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venerdì 29 giugno 2018

Mons. Galantino: Grazia. È la luce emessa dall’anima

Rubrica de “Il Sole 24ore” Abitare le parole / Grazia –

Il linguaggio comune conosce l’espressione «trovarsi in stato di grazia» per indicare una condizione di equilibrio, di pacificazione interiore e di relazione bella e costruttiva con l’ambiente circostante: persone e/o cose. Il motivo sta nel significato della parola grazia. Alla parola grazia infatti (Chen in ebraico, cháris in greco, gratia in latino) vanno ricondotti sentimenti e atteggiamenti di benevolenza, gratitudine, riconoscenza, indulgenza.

Il vocabolario presenta la grazia come la «qualità naturale di tutto ciò che, per una sua intima bellezza, delicatezza, spontaneità, finezza, leggiadria, o per l’armonica fusione di tutte queste doti, impressiona gradevolmente i sensi e lo spirito». Forse perché la grazia ha nella sua radice il significato di bellezza. Grazioso infatti è ciò che è bello, ma anche tutto ciò che, di una persona, esprime eleganza, tatto e leggerezza dei modi, fino a manifestarne il carattere e a connotarne i sentimenti. Nel diritto penale, la grazia è un provvedimento di clemenza individuale, di cui beneficia un detenuto. A differenza dell’amnistia e dell’indulto, che si applicano a una determinata categoria rispettivamente di reati e di condannati, la grazia si riferisce a un singolo soggetto che si trovi in condizioni eccezionali. La grazia, se concessa, cancella il debito del condannato nei confronti della società e non presuppone un risarcimento dei danni subiti dalla parte lesa. È quindi un beneficio, un gesto di riconoscimento di una sorta di ravvedimento da parte del condannato, elargito con generosità e senza nulla in cambio.

La gratuità della grazia richiama al suo significato teologico, dove la grazia «è la quantità di luce che abbiamo nell’anima» (papa Francesco). Una luce che non ci diamo da soli e che, proprio per questo, non sopporta che ci si comporti come «controllori della grazia piuttosto che come facilitatori».

Nell’attuale struttura sociale diventa sempre più difficile vedere la grazia in atto. La logica del do ut des è logica prevalente. Siamo sempre più spesso alla ricerca di una proporzione fra il dare e l’avere. E, quando si riceve gratuitamente o più del previsto, fa capolino quasi spontaneamente il sospetto. Fedeli al virgiliano Timeo Danaos et dona ferentes (Eneide, Libro II, 49).

La grazia è, per sua natura, sproporzione, dono inatteso ed è estranea ai rigidi parametri del dare e avere. Esprime la «bellezza della gratuità di Dio» (A. Casati) e dovrebbe esprimere la bellezza contagiosa della gratuità fra gli uomini. È un dono che – proprio perché non va meritato ma semplicemente accolto – impegna. La gratuità della grazia non autorizza il disimpegno, avverte infatti Dietrich Bonhoeffer: «Grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo, per amore del quale l’uomo va a vendere con gioia tutto ciò che aveva; la pietra preziosa, per il cui valore il mercante dà tutti i suoi beni; la signoria regale di Cristo, per amore del quale l’uomo strappa da sé l’occhio che lo scandalizza».

Grazia. È la luce emessa dall’anima

giovedì 28 giugno 2018

L’immigrazione come sfida: un contributo del cardinal Martini

Articolo pubblicato su: Fondazione Carlo Maria Martini

Come contributo alla riflessione, in queste settimane di tensioni e polemiche sul tema delle migrazioni, pubblichiamo un intervento che il cardinale Carlo Maria Martini tenne il 3 dicembre 1994 al convegno «Immigrati a Milano», promosso dalla Fondazione San Carlo della Caritas Ambro¬siana. Ci pare che, seppure a distanza di quasi 25 anni, il discorso del Cardinale contenga numerosi passaggi di estrema attualità e offra spunti per un approccio costruttivo e responsabile alla sfida epocale rappresentata dalle migrazioni. 

Il fenomeno dell’immigrazione deve essere compreso sempre meglio come sfida che le nostre città, e ogni metropoli europea, hanno di fronte in tutta la sua evidenza e vastità. Non è possibile pensare a interventi semplicemente di natura assistenziale né tanto meno solo di contenimento; non è possibile continuare a proporre una visione del fenomeno immigratorio come problema e non anche come possibile risorsa.

La sua complessità esige una molteplicità di attenzioni, interpella anzitutto la società, ma pure la Chiesa, la sua dimensione pastorale, i suoi processi formativi, la sua missione evangelizzatrice.

Vanno superate le impressioni sommarie e superficiali rispetto al fenomeno immigratorio che, invece, va ormai considerato quale realtà “ordinaria”, non quale emergenza.

Ritengo quindi importante creare occasioni di studio su questo argomento in modo approfondito e lungimirante. Infatti, la mancanza di una comprensione sufficientemente articolata e seria del fenomeno immigratorio porta a una ricerca affannosa di soluzioni, priva di spazi necessari per riflettere e progettare, condannandosi così a riprodurre nuove gestioni, ma pur sempre di emergenza.

L’immigrazione oggi

Ogni Stato, europeo in particolare, ha nel suo passato, remoto o recente, una storia di immigrazione interna ed esterna. Proprio l’Italia è un esempio significativo di immigrazione interna, nei decenni che vanno dal 1930 al 1970 e, più indietro, di grandissimi flussi di migrazione verso l’estero. Secondo le statistiche, oltre ai cinque milioni di cittadini italiani tuttora residenti all’estero, ben sessanta milioni di persone, pur non avendo la cittadinanza, discendono da emigrati italiani.

Oggi l’immigrazione ha dunque le caratteristiche di un fenomeno planetario, anche per le condizioni di sottosviluppo in cui versa gran parte dell’umanità. Come ha ricordato Giovanni Paolo II: “Una volta si emigrava per cercare migliori condizioni di vita; da molti Paesi oggi si emigra semplicemente per sopravvivere”.[1] Inoltre, ai tradizionali movimenti dal Sud al Nord, si sono aggiunti nuovi esodi da Est a Ovest.

Si evidenzia, possiamo dire, la realtà dell’interdipendenza tra i popoli: “La pace e la prosperità, infatti, sono beni che appartengono a tutto il genere umano, sicché non è possibile goderne correttamente e durevolmente se esse vengono ottenute a danno di altri popoli e nazioni, violando i loro diritti o escludendoli dalle fonti del benessere”.[2]

Bisogna allora riconoscere che siamo di fronte a una situazione strutturale mondiale, che chiama in causa la comunità internazionale. Ecco perché l’immigrazione in casa nostra non è fenomeno marginale o di emergenza; è piuttosto occasione di riflessione, è segno che richiede una mentalità nuova, una disponibilità a guardare i problemi con uno sguardo ampio e consapevole.

Formazione professionale dell’immigrato

Alla nostra Fondazione S. Carlo abbiamo appunto chiesto di collocare la propria attività dentro l’orizzonte planetario. Non ignoriamo affatto gli abusi a cui dà luogo il fenomeno migratorio: pensiamo, ad esempio, a quello che i sociologi chiamano “immigrazione di assaggio”, proveniente soprattutto da alcuni Paesi vicini e pure dal Sud America, e che si caratterizza per la temporaneità e l’estrema mobilità sul territorio. Si tratta di espatrii motivati da illusioni di facile guadagno, dalla ricerca, comunque, di una rapida monetizzazione, risparmiando su tutto, approfittando di ogni occasione assistenziale, dedicandosi magari a espedienti e a traffici illegali.

Questo tipo di catena migratoria distorta, alimentata dalla grande facilità di movimento, sembra non interrompersi ed è incentivata da organizzazioni che illudono, truffano, commettono illegalità di ogni genere,

estorcono fortune a tali persone. E, per questo, da una parte si esige un controllo serio e chiaramente repressivo nei confronti di chi svolge traffico illegale; ma dall’altra si richiede una capacità di esplorare tutte le possibilità di un’accoglienza mirata che formi, qualifichi e prepari anche un rientro serio nel Paese di origine o un’integrazione sufficiente e dignitosa.

Siamo giunti al punto centrale della nostra riflessione: la formazione professionale dell’immigrato. Al riguardo, tutte le realtà di ispirazione laica o cristiana, impegnate nel campo della formazione professionale,  dovranno sentirsi coinvolte.

È il momento, infatti, di occuparsi attentamente dei problemi dell’inserimento e delle seconde generazioni, per non farsi trovare ancora una volta impreparati alle sfide di lungo periodo. Sembra che le energie sia pubbliche, sia private, e la capacità propositiva sociale, siano state spese soprattutto per la fase di prima accoglienza e, per di più, affrontata spesso in modo non programmato, sulla spinta dell’emergenza, in un’ottica solo di contenimento che ha prodotto notevoli squilibri sociali.

Noi crediamo che, pur se dovremo sempre far fronte all’emergenza, soltanto un’accoglienza che sviluppi la vera integrazione favorirà la capacità di governare socialmente la grande sfida posta dall’immigrazione. Questa è la ragione dei Centri di seconda accoglienza. Ponendosi l’obiettivo di accompagnare l’inserimento nel lavoro e la ricerca della casa, favorendo una prospettiva di scambio culturale e di confronto, creando uno spazio di comunicazione rivolto all’intera città, fanno prospettare in concreto la speranza e la possibilità che l’immigrato riesca a diventare una risorsa per tutti, non un problema da subire o magari da allontanare.

Si tratta per il momento di progetti sperimentali, che intendono stimolare chi si sta scoraggiando; si registrano infatti sintomi di una certa stanchezza nel volontariato, spesso abbandonato a se stesso nell’affrontare i problemi legati alla prima accoglienza e isolato di fronte a situazioni sempre più gravi. Questo isolamento non è giusto.

Non può dunque cessare l’azione politica in tale campo e, applicando e rinnovando lo sforzo legislativo, la comunità civile non deve temere di occuparsi degli immigrati. Se l’azione pubblica si ritrae, si finisce per incentivare la marginalizzazione dell’immigrato, considerandolo come un povero da affidare alle cure del volontariato e, talora, come un soggetto pericoloso per l’ordine pubblico. Si rischia così di favorire, a volte anche in modo strumentale, una mobilitazione popolare al rifiuto, anziché all’accoglienza.

D’altra parte la stessa Chiesa deve ripensare al suo impegno pastorale di fronte all’immigrazione.

Tra mille difficoltà umane e strutturali, spesso in assenza dell’impegno pubblico, gli operatori ecclesiali si sono mossi con grande generosità offrendo e favorendo migliaia di occasioni di lavoro, di alloggio, di formazione professionale, di festa, di incontro, di sensibilizzazione. Uguale attenzione si è avuta nelle comunità parrocchiali; ma non da parte di tutte c’è stato il medesimo impegno.

