre, quale origine e fine, come destino ultimo, come compimento17. Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre e sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava (Gv 13,1.3), Gesù si alzò da tavola. Gesù è pieno di questa consapevolezza e in questo si rivela tutta la sua bellezza, la bellezza di appartenere interamente al Padre.
Nei gesti della liturgia del Giovedì Santo si può vedere rappresentata tutta la vita di Gesù: il Signore si alza da tavola, quella imbandita nel cuore della Trinità, depone le vesti della sua regalità, prende un asciugamano e se lo cinge ai fianchi, accetta di abbassarsi e chinarsi per compiere l’atto proprio dello schiavo e così, attraverso il sacrificio della sua vita, rendere noi degni di sederci alla sua tavola, di poter prendere parte alla comunione tra lui e il Padre.
Penso che per tutta la vita mi rimarranno impressi i ricordi e le immagini della celebrazione che abbiamo vissuto con papa Francesco, durante il suo primo anno di pontificato, quando in occasione del Giovedì Santo scelse di venire a vivere quel momento così speciale con i ragazzi del carcere minorile. È stata un’emozione grandissima vederlo inginocchiato davanti ad ogni ragazzo, lavargli il piede, chinarsi per baciarlo e, prima di passare al vicino, fissarlo negli occhi e regalargli un sorriso. In ognuno di quei ragazzi ci sarà stato sia Giuda sia Pietro, così come nel cuore di ciascuno di noi. Giuda, che non accetta di essere amato, ferito già tante volte dalla vita, con la mente e il cuore pieni solo del possesso, della prevaricazione e della violenza; Pietro, che pensa di non aver bisogno di Dio, che si può vivere bene anche senza, che il suo male sia troppo grande e di essere troppo indegno per venire anche solo toccato dalla “carezza” che Gesù ha offerto alla sua vita18. Ma il papa era lì per tutti, come il Signore ha lavato i piedi a tutti i discepoli. Ha donato il suo amore fino alla fine, sia a Pietro che a Giuda.
Il nostro male rende polverosi e sporchi i nostri piedi. Abbiamo bisogno di essere ripuliti, perdonati da quest’amore. Soprattutto dobbiamo accettare di venire lavati. È l’umiltà di Dio che chiama all’umiltà l’uomo. Un Dio inginocchiato ai piedi dell’uomo. In tutti noi si cela la resistenza che anche Pietro ha avuto davanti a questo gesto totalmente inaspettato del Signore: Signore, tu lavi i piedi a me?… Tu non mi laverai i piedi in eterno! (Gv 13,6.8). Pietro vuole sottrarsi a un amore così gratuito e sorprendente. Potrebbe sembrarci una reazione di profonda umiltà, invece è un’ultima resistenza di orgoglio che eleviamo davanti a Dio. È più difficile accettare di lasciarsi amare, servire e ripulire, piuttosto che lavare noi i piedi agli altri. Se non ti laverò, non avrai parte con me, gli controbatte Gesù. «Se non accetti che io possa amarti profondamente da penetrare in te e cambiarti, non sarai capace a tua volta di entrare nell’amore e nella vita di Dio. Permettimi di amarti, così da ripulirti e renderti bello, cioè partecipe della mia comunione».
Se non ti laverò, non avrai parte con me. Dopo il suo rifiuto, Pietro riconosce di aver procurato un dolore e un’amarezza al suo Signore. Capisce che anche lui potrebbe fare la fine di quell’uomo della parabola che, privo della veste nuziale, era stato gettato fuori nelle tenebre, se non accettasse di lasciarsi lavare i piedi da Gesù, così da essere reso bello per partecipare della bellezza del Maestro (cfr. Mt 22, 1-14).
Non solo con il gesto della lavanda dei piedi Gesù ci fa belli per partecipare della sua bellezza, ma ci fa entrare nella sua stessa azione, ci identifica con questo atto. Anche noi siamo chiamati a lavare a nostra volta con Cristo i piedi sporchi del mondo, i piedi sporchi dei nostri fratelli. È solo amando Dio e i nostri fratelli che diventiamo belli e capaci di portare bellezza dove regna solo sporcizia.19 Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri (Gv 13,14).
Durante l’Ultima Cena Gesù istituisce il sacramento dell’eucarestia, anticipando il sacrificio del Calvario. Ora egli desidera far partecipi pienamente i suoi discepoli della sua bellezza. Nel pane trasformato in corpo e nel vino divenuto sangue, Cristo desidera incontrarci. Nel pane eucaristico il Signore è lì, in attesa che sia riconosciuto e accolto. È il dono più grande che egli ha potuto fare all’uomo.
Nella comunione sacramentale l’infinito amore di Dio, manifestatosi nel dono totale nella morte del Figlio, diventa dono rivolto personalmente a ogni uomo, quindi anche a me. «Questa rivelazione del mistero dell’amore di Dio in Cristo Gesù non è piena, se noi separiamo il mistero dell’Eucarestia dal mistero stesso della croce, dal mistero stesso della resurrezione […], nel mistero eucaristico io vedo precisamente questo: non Dio che muore per tutti gli uomini, ma Dio che si dona a me corpo sangue anima e divinità… tutto il paradiso, tutta l’eternità di Dio, tutta l’infinità della sua vita, tutta la ricchezza del suo amore… tutto per me!»20.
Note
1 L. Giussani, Tutta la terra desidera il tuo volto, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, 112-113.
2 C. McCarthy, La strada, Einaudi, Torino 2007, 9.
3 K. Wojtyla, La bottega dell’orefice, LEV, 1992 34.
4 Ivi, 81.
5 L. Giussani, Esercizi alla Fraternità di Comunione e Liberazione, Rimini 1989, 19-20.
6 Ivi, 16.
7 J. Ratzinger, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Jaca Book, Milano 2005, 60.
8 Ivi, 61.
9 Cfr. L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 2007, 215.
10 Ibidem. 11 Cfr. J. Ratzinger, In cammino verso Gesù Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, 27.
12 Ibidem. 13 Cfr. ivi, 28. 14 J. Ratzinger, In cammino verso Gesù Cristo, 28.
15 Benedetto XVI, Festa delle Testimonianze, Parco di Bresso – Milano, 2 giugno 2012.
16 Cfr. G. Biffi, Gesù di Nazareth. Centro del cosmo e della storia, 42-45.
17 Cfr. M.G. Lepori, Omelia del Giovedì Santo, Monastero della SS. Trinità, Cortona, 17 aprile 2014.
18 Cfr. Francesco, Omelia del Giovedì Santo, Istituto Penale per Minorenni di “Casal del Marmo”, Roma, 28 marzo 2013.
19 Cfr. M.G. Lepori, Omelia del Giovedì Santo, Monastero della SS. Trinità, Cortona, 28 marzo 2014.
20 D. Barsotti, Pasqua. La trasparenza del Cristo Risorto nell’eucarestia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, 15-16.