Non conosco miglior iniziazione all’infinito che l’esperienza della lettura, e della lettura biblica. I commentatori ebrei dell’Antico Testamento erano convinti che per ogni passo della Torah esistessero quarantanove possibilità di interpretazione. Quarantanove è il risultato della moltiplicazione di sette per sette, e sette è il simbolo dell’infinito. Dunque, la lettura stessa della Bibbia presuppone sempre un’ipotesi di infinito. Per non parlare della sua natura di Parola associata in modo unico alla Rivelazione. Infinito è anche il compito che il lettore della Bibbia sente, non di rado, nel prendere contatto con il testo. Da un lato la Bibbia esercita un’attrazione inesauribile. Dall’altro, questa attrazione ci mostra che abbiamo bisogno di un’iniziazione al mondo testuale che ci sta di fronte. Non basta che ci mettiamo a leggere la Bibbia: abbiamo bisogno di un’ermeneutica, per semplice o complessa che sia. La Parola biblica è una finestra, uno specchio, una fonte, una luce, e in ognuna di queste modalità essa è imprescindibile non solo alla costruzione del cammino credente, ma anche alla crescita culturale.
Eppure non è possibile accedervi senza mettere in campo una sorta di arte della lettura. Proprio con questa necessità il mio lavoro entra in dialogo. Amo molto quel proverbio inglese che dice: «clarity, charity». La chiarezza si raggiunge percorrendo la via dell’amore. Se c’è una cosa che questi saggi di teologia ed esegesi biblica vogliono trasmettere, si trova in questo proverbio. L’arte di leggere non è altro che l’arte di amare. A un certo momento, racconta Flaubert, sant’Antonio, turbato da grandi debo-lezze, chiede a Dio di infondergli coraggio, ed entra nella sua capanna. Accende una torcia che gli permetta di vedere le lettere del grosso libro e, ancora vacillante, tra fantasmi che lo spingono verso derive che egli rifiuta, apre la Bibbia a più riprese (cinque volte, precisa il racconto), in cerca di protezione. Tutte e cinque le volte, però, chiude il libro con le mani tremanti. Le ossessioni contro cui lotta, sulla purificata via dell’ascesi, tornano ad assalirlo, incontrollabili, nelle descrizioni del testo sacro. Una voce dal cielo ordina di mangiare dalla grande tovaglia che discende sulla terra, appestata da rettili e quadrupedi. La violenza, il sangue e l’eccesso si mescolano alla nebbia di foschi sortilegi e presagi… Secondo Michel Foucault, nella prefazione all’opera di Flaubert, l’eremita comprende che «Il libro è il luogo della Tentazione».
Per questo allontana da sé la Bibbia, invocando l’aiuto di Dio. Ma raccontando questa storia di sant’Antonio Abate, Flaubert in fondo che cosa racconta? Che è inutile imporre al testo un programma di comprensione, quando ci è richiesto il contrario: che ci esponiamo al testo, nella nostra fragilità, al fine di ricevere da esso, e alla sua maniera, un io più vasto. In realtà, solo chi non l’ha mai avvicinata ignora che la Bibbia è un luogo di prova. Libro sacro per i credenti di più di una religione, superclassico della letteratura, chiave indispensabile per decifrare il pensiero e la storia, oggetto interminabile di curiosità, di ricezione e studio, la Bibbia richiede, evidentemente, un’arte dell’interpretazione. Essa possiede uno spessore storico inalienabile, che dev’essere tenuto in considerazione: scritta due o tremila anni fa, in lingue con un’espressività molto diversa da quella che hanno le nostre, in una grammatica molto particolare, scritta sull’acqua, sul corpo, sulla fiamma, racchiude generi tanto specifici e diversificati da rappresentare di per sé una colossale sfida per qualunque lettore. Più che un libro è una biblioteca: può essere letta come canzoniere, libro di viaggi, memoriale di corte, antologia di preghiere, cantico d’amore, pamphlet politico, oracolo profetico, corrispondenza epistolare, libro di immagini, testo messianico. E, legata a questa umana parola, la rivelazione di Dio. Cipriano (200-258) diceva: «Se nella preghiera parliamo con Dio, nella lettura Dio parla con noi». Girolamo (347-420), scrivendo a un discepolo, raccomandava: «Non allontanare mai la mano dal Libro, e non distogliere da esso i tuoi occhi». Cassiodoro (490-583), riferendosi alla farmacia della lectio, scriveva: «Come un fertile campo produce erbe odorose utili alla nostra salute, così la lectio divina offre sempre una cura per l’anima ferita». Ed è ancora un’immagine campestre quella che serve a Giovanni Damasceno (675-750): «Bussiamo alla porta di quel bellissimo giardino delle Scritture».
Potremmo moltiplicare per mille gli aforismi di questo tipo, che mostrano come la tradizione cristiana si sia pensata, fin dall’inizio, come una pratica di lettura. Una lettura infinita. Qualunque parola, e ancor di più la parola letteraria con cui è ordito il testo biblico, è istanza di rappresentazione. Designa «a un tempo indicazione e apparizione; rapporto con un oggetto e manifestazione di sé». Questa parola (quella che denominiamo «prosa di Dio»), è quindi radicata in un territorio di duplicità: da un lato è una specie di aura, puro respiro, sintomo indissociabile, rivelazione; dall’altro è direzione, evocazione, cenno che segnala la necessità di un’indagine. Come in quel passo di Gdc 5,22 («Allora martellarono gli zoccoli dei cavalli al galoppo, al galoppo dei destrieri»), in cui la sonorità dei due sostantivi plurale ( midda’arôt da’arôt) imita il battere degli zoccoli degli animali sulla prateria, la parola rende presente un’esperienza, l’originale rumore di quell’interminato galoppo, e al tempo stesso testimonia un’esperienza che sta al di là di essa. L’atto della comunicazione biblica è costituito da questa duplicità inconsutile: la strategia del pensiero si identifica con e tuttavia è solo parzialmente identificabile nella strategia verbale e discorsiva. La rappresentazione è, così, condizione di questo linguaggio. E il linguaggio è il teatro di Dio.
José Tolentino Mendonca sabato 11 novembre 2017