Sul piano pastorale, ora, si deve reagire con forza al compito esclusivamente volontario e prevalentemente di carattere assistenziale. Non va alimentata la mentalità che considera sempre e unicamente lo straniero come un “povero”, dimenticandosi della sua cultura, del fatto che anch’egli può sbagliare; inoltre, non si possono chiedere solo diritti, bensì è necessario rispettare i doveri.

Assistere, dunque, non è sufficiente, occorre un’azione globale per l’immigrazione. È indispensabile che le Istituzioni affrontino, programmino, coordinino politiche volte all’inserimento e all’integrazione; in tale impegno non dovrà mancare la collaborazione attiva del volontariato, ma ad esso non può essere delegato ciò che attiene a responsabilità più ampie.

Riflessioni conclusive

Sappiamo che il fenomeno migratorio è ben conosciuto nella storia della salvezza: “L’esperienza di una vita di stranieri, in esilio o comunque rifugiati in terra non propria, attraversa in profondità gli uomini e le donne delle Scritture, fino al Nuovo Testamento”.[3] I credenti, noi tutti, siamo un popolo in cammino verso nuovi cieli e terre nuove; per noi “Ogni terra straniera è patria e ogni patria è terra straniera”.[4]

Per questo la Chiesa avverte la tematica dell’accoglienza degli stranieri quale esperienza vicina alle proprie origini, quale occasione per rinnovare la nostra coscienza. Possiamo dunque affermare che l’immigrazione può essere una circostanza provvidenziale anche per l’Occidente, per impegnarsi in profondità. Occorre una disposizione del cuore e vedere – l’ho sottolineato altre volte – in tale fenomeno un appello a un mondo più fraterno e solidale, a un’integrazione multirazziale che sia segno e inizio della presenza di grazia di Dio in mezzo agli uomini.

L’immigrazione è davvero un’occasione storica per il futuro dell’Europa, occasione di bene o di male, a seconda di come la governeremo.

Il mio invito è di prendersi a cuore questa realtà non come un peso da sopportare, bensì quale grande appello della Provvidenza per un nuovo modo di vivere.

Ricordiamoci che, affrontando correttamente i problemi che quotidianamente vivono nel nostro Paese gli stranieri, contribuiremo alla soluzione di tanti problemi strutturali riguardanti pure gli italiani. Non si tratta di scatenare pericolose rivalità tra persone in stato di bisogno; si tratta piuttosto di affrontare globalmente i problemi posti sul piano sociale dall’immigrazione, con vantaggio per tutti, a partire dai più deboli e dai più sfortunati.

Concludo, permettendomi di sottolineare alcune problematiche forti.

Innanzi tutto quella giuridica. Le leggi esistenti devono certo essere applicate fino in fondo, in ogni loro aspetto. Se tuttavia come sembra essersi verificato, le norme, frutto di un’elaborazione svolta in un clima di concitata emergenza, risultano lacunose, a volte imprecise, e lasciano spazio ad abusi, allora è necessario porre mano con urgenza a una nuova legge organica sulla condizione giuridica dello straniero, che tenga conto del quadro reale del nostro Paese e non sia fatta sotto la spinta di emotività sociali o per finalità di carattere strumentale.

Inoltre, accanto a quella della casa e del lavoro, è decisiva la problematica della famiglia. I problemi della donna, dei minori, della coppia, appaiono, di fatto, sottovalutati. D’altra parte, poiché molti stranieri extracomunitari sono ormai lavoratori regolarmente occupati e residenti, va posta attenzione ai ricongiungimenti familiari, unitamente all’incontro e all’amicizia tra famiglie italiane ed estere. Il successo dell’integrazione degli immigrati stranieri nella nostra società si gioca proprio sulle seconde generazioni

Mi permetto dunque di invitare i pubblici poteri, gli operatori sociali, le comunità cristiane, il volontariato, a restare vigili su tutte le cause e le sempre nuove problematiche dell’immigrazione, a non farsi trovare impreparati e, di conseguenza, costretti all’improvvisazione e alla rincorsa affannosa delle continue emergenze.

Impariamo a governare pacificamente i conflitti, con senso di responsabilità e con amore del bene comune; cerchiamo di alzare lo sguardo e di guardare lontano; sforziamoci di lavorare insieme con lungimiranza; non temiamo di rischiare nell’iniziativa, consapevoli delle difficoltà ma insieme della grande occasione che stiamo vivendo.

[1] Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante, 1992.

[2] Id., Centesimus annus, n. 27.

[3] Commissione Cei per le migrazioni, 1993.

[4] Lettera a Diogneto.

mercoledì 27 giugno 2018

Avvenire: Don Lorenzo Milani. Lettera a una professoressa, un «pugno» che resta attuale

Francesco Gesualdi giovedì 18 maggio 2017

Lettera a una professoressa, un «pugno» che resta attuale
    
Quando Lettera a una Professoressa uscì alle stampe a fine maggio 1967, don Lorenzo Milani, il Priore, come lo chiamavamo noi, stava ormai molto male e su consiglio di tutti si era trattenuto a Firenze presso la mamma. A turno noi ragazzi lo assistevamo di giorno e di notte, ma benché molto debole non trascurò niente affinché la Lettera si diffondesse. Non potendo scrivere di persona, aveva incaricato noi ragazzi di segnalare l’uscita del libro a una serie di amici fra cui giornalisti, insegnanti, sindacalisti. Un messaggio semplice, scritto per suo conto, su una cartolina. All’inizio, la stampa non si occupò molto di Lettera a una professoressa, ma il dibattito divampò un mese più tardi quando il Priore morì. Dovendo occuparsi di questo prete così straordinario, i giornalisti furono costretti a leggere la sua ultima opera scritta assieme ai suoi ragazzi e tutti reagirono come se avessero ricevuto un cazzotto allo stomaco. Chiunque la leggesse non poteva fare a meno di immedesimarsi nel Gianni scartato o nel Pierino figlio di papà e benché indirizzata a una professoressa, ognuno la sentiva come indirizzata a se stesso. Una lettera personale a cui ognuno reagiva con ira, amore, commozione, mai con indifferenza, a seconda della posizione sociale occupata e del percorso di riflessione effettuato in ambito politico e morale.

Nel cinquantesimo della pubblicazione, molti si chiedono se Lettera a una professoressa sia ancora di attualità. La domanda è lecita perché la società a cui la Lettera fa riferimento non c’è più, almeno nella nostra parte d’Europa. Era una società rurale, mentre quella di oggi non è neanche più industriale: è una società terziaria dominata dall’informatica, dalla comunicazione, dalle biotecnologie. Dunque da un punto di vista economico e tecnologico Lettera a una professoressa appartiene a un’altra era geologica. Ma da un punto di vista sociale e politico è ancora di estrema attualità perché il panorama è mutato di poco. Per certi versi è addirittura peggiorato. Fondamentalmente la Lettera è un atto di accusa contro l’atteggiamento selettivo della scuola, addirittura classista verso i poveri. Un’opposizione messa in atto attraverso il sistema dei voti, del tempo breve, delle bocciature. Forse oggi si boccia meno nell’arco della scuola dell’obbligo, ma la richiesta di Lettera a una professoressa non è semplicemente quella di tenere ogni ragazzo in pari con i propri compagni, bensì di garantire a ciascuno il sapere di cui ha bisogno per essere cittadino sovrano. Da questo punto di vista non possiamo dire di avere fatto molti passi avanti.

Anzi siamo andati indietro considerato che il taglio alle spese operato in nome del debito ha ridotto il numero di insegnanti e aumentato il numero di alunni per classe. Cosa può sperare di imparare il bambino senegalese o albanese col suo italiano stentato in una classe di 25 alunni? Come diceva padre Balducci, le Barbiane del mondo sono ancora molte e stanno anche dentro la nostra Europa. La novità è che non si trovano più nei campi, ma nelle periferie urbane fra le famiglie immigrate e disoccupate. I loro bambini continuano ad avere grandi difficoltà nello studio a causa delle condizioni abitative, della babele di lingue in cui sono inseriti, della mancanza di famiglie alle spalle in grado di seguirli. Finché la scuola non abbandonerà l’atteggiamento del tribunale che giudica e non entrerà invece in quello dell’ospedale che si prende cura delle creature più fragili, Lettera a una professoressa conserva tutta la propria ragion d’essere.

La battaglia contro la discriminazione è un caposaldo della Lettera, ma sarebbe un errore interpretarla solo come una difesa corporativa delle fasce più deboli. In realtà, è una battaglia più ampia per i diritti, altro tema di grande attualità. I diritti fanno parte della tradizione liberale, che però li confina all’ambito politico e giuridico. Locke, ad esempio, ne citava solo tre: libertà, proprietà, vita. Col crescere della pressione popolare il concetto di diritto si è esteso ad aspetti sociali ed economici come l’acqua, l’alloggio, la sanità e giustappunto l’istruzione. La grande affermazione è che tutti dobbiamo accedere a questi servizi, anche se non possiamo pagarli, perché attengono alla dignità umana. Di colpo, così, si è affermata la gratuità e si è imposta la comunità, la sola che fornisce servizi, non attraverso la compra-vendita, ma la solidarietà. Questa prospettiva, però, danneggia il mercato perché ogni servizio affidato alla comunità è un’occasione di guadagno in meno per il settore privato. Di qui l’offensiva neoliberista per convincerci che i bisogni, compresi quelli fondamentali, non si soddisfano per diritto, ma per merito. Come dire che solo i forti, i veloci, gli intelligenti, i ricchi possono soddisfare tutti i bisogni che vogliono, mentre gli altri devono rinunciare.

Di sicuro non è un caso se la scuola si sta orientando sempre di più verso la meritocrazia rendendo di estrema attualità Lettera a una professoressa che già 50 anni fa criticava i voti, le interrogazioni, le promozioni, le bocciature, come espressione del principio del merito contro quello del diritto. La Lettera afferma senza mezzi termini che la scuola deve essere organizzata per garantire a tutti il diritto al sapere. Ma per quale scopo? In linea con l’ideologia dominante la scuola propone come fine la carriera, ma poiché l’egoismo non fa parte dello spirito giovanile, la motivazione della carriera non attecchisce, e la scuola è costretta a usare lo spauracchio dei voti e delle bocciature per spronare i ragazzi a studiare. A Barbiana ci veniva proposto di studiare per tutt’altri motivi, primo fra tutti la dignità personale che significa essere sempre in grado di decidere noi cosa fare o non fare, se necessario andando contro corrente, perfino contro la legge quando è sbagliata. L’antitesi della dignità sono le mode, l’adeguamento al comportamento di tutti solo per stare nel branco. Per questo Lettera a una professoressa chiede alla scuola di difendere i ragazzi dalle mode, non mettendoli sotto una campana di vetro ma insegnando loro a pensare e a non fare mai niente prima di averlo passato al vaglio della propria testa. A Barbiana il Priore ci spronava costantemente a pensare e diventava furioso di fronte a chi non sapeva argomentare le proprie scelte.

