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giovedì 24 gennaio 2019

L'Osservatore Romano: Quel dubbio sulla potenza dell’Origine

Una riflessione sulle dinamiche che portano alla rivalità tra fratelli

«È tempo di rilanciare una nuova visione per un umanesimo fraterno e solidale dei singoli e dei popoli». E ancora: «La forza della fraternità (...) è la nuova frontiera del cristianesimo» (Humana communitas 6, 13). Così papa Francesco nella lettera dello scorso 6 gennaio alla Pontificia Accademia per la vita. Qualche giorno prima, nel discorso urbi et orbi in occasione del Natale, il papa descriveva la fraternità come ciò che «sta alla base della visione cristiana dell’umanità».

Simultaneamente il tono delle affermazioni segnala la diagnosi e la cura. La diagnosi: il difetto di fraternità, lo sfilacciamento del legame che apparenta tutti i figli e le figlie di Adamo. La cura: la fraternità stessa, scintilla che farà divampare il fuoco di relazioni giuste nelle case, nelle città e tra i popoli.

Parlando di fraternità è necessario evitare qualsiasi forma di pomposa retorica e frettoloso moralismo. La Bibbia scansa questi rischi descrivendo il legame fraterno come il più impegnativo e complicato. Attraversare con pazienza l’aspetto intrinsecamente drammatico della fraternità consente di cogliere quanto è davvero in gioco. Molto più di ciò che normalmente si ritiene.

La fraternità è in crisi non per un capriccio e nemmeno per generico egoismo; neanche per invidia, o a motivo dell’ingiustizia. Tutte queste cose sono effetti, non la causa. Il racconto di Genesi 4 è così raffinato da penetrare fino al punto di divisione delle giunture e delle midolla del legame fraterno. Perché Caino uccide Abele? Per paura. Essa è l’emozione in cui si ritrovano Adamo ed Eva dopo il peccato: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto» (Genesi 3, 10). La paura spinge la coppia a nascondersi e Adamo ad aggredire Dio ed Eva; si fa in fretta a capire che la miglior difesa è l’attacco. Anche se in ordine inverso, Caino prova i medesimi sintomi: prima l’aggressività fino alla violenza, poi il bisogno di nascondersi (Genesi 4, 14); segnali rivelatori della sua radicale paura. Di che cosa ha paura Caino? Egli è talmente sedotto dalla predilezione divina per Abele (solo da Abele Dio accetta il sacrificio) da non vedere che solo a lui Dio parla.

Accostando il testo con gli stessi occhi di Caino, generazioni e generazioni di lettori non scorgono che la pagina biblica rivela una duplice predilezione divina: una per Abele, il solo capace di offrire un sacrificio gradito a Dio, e un’altra riservata a Caino, il solo a cui Dio accorda un’incomprensibile premura, fatta di parole di richiamo, incoraggiamento, consigli, domande, accuse, castighi minacciati e, infine, di sollecita custodia della sua vita, nonostante tutto. Dio dedica tempo a Caino, mentre ad Abele non rivolge nemmeno una parola. Se “invidia” (in-videre) significa “non-vedere”, “non-voler-vedere”, “vedere male”, “vedere di malocchio”, si può dire che in Caino essa è ritorta contro se stesso prima che verso Abele, poiché percepisce benissimo la predilezione del fratello, non cogliendo la propria.

Da qui il senso di essere escluso, privato di quanto è vitale. Il terrore che lo tormenta scaturisce dal fatto che non ci sia posto per due: «Se Abele è prediletto, significa che io sono escluso». Egli non vede il posto unico riservato a entrambi, ritenendo che ci sia solo un unico posto. Ciò scopre la radice profonda della paura di Caino: considerare Dio inadeguato, insufficiente, incapace di mettere al sicuro tutta la vita di cui è origine. Al massimo, può garantire una sola scialuppa di salvataggio e, per giunta, monoposto: tutti gli altri naufraghi — coi quali ci si trova “nella stessa barca” — diventano rivali. La rivalità omicida affiorante con chiarezza nel rapporto fraterno, prima di rappresentare un deficit di carità o di giustizia, segnala innanzitutto una mancanza di fede: Caino crede che Dio ci sia, ma la paura, distorcendo la realtà, gli impedisce di fidarsi della sua competenza. Insomma: Dio c’è, ma non può. L’impotenza e l’incompetenza di Dio spingono il primogenito di Adamo all’urgente “dovere” di cavarsela da solo, occupando l’unico posto vitale a disposizione, anche a costo della morte del fratello: mors tua vita mea.