A Barbiana ci veniva anche insegnato che «il problema degli altri è uguale al nostro», per cui «uscirne da soli è l’avarizia, uscirne insieme è la politica». Perciò Barbiana era una finestra costantemente aperta sul mondo tramite la lettura del giornale e l’incontro con le numerose persone che venivano a farci visita. Con un obiettivo: renderci cittadini sovrani. Ed è proprio questa la finalità che Lettera a una professoressa assegna alla scuola in perfetta sintonia con Piero Calamandrei che definiva la scuola «organo costituzionale». A significare che non può esistere democrazia senza una scuola che mette tutti in grado di capire la realtà, di esprimere la propria opinione e di capire quella altrui. Esattamente gli stessi contenuti rivendicati dalla Lettera che fa della lingua il fulcro di una scuola libera, democratica e popolare.

lunedì 25 giugno 2018

Dialogo: spunti da uno dei protagonisti, Carlo Maria Martini

LE RELAZIONI EBRAICO-CRISTIANE







:: La situazione di oggi nel mondo
:: La domanda cruciale e la risposta fino a questo momento
:: Il futuro: avvertenze e speranze

La situazione di oggi nel mondo 

Mi piace iniziare evocando Martin Buber il quale, insieme con altri eminenti pensatori del secolo scorso penso a Franz Rosenzweig, Hennann Cohen, Leo Baeck e Jacques Maritain cercò costantemente di conciliare l'istanza critica della filosofia della scienza con l'esigenza personalistica della fede.

Mentre le grandi scuole filosofiche di Berlino e di Vienna (e, più tardi, quelle americane) si impegnavano con Neurath e Popper a fondare una filosofia scientifica che prescindeva da questioni di ordine metafisico, Buber non volle mai rinunciare alla speranza che trova nella fede il fondamento ultimo e nella storia una continua sfida alla libertà e alla responsabilità umana. Nel terzo millennio la storia interpella anche noi: per noi risuona oggi l'imperativo Zachor! , ricordati! non dimenticare l'uomo, tuo fratello; Shema' ascolta il suo grido di dolore che attraversa i secoli. I figli della memoria saranno i padri generosi di un futuro di pace.

L'immane tragedia della Seconda guerra mondiale e, in essa, l'abisso del male della Shoah ha purtroppo mostrato ancora una volta, e in misura mai prima sperimentata, quanto sia fragile il cammino dell'uomo nella storia, e di quanto orrore possiamo essere responsabili o complici; così l'interrogativo etico sul male si è riproposto con forza alle coscienze dei singoli e dei popoli.

Anche gli stermini di massa del ventesimo secolo, dal genocidio degli armeni fino alla "pulizia etnica" in Europa e ai massacri contemporanei in Africa centrale, stanno dinanzi a noi e ci coinvolgono. Anzi, possiamo dire che la misura della compassione e della solidarietà sta divenendo sempre più la cifra che mostra la maturità di ogni persona e mette alla prova la sua capacità di opporsi al male con il bene, fino al dono totale di sé - come fecero Martin Luther King, Gandhi o Madre Teresa.

Siamo sollecitati anche a fare memoria di altri umili grandi eroi, martiri della fede, della libertà e dell'amore: tra questi, Dietrich Bonhoffer, Bernhard Lichtenberg, Janusz Korczack. Come loro, tanti altri uomini e donne preferirono donare la vita per gli altri, i perseguitati, i deboli, i bambini ebrei orfani, i deportati nei campi di sterminio. È una folla immensa e silenziosa, che ci propone un esempio vivo di come sia possibile contrastare il male col bene, e ci aiuta a evitare che la sofferenza passata e presente venga dimenticata, rimossa, negata o banalizzata.

A più di cinquant'anni dalla Shoah, vi sono nel mondo vaste zone di miseria e di povertà, morale e materiale, sia a Oriente che a Occidente, nel Nord e nel Sud del mondo; una situazione che è aggravata dallo sfruttamento della miseria, da sistemi di commerci criminali di droga, armi, prostituzione, uniti allo sfruttamento insensato delle risorse naturali. Si ha l'impressione che la dottrina del pragmatismo economico presuma, ingenuamente, di presentarsi come soluzione generale ai problemi dell'umanità, salvo che poi non si rischi di ricadere negli errori delle generazioni precedenti. I programmi di un mercato mondiale rischieranno di fallire se non saranno sostenuti da un adeguato impegno civile, sociale, educativo e da una comune tensione etica.

La domanda cruciale e la risposta fino a questo momento 

In questo panorama mondiale, quale potrebbe essere il contributo dei cristiani e delle chiese, il contributo di ebrei e musulmani e di tutti gli uomini e donne di fede?

Una risposta ampia e meditata dei cristiani, frutto di un secolo di movimento spirituale e pratico, è stata il movimento ecumenico con i suoi protagonisti: John Mott, Nathan Soderblom, Atenagora, Giovanni XXIII, il cardinale Agostino Bea e molti altri. Tale movimento nasceva dall'esperienza missionaria, specialmente in Asia, e dal "movimento di Oxford" che guardava in modo particolare ai cristiani d'Oriente e alla Russia. Oggi, una nuova linfa di straordinario vigore può forse venire all'ecumenismo dal rinnovamento spirituale che si manifesta in alcuni movimenti.

Da parte ebraica, una risposta al nuovo clima di dialogo e di collaborazione non si è certo fatta attendere, preparata da personalità coraggiose, capaci di superare le barriere della diffidenza, barriere erette durante due millenni di insegnamento del disprezzo, di condanna e di persecuzione.

Dopo la catastrofe che travolse l'Europa, mentre ci si interrogava sulle responsabilità morali e civili di avvenimenti così tremendi, vi furono immediati riconoscimenti di errori e peccati che avevano reso possibili le atrocità e il male di Auschwitz. La prima Assemblea del Consiglio ecumenico delle chiese, riunita ad Amsterdam ne11948, pubblicò un documento nel quale le chiese confessavano "in tutta umiltà che troppo spesso abbiamo trascurato di manifestare l'amore cristiano verso il prossimo ebreo, e anzi quello della semplice giustizia sociale. Abbiamo tralasciato di combattere con tutte le nostre forze il disordine secolare dell'uomo rappresentato dall'antisemitismo [...]. chiediamo a tutte le chiese qui rappresentate di denunciare l'antisemitismo, qualunque siano le sue origini, come un atteggiamento assolutamente inconciliabile con la professione e la pratica delle fede cristiana [...]. L'antisemitismo è un peccato contro Dio e contro l'uomo".

Tre settimane prima, il Comitato internazionale ebraico-cristiano, che fu all'origine dell'istituzione dell'lnternational Council of Christians and Jews (ICCJ), aveva convocato a Seelisberg, in Svizzera, una conferenza internazionale che rivolse alle chiese un " Appello" in dieci punti, di fondamentale importanza per il dialogo.

Da allora sono trascorsi cinquant'anni, e possiamo riconoscere che i "Dieci punti di Seelisberg" hanno esercitato un influsso decisivo non solo orientando l'attività dell'ICCJ in prospettiva ecumenica, ma pure suscitando nelle Chiese una grande apertura verso Il popolo ebraIco, la sua stona e la sua tradizione spirituale.

L'ecumenismo e il dialogo con gli ebrei divennero anche punti qualificanti del programma di aggiornamento che papa Giovanni XXIII affidò al Concilio Vaticano II; esso trovò espressione nel decreto Unitatis Redintegratio e nella dichiarazione Nostra Aetate. Il successivo magistero pontificio di Giovanni Paolo Il e alcuni suoi gesti significativi, dalla visita alla sinagoga di Roma all'allacciamento di piene relazioni diplomatiche tra Santa Sede e stato d'lsraele, hanno permesso di compiere grandi passi nella direzione auspicata da Martin Buber per il superamento della frattura tra i "due generi di fede" e verso il riconoscimento della vocazione comune del popolo di Dio "in quanto Israele e in quanto chiesa".(1)

Più volte il papa ha levato la voce per indicare alla chiesa il cammino della teshuvah, la conversione e la riconciliazione tra chiesa e popolo ebraico, riconoscendo i torti e le discriminazioni inflitte a questo popolo durante secoli di prevalente cultura cristiana.

Le cinque dimensioni di un grave compito 

Dinanzi alle sfide del mondo contemporaneo, il compito di servire Dio "spalla a spalla" (Sof 3,9), lavorando insieme per la giustizia e la pace, costituisce un'opera di proporzioni immense. Si tratta infatti di collaborare con Dio da uomini liberi per restaurare nel mondo la signoria dell'Altissimo.

Anche il Giubileo del 2000 ha riproposto con forza il progetto di redenzione che Dio intende realizzare nella storia, come hanno annunziato i profeti d'Israele. Il grande anno santo della redenzione annunziato da Gesù consiste appunto nell'effusione dello Spirito del Signore: "Lo spirito del Signore è su di me, per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore" (Is 61, 1-2; Sof 2,3-4). Il fatto che Gesù abbia proclamato l'anno di grazia nella sinagoga di Nazaret non è senza significato: ci ricorda che neppure noi cristiani possiamo pretendere di ripetere il messaggio evangelico staccandoci dalla sinagoga, dalla nostra necessaria e radicale relazione con Israele.

Vorrei allora indicare le cinque dimensioni del grave compito cui siamo chiamati.

Anzitutto amore per Israele. L'amore per il popolo primogenito dell'Alleanza non è un'opzione per i cristiani, bensì un imperativo teologico che condiziona l'annuncio della salvezza. Nello stesso tempo dobbiamo rispettare l'identità di fede della comunità d'Israele, riconoscendo che il piano misterioso di salvezza, nel quale siamo stati innestati, riguarda sempre anche il popolo dell' Alleanza mosaica.

In proposito occorre riconoscere che esiste un'asimmetria tra Israele e la chiesa, e che essa ha pure una dimensione teologica e anche conseguenze e implicazioni storiche ed etiche. Ma non è, in fondo, un'icona mirabile dell'asimmetria dell'amore gratuito e premuroso di Dio per l'uomo, un amore smisurato che perdona, condivide, soffre con ogni uomo umiliato e offeso, con la vedova, con l'orfano e lo straniero, e che attraverso tale condivisione vuole per tutti la liberazione dal male? L'amore appassionato di Dio Padre si rivela anzitutto per Israele, e noi cristiani ne possiamo contemplare il volto paterno e materno leggendo, meditando e pregando la Bibbia degli ebrei, che la chiesa riceve con umiltà e gratitudine come suo primo libro sacro.

Oltre alla dimensione spirituale del nostro profondo legame con Israele, vi è una seconda dimensione in cui storia e responsabilità etica si fondono. Specialmente noi cristiani dobbiamo sentire un immenso dolore per le tragedie storiche che si sono abbattute sul popolo ebraico, tanto amato dal Padre; tragedie giunte fino al tentativo di distruzione totale nell'ultima guerra mondiale. E questa consapevolezza storica, che genera un senso di dolorosa solidarietà, non può arrestarsi finche non abbia portato alla confessione umile della nostra complicità, ripudiando ogni forma di antisemitismo e guidandoci sul cammino della teshuvah.

Una terza dimensione del nostro rapporto con Israele lega insieme storia e futuro ultimo del mondo, nella prospettiva della piena realizzazione della redenzione. L'azione misteriosa e potente di Dio salvatore continua a compiersi nella storia del popolo ebraico, oggi e in futuro, perché Dio ama ancora oggi come al principio questi suoi figli nella fedeltà dell'alleanza con essi mai revocata, per mezzo di loro fa lodare il suo nome in ogni parte della terra, a loro ancora oggi rivolge la sua chiamata. Con loro anche noi attendiamo i momenti dello svelamento dei cuori, e con loro siamo chiamati a collaborare per il bene della umanità.

Ma nella comune responsabilità per la salvezza del mondo e dell'umanità, Israele e la chiesa non sono soli: nella testimonianza universale di preghiera per la pace, convocata dal papa in Assisi nel 1986, si levarono voci in profonda consonanza con Isaia e il Vangelo. Il santo e saggio buddhista Shantideva (secolo VIII) pregava così: "Possano quanti sono stremati dal freddo trovare calore, e quanti sono oppressi dal caldo trovare refrigerio [...]. Possano tutti gli animali liberarsi dalla paura di essere divorati gli uni dagli altri; possano gli spiriti affamati essere felici, i ciechi vedere, i sordi sentire [...]. Possa l'ignudo trovare vestiti, l'affamato il cibo [...]. Possano tutti coloro che sono spaventati non avere più paura, e coloro che sono incatenati trovare la libertà [...] e possano tutti gli uomini mostrarsi amici fra di loro".

Non diversi furono gli accenti di preghiera induista, tratta dalle Upanishad, le antiche meditazioni sui Veda: "Confermiamo il nostro impegno nella costruzione della giustizia e della pace mediante gli sforzi di tutte le religioni del mondo [...]. Che Dio Onnipotente, l'amico di tutti, sia favorevole alla nostra pace. Possa il Giudice Divino essere il Donatore della pace per noi".

E conosciamo pure la pienezza di senso religioso e umano che la parola "pace" ha nella tradizione sia musulmana (salam ) sia ebraica (shalom), che collegano la pace con la presenza del regno di Dio e con l'obbedienza della fede (Islam), e fanno dell'augurio di pace l'espressione quotidiana di saluto tra i fratelli di fede. Questi accenti di fede e di profonda umanità, ampiamente diffusi nei testi sacri delle religioni del mondo, possono farci pensare a quel "libro dei popoli" di cui parla la Bibbia (cfr. Salmo 87,6): un libro celeste, nel quale Dio stesso scrive, ma le cui pagine trovano riferimento anche nei libri dei popoli del mondo.

Tutto ciò testimonia che le grandi tradizioni religiose dell'umanità sono in grado di ispirare anche oggi la ricerca e la costruzione delle vie della pace tra gli uomini, e in tale tensione si inserisce bene, a me sembra, l'impegno tenace e lungimirante dell'ICCJ. Di questo impegno si potrebbe dire quanto espresse Giovanni Paolo II al termine della storica preghiera per la pace in Assisi: "Cerchiamo di vedere in esso un'anticipazione di ciò che Dio vorrebbe che fosse lo sviluppo storico dell'umanità: un viaggio fraterno nel quale ci accompagniamo gli uni gli altri verso la meta trascendente che egli stabilisce per noi".

Negli accenti universali di preghiera e di pace ci piace cogliere un principio di fioritura della redenzione, un'effusione pentecostale dello spirito di Dio, come aveva predetto Gioele: "effonderò il mio spirito sopra ogni uomo" (Gl 3, 1; At 2, 17).

Certo, nel corso della storia dell'umanità questa effusione dello spirito si è compiuta non di rado in ambienti laici e profani: pensiamo alle sublimi meditazioni dei dialoghi di Platone, alla saggezza insegnata da Confucio, all'insaziabile ricerca della perfezione estetica nella musica e nelle arti fino alle scoperte e agli interrogativi suscitati dalla scienza contemporanea nelle università e nelle accademie, nei laboratori e nei centri di ricerca.

La sete di infinito e di verità ha preso anche le forme sublimi del mito e del racconto, esprimendosi in figure immortali come Ulisse o Prometeo, simboli di ogni uomo assetato di eternità e pellegrino dell'assoluto.

L'avventura umana nel mondo e persino la mirabile sinfonia del cosmo possono essere descritte nell'immagine di un incessante cammino, di una tensione perenne, di un pellegrinaggio sacro dell'uomo e del cosmo in ascesa verso la perfezione del bello e del santo, del giusto e del vero.

La luce della sapienza dell'Oriente e la raffinata scienza e tecnologia dell'Occidente si integrano reciprocamente e si compenetrano, senza mai pretendere di realizzare adeguatamente l'aspirazione suprema del cuore dell'uomo.

Il futuro: avvertenze e speranze   

Questo pellegrinaggio personale, storico e cosmico, si svolge sul crinale di due opposti abissi, librandosi tra essi sostenuto dal tenue filo d'argento della libertà. Da una parte c'è il bagliore, inestinguibile e accecante, della luce pura e ardente che supera ogni parola umana; dall'altra, invece, c'è la tenebra dell'errore, della volontà di potenza che può giungere a servirsi della verità più sacra per giustificare ogni violenza.

Dunque, anche il più santo dei pellegrinaggi rischia di trasformarsi in un'orrida strage di innocenti, come il martirio delle comunità ebraiche in Europa durante le crociate, e i roghi possono essere accesi per incenerire corpi di pii fedeli e pagine di libri venerati.

I libri più sacri, nella nostra, ma pure in altre tradizioni religiose, sono stati non di rado oggetto di ingiustificata distruzione o, all'opposto, sono stati strumentalizzati contro la loro natura e usati per giustificare azioni di persecuzioni e di violenza, contrarie alla dignità e alla libertà della persona umana; pensiamo, in particolare, al ruolo determinante delle tradizioni religiose per la promozione della dignità femminile, o alloro influsso negativo che può risultare di ostacolo alla piena parità dei diritti tra uomo e donna. Infine, il dialogo può diventare l'anticamera di una spietata condanna inquisitoria, della censura e della scomunica. Sarà perciò determinante, per la credibilità del Vangelo offerto all'umanità nel prossimo millennio, il modo in cui cercheremo di evitare e di porre rimedio a tali gravi errori e pregiudizi del passato.

D'altra parte, se tentassimo di camminare da soli nel processo di purificazione della memoria storica, i risultati probabilmente sarebbero poco significativi.

Questo cammino ci vede dunque solidali con tutta l'umanità: non solo con gli uomini a noi contemporanei, ma con gli uomini delle epoche che ci hanno preceduto e che seguiranno.

È allora tanto più importante promuovere un vero dialogo tra ebrei e cristiani, tra chiesa e popolo ebraico, come segno di speranza verso una ripresa di dialogo universale.

Se noi guardiamo i grandi progressi compiuti in questo campo nel breve spazio di mezzo secolo, il capovolgimento dei pregiudizi negativi che duravano da millenni, la nuova considerazione positiva i di Israele quale popolo di Dio che si va sempre più affermando tra i cristiani ci sentiamo incoraggiati ad affrettare le tappe del cammino. Oggi ci sembra, come cristiani, di poter entrare nel terzo millennio con maggiore consapevolezza degli errori che hanno ostacolato o hanno pesantemente condizionato l'annuncio fedele del Vangelo.

L'anno 2000 ha visto l'iniziativa del papa di porre tra gli obiettivi principali quello di un serio esame di coscienza" da parte di tutta la chiesa (2) e una forte sottolineatura ecumenica e interreligiosa.(3) 

Dal punto di vista ecclesiale, il papa legge nel Concilio Vaticano Il la migliore preparazione al terzo millennio, e la sua lettura è in sintonia con quella di Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI, che vedeva nel Vaticano II una prolusione ad un altro futuro concilio, che possa celebrare la festa di tutti i cristiani, finalmente affratellati in un solo ovile e con un solo pastore".(4) Un concilio, cioè, ecumenico in senso pieno, sulle orme dei primi sette della chiesa indivisa. Il gesto di Paolo VI che, nella Cappella Sistina, il 14 dicembre 1975 si inginocchia a baciare i piedi del Metropolita Melitone, rappresentante del patriarca Demetrio di Costantinopoli, è l'icona più rappresentativa anche perché non esiste alcuna foto ufficiale di un atteggiamento che dovrebbe diventare proprio di tutta la Chiesa nei confronti dell'umanità, a partire dal popolo di Israele.

La preghiera, il silenzio, la penitenza sono i pali che possono sostenere la tenda del nostro pellegrinaggio, una tenda che vorremmo aprire, come il nostro cuore, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà.

Naturalmente la tenda è soltanto provvisoria: la meta ultima del nostro pellegrinaggio, di cui ogni giorno è come mille anni e ogni millennio una modesta tappa, rimane quella assegnataci da Dio e che Egli sta preparandoci con amore nella Gerusalemme riconciliata.

Possiamo e vogliamo unire i cuori e le voci nella preghiera, perché il pellegrinaggio di tutti i popoli verso la santa Sion si compia, nell'esperienza personale e comunitaria. E ci è chiesto di vivere il servizio dell'amore fraterno, nel quale si realizza gioiosamente il culto di amore al Padre "in spirito e verità", secondo il canto del salmista:

Le sue fondamenta sono sui monti santi;
il Signore ama le porte di Sion
più di tutte le dimore di Giacobbe.
Di te si dicono cose stupende, città di Dio.
Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono;
ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia:
tutti là sono nati.
Si dirà di Sion:
"L'uno e l'altro è nato in essa
e l'Altissimo la tiene salda".
Il Signore scriverà nel libro dei popoli: "Là costui è nato".
E danzando canteranno:
"Sono in te tutte le mie sorgenti"
(Sal 87).

_________________________________ 
1. Cfr. K. Barth, Die kirchliche Dogmatik, 1I/2.
2. Giovanni Paolo II, Tertio Millennio Adveniente, pp. 35-37.
3. Ivi, p. 53.
4. G.B. Montini, Lettera pastorale all'arcidiocesi di Milano, 22 febbraio 1962.

[Relazione all'International Council of Chriistians and Jews, 18 gennaio 1999]

Alberto Maggi: La voce del popolo non è la voce di Dio




Vox Populi, vox Dei (“Voce di popolo, voce di Dio”)? Questo popolare detto, che si fa impropriamente risalire alla Bibbia, non sembra trovare d’accordo Dio stesso... Anzi, la Sacra scrittura, come spiega il biblista Alberto Maggi su il Libraio, invita a diffidare dell’opinione popolare. Che spesso, credendo di esprimere la volontà del popolo, non fa altro che realizzare quella dei potenti che lo sottomettono...