Parlare di fraternità, senza toccare il fondo della paura circa l’incompetenza, l’insufficienza di Dio (e il terribile senso di solitudine derivante) significa rimanere alla superficie del legame. Esso invece spalanca le profondità dell’anima, facendone emergere le dinamiche più nascoste. La rivalità tra fratellini, tra colleghi, tra popoli, culture, nazioni ed economie consegue la negazione della potenza dell’Origine (la mamma, il papà, la terra, Dio stesso) nel garantire un posto vitale a ciascuno. La violenta ingiustizia è effetto dell’incredulità; non tanto nell’esistenza di Dio (quante persone ingiuste ci credono!), ma nella sua custode e nutriente potenza. A dirla tutta, non esiste peccato che non sia risultato dell’incredulità nella potenza di Dio: avaro diventa chi nega il potere divino di assicurare il pane quotidiano; vendicativo è colui che non crede Dio possa prendere le sue difese; lussurioso o goloso è chi si procura da sé le consolazioni e le conferme, poiché Dio non sarebbe in grado di garantirgliele.

Gesù «non si è vergognato di chiamarci fratelli» (Lettera agli ebrei 2, 11), divenendo il Primogenito di ogni creatura, non a motivo di chissà quale generica bontà, ma per la fiducia riposta nel Padre a cui «tutto è possibile» (Marco 10, 27; 14, 36), perfino assicurare un posto unico a Caino, un posto unico ad Abele, un posto unico a ciascun uomo e a ogni popolo. A tale affidamento, Cristo non arriva astrattamente, ma per quotidiana, ordinaria, feriale, affettuosa sensibilità al mondo, guardandolo e toccandolo così com’è, non come la paura lo deforma (Francesco, Laudato si’ n. 97). Ben lo mostrano le parole rivolte a chi è preoccupato (cioè impaurito) per l’eventuale insufficienza di cibo, di acqua e di vestiti. La strategia per vincere la paura è quella di “guardare gli uccelli del cielo” (nessuno di essi muore di fame) e “osservare i gigli del campo” (vestiti di alta sartoria). Il Padre è così ricco, potente e competente da permettersi il lusso d’interessarsi a rondini e margherite (Matteo 6, 25-34). Il senso della affidabile competenza di Dio disarma la rivalità, rendendola vana.

Al fine di riacquisire “la forza della fraternità” è quindi necessario riabilitare la nostra sensibilità al mondo, alla casa comune. Non è un angusto monolocale con un posto solo, ma la profezia della “casa del Padre”, dove c’è ampio posto per tutti (Giovanni 14, 1-4).

Perché Cristo ha voluto il legame fraterno per i propri discepoli? Certo, affinché annuncino e ricordino a tutti gli umani, a tutti i popoli, a tutte le creature il vincolo derivante dall’unica generosa origine e dall’unico invitante destino. Ma insieme a tale motivazione ad extra, nella scelta di Gesù vibra anche una ragione ad intra, a favore della stessa Chiesa e d’ogni credente. Infatti, ponendoci nella fraternità, in questo legame indissolubile e difficile, pieno d’affetto e fomentatore di rivalità, siamo messi in condizione di verificare con schiettezza la qualità reale della nostra fede nella competenza di Dio a favore della vita, ora e al momento della nostra morte. Infatti la fraternità compiuta trasforma in carne e sangue la fiducia piena in colui che è così longanime (ha l’animo così ampio) da poter prediligere Abele e prediligere Caino.

Un Dio così è a tal punto potente da avere una riserva inimmaginabile di soluzioni... anche di fronte alla nostra morte.

di Giovanni Cesare Pagazzi