La conosciuta espressione Vox Populi, vox Dei (“Voce di popolo, voce di Dio”), si adopera per affermare e rivendicare che l’opinione e il consenso popolare hanno sempre l’avallo divino e che quindi quel che il popolo crede, afferma, e soprattutto reclama, sia sempre vero, giusto e sacrosanto.Ma questo popolare detto, che si fa impropriamente risalire alla Bibbia stessa (Is 66,6), e che pare coniato dal filosofo e teologo anglosassone Alcuino di York (+ 804), non sembra trovare d’accordo Dio, anzi, la Sacra scrittura sembra insegnare il contrario, e invita a diffidare dell’opinione popolare che, spesso, credendo di esprimere la volontà del popolo, non fa altro che realizzare quella dei potenti che lo sottomettono.

Compito dei profeti è stato proprio di liberare il popolo dalle sue convinzioni, per permettere allo stesso di avere un orizzonte ben più ampio di quello limitato dei propri interessi. Infatti, il più delle volte, questa Vox populi viene fatta risuonare per confermare, esaltare o difendere privilegi, tradizioni, credenze e convenienze che nascondono spesso egoismi e pregiudizi difficili da sradicare. La denuncia costante che i profeti rivolgono al popolo è quella di avere occhi e di non vedere e orecchi e non ascoltare (Is 6,10; Ger 5,21; Ez 12,2) e, quando la voce di Dio non viene ascoltata, quella del popolo non può riflettere in alcun modo la sua volontà perché, come denuncia il Signore stesso “Questo popolo si avvicina a me solo con la sua bocca e mi onora con le sue labbra, mentre il suo cuore è lontano da me” (Is 29,13; Sal 78,36-37; Mt 15,8).

Sfogliando la Bibbia, si vede fin dalle prime pagine che non sempre il Padreterno si è trovato d’accordo con la voce del popolo, e comunque non l’ha mai garantita come espressione della volontà divina, cominciando dalla costruzione della torre di Babele, che Dio non gradì. Il Signore, infatti, non giudicò positivo che gli uomini fossero un “unico popolo e un’unica lingua” (Gen 11,6), ovvero un pensiero unico, una volontà comune: troppo pericoloso per l’umanità, che deve la sua forza e la sua crescita proprio alla ricchezza che viene dalla diversità, e s’impoverisce invece nella sterile uniformità. Per questo “il Signore li disperse di là su tutta la terra…” (Gen 11,8), e quel che sembrò un danno fu invece provvidenziale per l’umanità.Fu anche la voce unanime del popolo quella che, nel deserto, mentre Mosè era salito sul monte Sinai per parlare col Signore e ricevere “le tavole di pietra, scritte dal dito di Dio” (Es 31,18), chiese ad Aronne, di costruire un vitello d’oro (“Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa”, Es 32,1). Ma anche quella volta il Signore non solo non si mostrò d’accordo con la volontà popolare, ma si adirò, e “colpì il popolo, perché aveva fatto il vitello fabbricato da Aronne” (Es 32,35).

Anche quando questo popolo, ormai costituito e insediatosi nella sua terra, chiese all’unanimità al Signore di dare loro un re come tutti gli altri popoli, Dio espresse il suo parere contrario: “Il Signore disse a Samuele: «Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro” (1 Sam 8,7). Pure in questo caso evidentemente, la “voce del popolo” non era propriamente quella di Dio. E la monarchia, che il popolo volle, contro la volontà del suo Signore, fu l’inizio di un’immane tragedia. Saul, il primo re, impazzì (1 Sam 16,14), e morì suicida (1 Sam 31,4) rigettato dal Signore proprio per aver ascoltato la voce del popolo, che evidentemente, ancora una volta, non coincideva con quella di Dio (“Ho peccato per avere trasgredito il comando del Signore e i tuoi ordini, mentre ho temuto il popolo e ho ascoltato la sua voce…”, 1 Sam 15,24). Il trono venne preso da David. Adultero e assassino (2 Sam 11), il Signore lo maledisse (2 Sam 12,11-14) e gli impedì di costruire il Tempio con le parole: “perché hai versato troppo sangue sulla terra davanti a me” (1 Cr 22,8). La monarchia terminò con il terzo re, Salomone, che morì idolatra (1 Re 11,4-5) e venne liquidato dalla Bibbia con la severa sentenza: “Salomone commise il male agli occhi del Signore” (1 Re 11,6). Gli successe il figlio Roboamo, un incapace che portò il regno alla rovina, causando lo scisma che pose praticamen­te fine alla monarchia (1 Re 12,3ss) con la divisione delle dodici tribù che costituivano Israele e, in un crescendo di sanguinarie lotte fratricide, si giunse allo sfaldamento della nazione e all’inevitabile occupazione straniera.Anche la drammatica vicenda del profeta Geremia evidenzia il conflitto che può esistere tra la voce del popolo e quella di Dio. Su invito del suo Signore, Geremia annunciò al popolo che, se non tornava ad osservare la Legge divina, sarebbe stata la fine di Gerusalemme e la distruzione del suo tempio (Ger 26,1-6). La reazione all’invito a un cambio di condotta fu la violenza, e con il concorso di tutti, “i sacerdoti, i profeti e tutto il popolo lo arrestarono dicendo: «Devi morire! Perché hai predetto nel nome del Signore: «Questo tempio diventerà come Silo e questa città sarà disabitata»?». Tutto il popolo si radunò contro Geremia nel tempio del Signore” (Ger 26,8-9). Ma il profeta rispose ai capi e a tutto il popolo: “Migliorate dunque la vostra condotta e le vostre azioni e ascoltate la voce del Signore, vostro Dio, e il Signore si pentirà del male che ha annunciato contro di voi” (Ger 26,13).Secondo i vangeli anche Gesù diffida della voce del popolo, che non considera di provenienza divina e quando può se ne allontana, come la volta in cui tentarono di “rapirlo per farlo re” (Gv 6,15; Mc 1,37). Gesù voleva rendere il popolo libero, ma questo era disposto a rinunciare alla libertà che gli era stata offerta e preferiva l’obbedienza e la sottomissione a un re e, così come Mosè salì al monte da solo dopo il tradimento del popolo (Es 34,3-4), ugualmente Gesù si ritirò su il monte, da solo (Gv 6,15).Gesù pagherà caro il rifiuto di essere re del suo popolo, e quando si tratterà di scegliere tra lui e un assassino, la vox populi, vox Dei senza esitazione sceglierà Barabba, un criminale che “si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio” (Mc 15,8; Lc 23,19). Barabba, ribelle violento, rappresenta quel falso ideale di liberazione che non permetterà mai la vera crescita e emancipazione del popolo. Lasciandosi manovrare dalle autorità religiose, la folla rifiuta il dono di salvezza offerto da Gesù e sceglie ciò che sarà causa della sua rovina. La vox populi è facilmente manovrabile, e quella stessa folla che accolse festante Gesù con gli “Osanna!” sarà la stessa che griderà “Crocifiggi!” (Gv 19,6). La voce del popolo in realtà era quella delle autorità religiose, da sempre leste e abili nel manovrare i sentimenti della folla secondo i loro interessi (“I capi dei sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a chiedere Barabba e a far morire Gesù”, Mt 27,20).No, la voce del popolo non è garanzia di essere la voce di Dio, ma solo se si ascolta la voce di Dio si è certi di essere suo popolo: “Ascoltate la mia voce, e io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo” (Ger 7,23; 11,4).  

Ecumenismo. Il Papa a Ginevra: «Lasciamoci provocare dalle sfide del mondo»

Avvenire: Stefania Falasca, inviata a Ginevra giovedì 21 giugno 2018

"È difficile perdonare, portiamo sempre dentro un po’ di rammarico, di astio, e quando siamo provocati da chi abbiamo già perdonato, il rancore ritorna con gli interessi". Lo ha ammesso il Papa, che nell'omelia della Messa al Palaexpo di Ginevra spiegando che "il Signore pretende come dono il nostro perdono", "la clausola vincolante del Padre Nostro".

"Dio ci libera il cuore da ogni peccato, perdona tutto, tutto, ma una cosa chiede: che non ci stanchiamo di perdonare a nostra volta", ha ribadito Francesco: "Vuole da ciascuno un'amnistia generale delle colpe altrui. Bisognerebbe fare una bella radiografia del cuore, per vedere se dentro di noi ci sono blocchi, ostacoli al perdono, pietre da rimuovere. E allora dire al Padre: ‘Vedi questo macigno, lo affido a te e ti prego per questa persona, per questa situazione; anche se fatico a perdonare, ti chiedo la forza per farlo’".

"Ciascuno di noi rinasce creatura nuova quando, perdonato dal Padre, ama i fratelli", ha garantito il Papa citando il caso di Pietro, perdonato da Gesù, e di Saulo, che "diventò Paolo dopo il perdono ricevuto da Stefano". "Solo allora immettiamo nel mondo novità vere, perché non c’è novità più grande del perdono, che cambia il male in bene", ha proseguito Francesco citando la storia cristiana: "Perdonarci tra noi, riscoprirci fratelli dopo secoli di controversie e lacerazioni, quanto bene ci ha fatto e continua a farci!". "Non arroccarci con animo indurito, pretendendo sempre dagli altri, ma fare il primo passo, nella preghiera, nell’incontro fraterno, nella carità concreta", l’invito finale: "Così saremo più simili al Padre, che ama senza tornaconto. Ed egli riverserà su di noi lo Spirito di unità".

Nella Messa al Palaexpo, «Guai a chi specula sul pane»
"Guai a chi specula sul pane! Il cibo di base per la vita quotidiana dei popoli dev'essere accessibile a tutti". A levare il grido è stato il Papa, durante l’omelia della Messa al Palaexpo di Ginevra, dove ha spiegato che "chiedere il pane quotidiano è dire anche: ‘Padre, aiutami a fare una vita più semplice’". "La vita è diventata tanto complicata, per molti è come drogata", l’allarme di Francesco: "Si corre dal mattino alla sera, tra mille chiamate e messaggi, incapaci di fermarsi davanti ai volti, immersi in una complessità che rende fragili e in una velocità che fomenta l’ansia". In questo contesto, per il Papa, "s’impone una scelta di vita sobria, libera dalle zavorre superflue. Una scelta controcorrente, come fece a suo tempo san Luigi Gonzaga, che oggi ricordiamo. La scelta di rinunciare a tante cose che riempiono la vita ma svuotano il cuore". 

"Scegliamo la semplicità del pane per ritrovare il coraggio del silenzio e della preghiera, lievito di una vita veramente umana", la ricetta di Francesco: "Scegliamo le persone rispetto alle cose, perché fermentino relazioni personali, non virtuali. Torniamo ad amare la fragranza genuina di quel che ci circonda. Quando ero piccolo, a casa, se il pane cadeva dalla tavola, ci insegnavano a raccoglierlo subito e a baciarlo. Apprezzare ciò che di semplice abbiamo ogni giorno, custodirlo: non usare e gettare, ma apprezzare e custodire". Il "Pane quotidiano" è Gesù, ha ricordato infine il Papa: "Senza di lui non possiamo fare nulla. È lui l’alimento base per vivere bene". "A volte, però, Gesù lo riduciamo a un contorno", il monito: "Ma se non è il nostro cibo di vita, il centro delle giornate, il respiro della quotidianità, tutto è vano. Domandando il pane chiediamo al Padre e diciamo a noi stessi ogni giorno: semplicità di vita, cura di quel che ci circonda, Gesù in tutto e prima di tutto".



«Lasciamoci provocare dalle sfide del mondo»
«Chiediamoci allora: che cosa possiamo fare insieme? Se un servizio è possibile, perché non progettarlo e compierlo insieme, cominciando a sperimentare una fraternità più intensa nell’esercizio della carità concreta?». Dopo la visita e il pranzo all’Istituto Ecumenico Bossey, centro internazionale di dialogo e formazione del Consiglio mondiale delle Chiese immerso nel verde della campagna tra Versoix e Nyon a venticinque chilometri da Ginevra, papa Francesco ha partecipato nel pomeriggio all'incontro ecumenico nella Visser’t Hooft del Centro ecumenico ginevrino. Alle parole del segretario generale del Consiglio, Olav Fykse Tveit e a quelle della teologa anglicana Agnes Aubom, la riflessione del Papa si è soffermata sul motto scelto per questa giornata: «Camminare-Pregare-Lavorare insieme», che, come ha affermato Tveit nel corso della conferenza stampa tenuta a Bossey, riportando la conversazione privata avuta con il Papa a pranzo, è da considerarsi «la trinità ecumenica che porta all’unità». 

IL TESTO INTEGRALE

Camminare per papa Francesco ha «un duplice movimento: in entrata e in uscita»: in entrata verso Cristo e in uscita verso i fratelli «per portare insieme la grazia risanante del Vangelo all’umanità sofferente».

Pregare vuol dire anche che quando «diciamo “Padre nostro” risuona dentro di noi la nostra figliolanza, ma anche il nostro essere fratelli. La preghiera – ha poi ribadito – è l’ossigeno dell’ecumenismo. Senza preghiera la comunione diventa asfittica e non avanza».

Lavorare insieme è ciò che rende «la credibilità del Vangelo» perché la credibilità è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tragico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta i conflitti ed ha elencato la fattiva collaborazione instaurata in cinque decenni con la Chiesa cattolica in una società in cui «i deboli sono sempre più emarginati, senza pane, lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi» .

«Sentiamoci interpellati – ha detto il Papa – dal pianto di coloro che soffrono, e proviamo compassione». Soprattutto «incoraggiamoci a superare la tentazione di assolutizzare determinati paradigmi culturali e di farci assorbire da interessi di parte. Non possiamo disinteressarci, «e c’è da inquietarsi – ha sottolineato il Papa – quando alcuni cristiani si mostrano indifferenti nei confronti di chi è disagiato». «Ancora più triste» poi «è la convinzione di quanti ritengono i propri benefici puri segni di predilezione divina, anziché chiamata a servire responsabilmente la famiglia umana e a custodire il creato». Perché è sull’amore per il prossimo, «per ogni prossimo, il Signore, Buon Samaritano dell’umanità (cfr Lc 10,29-37) che ci interpellerà».

«Riscoprire la missione è la nuova indispensabile frontiera dell’ecumenismo»


Nel suo secondo discorso a Ginevra, davanti ai membri del Consiglio ecumenico delle Chiese, papa Francesco ha così insistito sulla missione e sulla testimonianza comune al Vangelo che i cristiani possono e debbono dare nel nostro tempo. Venuto qui a celebrare il 70° anniversario dell’istituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese, ha ringraziato i primi ecumenisti che, «spinti dall'accorato desiderio di Gesù, non si sono lasciati imbrigliare dagli intricati nodi delle controversie, ma hanno trovato l’audacia di guardare oltre e di credere nell'unità, superando gli steccati dei sospetti e della paura». Persone – ha detto – che «con l’inerme forza del Vangelo, hanno avuto il coraggio di invertire la direzione della storia, quella storia che ci aveva portato a diffidare gli uni degli altri e ad estraniarci reciprocamente, assecondando la diabolica spirale di continue frammentazioni». E se il Consiglio delle Chiese «è nato come strumento di quel movimento ecumenico suscitato da un forte appello alla missione» papa Francesco ha posto l’attenzione proprio su questo punto: «Come possono i cristiani evangelizzare se sono divisi tra loro? Questo urgente interrogativo indirizza ancora il nostro cammino e traduce la preghiera del Signore ad essere uniti “perché il mondo creda”». Il Papa ha espresso a questo proposito una preoccupazione, derivante «dall'impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine».

«Eppure – sottolinea Bergoglio - il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione dello sviluppo umano, non può essere dimenticato né svuotato. Ne va della nostra identità. L’annuncio del Vangelo fino agli estremi confini è connaturato al nostro essere cristiani. Certamente, il modo in cui esercitare la missione varia a seconda dei tempi e dei luoghi e, di fronte alla tentazione, purtroppo ricorrente, di imporsi seguendo logiche mondane, occorre ricordare che la Chiesa di Cristo cresce per attrazione» ha ripetuto mutuando quanto già espresso da Benedetto XVI. 
«Ma in che cosa consiste questa forza di attrazione? – si è chiesto il Papa – Non certo nelle nostre idee, strategie o programmi: a Gesù Cristo non si crede mediante una raccolta di consensi e il popolo di Dio non è riducibile al rango di una organizzazione non governativa. No, la forza di attrazione sta tutta in quel sublime dono che conquistò l’apostolo Paolo: “Conoscere [Cristo], la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze”».

Francesco ha invitato dunque a non ridurre «questo tesoro al valore di un umanesimo puramente immanente, adattabile alle mode del momento. E saremmo cattivi custodi se volessimo solo preservarlo, sotterrandolo per paura di essere provocati dalle sfide del mondo». Due atteggiamenti diversi ma ugualmente deleteri per Francesco che fotografano altrettanti approcci oggi riscontrabili nel mondo cristiano: l’adattamento al mondo, o la paura del mondo che fa rinchiudere in un fortino sentendosi assediati.

«Ciò di cui abbiamo veramente bisogno – ha sottolineato il Papa - è un nuovo slancio evangelizzatore. Siamo chiamati a essere un popolo che vive e condivide la gioia del Vangelo, che loda il Signore e serve i fratelli, con l’animo che arde dal desiderio di dischiudere orizzonti di bontà e di bellezza inauditi a chi non ha ancora avuto la grazia di conoscere veramente Gesù. Sono convinto che, se aumenterà la spinta missionaria, aumenterà anche l’unità fra noi». Riscoprire la missione è dunque la nuova indispensabile frontiera dell’ecumenismo: «L’evangelizzazione segnerà la fioritura di una nuova primavera ecumenica».

«Le distanze non siano scuse, serviamo insieme il mondo»


«Camminare insieme per noi cristiani non è una strategia per far maggiormente valere il nostro peso, ma un atto di obbedienza nei riguardi del Signore e di amore nei confronti del mondo». Nella sede del Consiglio ecumenico delle Chiese (World Council of Churches, WCC) di Ginevra papa Francesco approfondisce ciò che è essenziale nel cammino ecumenico, in un luogo che è il segno di un impegno ormai storico della comunione delle oltre trecento denominazioni cristiane che insieme collaborano sulle grandi sfide che attraversano l’umanità, dalle situazioni di conflitto alle emergenze umanitarie e lavorano per il Vangelo nel mondo, la giustizia e la pace e con cui la Chiesa cattolica opera da cinquant’anni.

«Camminare, pregare e lavorare insieme» è il motto comune scelto per questo breve ma intenso ventitreesimo viaggio papale all’estero nel segno dell’ecumenismo e che intende dare un nuovo impulso all’azione comune dei credenti in Cristo. Nel quartiere immerso nel verde a due passi dall’aeroporto e dal Palexpo, nella cappella del Consiglio ecumenico delle Chiese, Francesco ha recitato la «preghiera di pentimento» ed ha ascoltato la lettura di un brano della Lettera ai Galati di san Paolo. Ed è proprio dalla lettera dell’Apostolo Paolo ai Galati, che «sperimentavano travagli e lotte interne e si affrontavano accusandosi vicenda», che Francesco prende la parola per una puntuale meditazione indicando cosa volesse dire per l’Apostolo delle genti «camminare insieme secondo lo Spirito». «Camminare secondo lo Spirito è rigettare la mondanità – afferma Francesco –. È scegliere la logica del servizio e progredire nel perdono. È calarsi nella storia col passo di Dio: non col passo rimbombante della prevaricazione, ma con quello cadenzato da «un solo precetto: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”».

«Siamo chiamati, insieme, a camminare così – ribadisce il Papa – la strada perciò passa per una continua conversione, per il «rinnovamento della nostra mentalità perché si adegui a quella dello Spirito Santo». È questa – per papa Francesco – la via da seguire anche per il cammino ecumenico, passando attraverso una «continua conversione». L’ecumenismo potrà progredire solo se, camminando sotto la guida dello Spirito, rifiuterà ogni ripiegamento autoreferenziale.

Francesco ha fatto osservare che nel corso della storia, «le divisioni tra cristiani sono spesso avvenute perché alla radice, nella vita delle comunità, si è infiltrata una mentalità mondana», perché prima sono venuti i proprio i propri interessi: «Prima si alimentavano gli interessi propri, poi quelli di Gesù Cristo»: «Stare insieme agli altri, camminare insieme, ma con l’intento di soddisfare qualche interesse di parte. Questa non è la logica dell’Apostolo, è quella di Giuda, che camminava insieme a Gesù ma per i suoi affari».

In queste situazioni «il nemico di Dio e dell’uomo – ha aggiunto il Papa riferendosi al demonio – ha avuto gioco facile nel separarci, perché la direzione che inseguivamo era quella della carne, non quella dello Spirito. Persino alcuni tentativi del passato di porre fine a tali divisioni sono miseramente falliti, perché ispirati principalmente a logiche mondane». Camminare secondo lo Spirito, significa perciò scegliere «con santa ostinazione la via del Vangelo» e «rifiutare le scorciatoie del mondo».

Per progredire nel cammino ecumenico bisogna quindi per papa Francesco «lavorare in perdita», non pensando a tutelare soltanto «gli interessi delle proprie comunità, spesso saldamente legati ad appartenenze etniche o a orientamenti consolidati, siano essi maggiormente “conservatori” o “progressisti”». Bisogna «scegliere di essere del Signore prima che di destra o di sinistra, scegliere in nome del Vangelo il fratello anziché sé stessi significa spesso, agli occhi del mondo, lavorare in perdita. L’ecumenismo è “una grande impresa in perdita”. Ma si tratta di perdita evangelica».

«Il Signore ci chiede unità; il mondo, dilaniato da troppe divisioni che colpiscono soprattutto i più deboli, invoca unità». La meta è l’unità, «la strada contraria, quella della divisione, porta a guerre e distruzioni», oltre che danneggiare «la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura» ha detto con chiarezza il Papa. Ma ha pure voluto sottolineare che «camminare insieme per noi cristiani non è una strategia per far maggiormente valere il nostro peso, ma un atto di obbedienza nei riguardi del Signore e di amore nei confronti del mondo». E «le distanze che esistono non siano scuse - ha ribadito - perché «è possibile già ora camminare secondo lo Spirito: pregare, evangelizzare, servire insieme, questo è possibile e gradito a Dio!».

mercoledì 20 giugno 2018

«Il Signore protegge lo straniero» (SAL 146,9)

Riflessioni di teologia biblica  Gabriele F. Bentoglio

1. Bibbia e migrazioni

La rivelazione biblica dedica numerosi riferimenti alle relazioni interpersonali, e non solo a quelle che spiegano l’interazione tra i membri del popolo dell’alleanza, ma anche a quelle che coinvolgono gruppi di diversa estrazione etnica. Il fatto non stupisce, dal momento che la Bibbia, benché si presenti oggi nella veste di un’opera letteraria, non proviene dall’astrazione né da pura immaginazione, ma soprattutto dalla sperimentazione, prima, e poi da una caratteristica comprensione e interpretazione della realtà, specialmente di eventi, persone e fatti, alla luce della personale rivelazione divina. Anche il forestiero, perciò, è costantemente presente, spesso in chiave positiva, sebbene non manchino occorrenze adombrate da sospetto e diffidenza, soprattutto nella letteratura veterotestamentaria più recente (cf. Sir 11,29.34; 29,22-28).

2. Lo straniero nell’Antico Testamento

Nell’Antico Testamento, il forestiero trova posto in particolare nei testi legislativi e negli oracoli profetici. Qui, si focalizzano diversi modi per qualificare lo straniero: c’è l’estraneo che viene da fuori e, dunque, non appartiene al popolo eletto, ma intrattiene con esso rapporti di stretta continuità: è l’immigrato che fissa la sua dimora tra la gente di Israele, definito dal vocabolo gēr. Poi c’è il forestiero di passaggio, che non intende stabilirsi nel nuovo territorio sul quale si trova a transitare: in questo caso, il termine che lo indica è nēkār (nokrî nella forma aggettivale), al quale la Bibbia riserva meno attenzione che all’immigrato residente, proprio per il diverso statuto, che non esige una precisa regolamentazione di rapporti occasionali.

a) Prospettiva spirituale

Il libro del Levitico, dal canto suo, assimila al gēr il tôšāb, quasi a renderli sinonimi: «Voi siete presso di me come forestieri (gērîm) e inquilini (tôšābîm)» (Lv 25,23.35.47), in corrispondenza alla raccomandazione di non alienare in perpetuo la terra, perché Dio assicura che «la terra è mia» (Lv 25,23). Il ricordo di essere stati stranieri in Egitto ha segnato duramente la storia degli israeliti, al punto che gli scrittori biblici richiamano alla memoria più volte quel fatto del passato, sia per tracciare i lineamenti dell’identità nuova, acquisita con l’esperienza dell’itineranza dell’esodo, sia per orientare il positivo comportamento verso il forestiero. In effetti, il riferimento allo straniero rimanda in primo luogo all’esistenza terrena, con le sue caratteristiche di provvisorietà e di transitorietà, oltre a includere la dimensione geografica della lontananza dalla patria. Del resto, questa è la prospettiva di valore tipica della rivelazione biblica, ben riassunta nella preghiera che Davide rivolge a Dio: «Noi siamo stranieri davanti a te e pellegrini come tutti i nostri padri» (1Cr 29,15). A questo passo corrispondono, nella traduzione greca (LXX), i moduli linguistici paroikoi kai… paroikountes, che contengono l’idea di paroikia come «condizione di vita nell’estraneità», designando plasticamente la situazione che si trova ad affrontare il migrante lontano da casa sua, dalla sua patria, dal suo ambiente d’origine. Vi confluiscono i temi dello sradicamento, del disagio e dello smarrimento, così come la speranza di un avvenire più prospero e il sogno di migliori prospettive. L’argomento ritorna, ad esempio, nella fiduciosa invocazione del salmista, che confessa davanti al Signore la precarietà tipica del migrante, con queste parole:

Ascolta la mia preghiera, Signore… non essere sordo alle mie lacrime, poiché io sono un forestiero, uno straniero (paroikos kai parepidemos) come tutti i miei padri (Sal 39,13; cf. anche Sal 119,9).

b) Dimensione storica

Accanto a questo orientamento spirituale, tuttavia, non si deve trascurare il desiderio, motivato dalla contingenza storica, di regolamentare il comportamento verso il forestiero, come nel caso di Es 23,9: «Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto». Il popolo biblico, mentre confessa che Dio lo ha liberato dall’oppressione e lo ha guidato verso una terra nuova, avverte fortemente lo stimolo a creare una società diversa, nella quale possano rispecchiarsi le qualità di yhwh, che si è dimostrato amante del povero e del bisognoso, difensore dell’orfano, della vedova e dell’immigrato (Dt 14,28-29; 24,17; 26,12-13; 27,19, ecc.). Così, nella terra, che appartiene a Dio e che Dio regala al popolo, l’atto di benedizione al momento dell’offerta delle primizie del suolo, che è allo stesso tempo anche atto di fede e proclamazione della memoria storica, si conclude con la condivisione della festa, alla quale partecipano anche i meno fortunati, come gli immigrati (Dt 26,1-11). Ancora, al tempo della mietitura e della bacchiatura, la spigolatura è riservata al povero e al forestiero (Lv 23,22; Dt 24,20), il quale deve essere trattato «come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Lv 19,34). Infine, nella distribuzione delle decime si fa preciso riferimento al forestiero, insieme al levita, all’orfano e alla vedova (Dt 26,12). Insomma, appare chiaro che, nel dimostrare una benevola attenzione verso l’immigrato, gli israeliti assomigliano di più a quel Dio giusto e buono, che «ha pietà del debole e del povero, e salva la vita dei suoi miseri» (Sal 72,13), amante di tutte le sue creature, anche di quelle che necessitano maggiore tutela, per cui «protegge lo straniero» (Sal 146,9), «ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Dt 10,18).

c) Lo spirito umanitario della legge

In quest’ottica umanitaria, è considerato un atto di giustizia il permettere agli immigrati di partecipare alla vita della comunità, in mezzo alla quale essi hanno preso dimora, e l’essere giudicati dalla stessa legge che si applica agli israeliti (Nm 15,15). Come per i membri del popolo eletto, anche ai gērîm e ai nokrîm viene riconosciuto il diritto di asilo in caso di omicidio involontario, presso determinate città di rifugio (Nm 35,15). Il riposo festivo nel giorno di sabato spetta di diritto anche agli immigrati (Dt 5,14-15), così come compete loro il dovere di osservare i riti di espiazione (Lv 16,29) e di astenersi dal commettere immoralità (Lv 18,26). Sebbene non siano obbligati a osservare la Pasqua, essi possono tuttavia parteciparvi, ma soltanto dopo che gli uomini della famiglia siano stati circoncisi (Es 12,48-49). Per il resto, non vi può essere discriminazione di fronte a un’azione compiuta con intenzione malvagia: «La persona che agisce con deliberazione, nativo del paese o straniero insulta il Signore: essa sarà eliminata dal suo popolo» (Nm 15,30); viene perciò sancito, oltre al principio di reciprocità, anche quello dell’uguaglianza di fronte alla legge: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero, che è domiciliato in mezzo a voi» (Es 12,49). Dunque, dalle prescrizioni bibliche pare che gli immigrati possano godere di un certo grado di libertà e di parità con i nativi di Israele, ma solamente nel quadro di una progressiva assimilazione al sistema di vita degli ospitanti. Di fatto, soltanto in forza della circoncisione un gēr maschio viene equiparato a un israelita e i suoi figli possono essere integrati nella comunità di Israele. Una norma, questa, che ostacolerà anche la comunità cristiana delle origini, la quale, però, saprà oltrepassarla e aprire le porte a tutti coloro che non rifiutano di accogliere la pluralità delle diversità, nella tensione escatologica verso l’unità in Cristo, «erede di tutte le cose» (Eb 1,2), nella misura della pienezza che caratterizza «l’uomo perfetto» (Ef 4,13), con la consapevolezza che «coloro che seguono la via» (At 9,2) «vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è terra straniera» (Lettera a Diogneto V, 5). È proprio questo orientamento cristologico-escatologico, nel novum del dinamismo ecclesiale, che costituisce il fondamento dell’esigenza cristiana di non lasciare nulla di intentato per diventare accoglienti e ospitali nei confronti del diverso, dello straniero, dell’immigrato.

3. Il dovere sacro dell’ospitalità e la novità dell’accoglienza

In effetti, l’Israele antico troverà sempre difficile il percorso della tolleranza, dell’apertura, dell’accoglienza, nonostante gli stimoli, i suggerimenti, le ingiunzioni e i rimproveri. Soprattutto la letteratura sapienziale offre dinamiche di apertura allo straniero, ma conservando l’esigenza di fargli accettare i propri schemi religiosi e rivelando, in questo modo, un tipico conflitto tra universalismo ideale e particolarismo di fatto. La conquista dell’importante tappa della filantropia, anche teologicamente motivata, in pratica, costituisce un traguardo, che non apre nuovi orizzonti all’Israele biblico. Questi condivide con il mondo del vicino Oriente antico l’apprezzamento per il valore sacro dell’ospitalità, il quale forma, così, un argomento di notevole spessore. Esso, tuttavia, non incorpora tutta la magnanima bontà dell’accoglienza, come realtà fondata cristologicamente ed ecclesiologicamente, che va intesa non già come comportamento pratico-concreto, ma anzitutto come atteggiamento di apertura positiva verso Dio, verso il prossimo e verso l’annuncio del kerygma, come ben attestano soprattutto i Vangeli e l’epistolario paolino. In realtà, il definitivo giro di boa, con la predicazione di Gesù e la vita della Chiesa, è garantito da un importante cambiamento di prospettiva, dove appunto avviene il passaggio dall’ospitalità come impegno-dovere pratico di primo soccorso verso l’altro, anche straniero-immigrato, alla diakonia dell’accoglienza, che precede, motiva e ingloba le dinamiche operative della carità.

4. Accoglienza e ospitalità nel Nuovo Testamento

Sotto questo profilo, Gesù raccomanda l’ospitalità, ma punta soprattutto sull’accoglienza: del resto, egli non ha la possibilità di offrire un rifugio o un ricovero materiale, visto che non ha neppure dove poggiare il capo (Mt 8,20). Però, per primo egli dimostra verso tutti un atteggiamento di amorevole sollecitudine: verso la gente che accorre, da diverse parti della regione, per sentire la sua parola (cf. Mt 4,25), nei confronti dei malati che chiedono di essere guariti, benché forestieri (cf. Mt 15,21-28), con i bambini che le mamme gli conducono perché li benedica (Mt 19,13-15; Mc 10,13-16; Lc 18,15-17). Nell’esperienza storica di Gesù, gli evangelisti notano che anch’egli sperimenta l’intimità dell’amicizia, come nella casa di Betania, dove «una donna, che si chiamava Marta, lo accolse in casa sua» (Lc 10,38), ma condivide anche la gioia dei lontani, che si lasciano convertire dalla sua accogliente presenza, come nel caso di Zaccheo a Gerico (Lc 19,6), o di Matteo a Cafarnao (Mc 2,14-15).

a) Il prossimo

L’accoglienza, il farsi prossimo, è caratteristica fondamentale di Gesù, riassunta nella parabola del Samaritano, che manifesta la misericordiosa bontà dell’uomo nell’incontro con il suo prossimo, sebbene questi appartenga ad altra etnia, professi un diverso credo religioso o si identifichi in differenti tradizioni socio-culturali (Lc 10,25-37). In effetti, l’occasione di questo racconto parabolico è fornita da una questione posta a Gesù da un nomikos, cioè un esperto della Tôrah, preoccupato non tanto che si ribadisca il comandamento mosaico dell’amore, quanto che si determini l’ambito in cui si deve applicare la legge, dal momento che nella concezione giudaica il prossimo si configura all’interno del contesto dell’alleanza, dove appunto si colloca la legge. Gesù, invece, con una contro-domanda, rinvia il suo interlocutore alla vita, sollecitandolo a confrontarsi con i fatti, con la realtà, con la durezza del quotidiano, dove si incontrano donne e uomini nel bisogno. Ecco perché agli esponenti dell’ortodossia – il «dottore della legge» – Gesù contrappone un rappresentante degli esclusi – l’eretico Samaritano –: d’ora in poi solo l’amore compassionevole sarà la chiave per definire il prossimo, al di là delle distinzioni e delle separazioni di carattere religioso, culturale o etnico. La tensione presente nel testo lucano tra il prossimo come oggetto e il prossimo come soggetto di amore si scioglie proprio nel riferimento al dinamismo vitale di quella compassionevole bontà, che Luca applica con insistenza a Gesù, ad esempio davanti alle lacrime della vedova di Nain (Lc 7,13) e nell’incontro tra il figlio perduto e la sconfinata speranza del padre (Lc 15,20), così come nello sconvolgimento interiore che il Samaritano avverte alla vista del malcapitato sulla strada da Gerusalemme a Gerico (Lc 10,33). Dunque, chi vuole ereditare la vita, attuando l’unico amore che abbraccia Dio e il prossimo, deve collocarsi in questa nuova angolazione, che rende le persone vicine e solidali.

b) La reciprocità

In seguito, attorno alla presenza eucaristica del Maestro, viva e reale, si formano le comunità cristiane, che tuttavia non sono esenti da conflitti e tensioni.

Un esempio interessante, per approfondire la riflessione sull’interazione tra gruppi di diversa estrazione etnico-religiosa, si legge nella lettera ai Romani. Le esortazioni di Rm 14,1-2 e 15,7, in particolare, s’inquadrano al centro delle considerazioni di Paolo sull’importanza dell’accoglienza reciproca, appunto imitando l’atteggiamento accogliente di Cristo:

Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza mettervi a discutere le sue convinzioni;

Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio.

Il pensiero paolino prende il via dai dissensi sorti a motivo di diverse tradizioni alimentari e cultuali, ma subito decolla a delineare una realtà di comunione ben più profonda, suggerita anche dal ricorso al verbo greco proslambanein, in sostituzione della tipica designazione dell’offerta ospitale descritta da xenizein. Nelle relazioni interpersonali, dunque, Paolo raccomanda una sintonia decisamente più vasta e impegnativa, quella stessa che suggerirà ai credenti di realizzare nell’occasione dell’arrivo di Epafrodito (Fil 2,29), di Febe (Rm 16,1-2), di Tito (2Cor 8,22-24); quella che esigerà da Filemone nei confronti del nuovo fratello Onesimo (Fm 17); quella che ricorderà di aver sperimentato di persona al suo primo contatto con i pagani della Galazia (Gal 4,12-15).

c) L’agapē

Paolo, del resto, è convinto che non vi può essere vera agapē che non comprenda in se stessa anche l’accoglienza; come pure non si può trovare accoglienza, nel senso cristiano, che non proceda da vera carità. Altrimenti si avrebbe semplice filantropia o cordiale umanitarismo. Ora, tra i significati originari del verbo agapan vi è appunto quello di accogliere. Per questo, nel suo celebre elogio dell’agapē, Paolo dice esplicitamente che «la carità è benigna» (1Cor 13,4) ossia, secondo la forza del termine greco qui impiegato (chresteuetai), è bontà, delicatezza e sensibilità (cf. Mt 11,30; Lc 5,39), tutte virtù di chi ha un animo comprensivo e un cuore aperto e ricettivo verso l’altro. È in questa linea che, nella lettera ai Romani, volendo mettere in luce l’agapē, Paolo ricorda che Cristo, che è la fonte e il modello della carità, ha dimostrato il suo amore «accogliendo» i credenti, benché fossero peccatori, nella comunione trinitaria (Rm 14,3; 15,7). Ecco perché, nella stessa lettera, si dilunga scrivendo:

La carità sia senza ipocrisie. Nell’amore fraterno siate affettuosi gli uni verso gli altri; nell’onore prevenitevi scambievolmente; nella sollecitudine non siate pigri. Siate ferventi nello spirito; servite il Signore; siate allegri nella speranza, pazienti nell’afflizione, perseveranti nella preghiera; pronti a condividere le necessità dei santi, premurosi verso i forestieri (Rm 12,9-13).

La vera agapē, pertanto, si manifesta nel nutrire vicendevolmente gli stessi sentimenti, nel praticare le stesse virtù, nel prendere a cuore la sorte gli uni degli altri e nell’andare incontro alle necessità del prossimo.

Così intesa, essa non può esaurirsi nei confini della comunità. È vero che la fraternità impegna anzitutto quelli che sono «dentro» di fronte ad altri che sono «fuori» (1Cor 5,11-13), ma nella logica del lievito a beneficio di tutta la pasta (Mt 13,33; Lc 13,21; 1Cor 5,6; Gal 5,9), del sale che insaporisce i cibi (Mt 5,13; Mc 9,50) e della fiaccola che illumina l’intera casa (Mt 5,15-16; Lc 11,33-36). All’interno della comunità si pratica la correzione fraterna (Mt 18,15) in vista della reciproca sollecitudine (1Cor 8,12; 2Cor 9,1; Gal 6,10), facendo attenzione all’intromissione di «falsi fratelli» (2Cor 11,26; Gal 2,4-5). Tuttavia, anche se forse in seconda battuta, l’agapē deve comunque indirizzarsi pure all’esterno, abbracciando tutti in vista di formare, nella varietà dei carismi, il medesimo corpo di Cristo (Rm 12,4-5; 1Cor 12,12-27). Un motivo, questo, che dà contenuto all’idea originaria di paroikia, che oggi abbiamo perduto. Nell’etimologia del vocabolo, infatti, par-oikos/oikia punta a configurare coloro che vivono lontano dall’oikos per essere vicini alla patria autentica, quella celeste, verso la quale tutta l’umanità è in cammino, evidenziando il riferimento alla consapevolezza di condurre l’esistenza nella dinamica del pellegrinaggio. Ecco allora che l’itinerario comune e la partecipazione alla medesima condizione di itineranza motivano la sollecitudine dell’agapē, dove la comunità ecclesiale è chiamata a essere «l’anima del mondo» (Lettera a Diogneto VI, 1).

5. Il fondamento cristologico dell’autentica accoglienza

Queste ragioni, di ordine cristologico ed ecclesiologico, stanno alla base della preoccupazione di Paolo per i poveri delle comunità più bisognose, ma anche della sua insistenza nel raccomandare una particolare attenzione verso tutti i forestieri, gli ospiti e i pellegrini. In definitiva, il «missionario dei pagani» si dimostra in sostanziale accordo con la lezione matteana del giudizio finale, dove si attesta che chi accoglie l’altro come un fratello entra in contatto con Gesù stesso. Infatti, Gesù si identifica nel volto bisognoso del prossimo: «Chi accoglie uno di questi piccoli nel mio nome, accoglie me» (Mt 18,5) e «ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40.45). Poi si precisa nei dettagli: «Poiché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Nell’ultimo riferimento, l’evangelista ricorre al verbo synagein per spiegare che non s’intende il mero esercizio di un’opera di misericordia. Si suggerisce, in verità, un’accoglienza fatta di partecipazione, condivisione, integrazione e interazione: l’altro, soprattutto nel caso dello straniero, non ha bisogno soltanto di essere accudito, ma necessita altresì di essere riconosciuto e tutelato nella sua dignità di persona umana. Il verbo synagein, infatti, designa tipicamente l’adunanza dell’assemblea (da cui deriva, tra l’altro, la synagogē), dove la comunione si fortifica mediante la convocazione, il raduno e la compartecipazione. La comunità cristiana, dunque, sarà veramente tale se saprà rendere partecipe anche l’immigrato dei suoi beni e dei suoi valori, come la Parola e l’eucaristia, senza dimenticare, ovviamente, la pratica del soccorso caritativo. Qui, in ogni caso, si apre l’arduo itinerario dell’inculturazione del kerygma, dov’è importante evitare la tentazione dell’esaltazione o del primato delle singole culture, per orientare il cammino alla responsabilità reciproca di giungere alla vita in abbondanza e quindi a Gesù Cristo, che è pienezza di vita. Infatti, l’inculturazione ha il suo significato nella promozione della vita in Cristo, che è contrassegnata dall’accoglienza, dalla relazione e dalla comunione.

6. Filantropia e agapē

In conclusione, l’esperienza di fede e la riflessione teologica della comunità cristiana, non meno che il confronto con la realtà del quotidiano, hanno stimolato la maturazione di una convinzione di fondo: il solo disbrigo della concretezza filantropica non è sufficiente. Certo, l’assistenza umanitaria è già un’importante conquista, che merita lode e incoraggiamento. Corrisponde, ad esempio, alla prontezza servizievole di Abramo alle querce di Mamre (Gn 18,1-8), all’attenta sensibilità di Lot verso gli stranieri giunti a Sodoma sul far della sera (Gn 19,1-3), all’insistente premura del suocero del levita di Efraim (Gdc 19,1-10), alla sollecitudine di Rahab a Gerico (Gs 2,1-21), alla filantropia di Giobbe (31,32) o alla generosità ospitale, attestata da numerosi passi biblici. Ma non è sufficiente. Per essere completa, l’agapē deve farsi ascolto, interazione, dialogo e interscambio: insomma, l’altro, anche l’immigrato, non è più soltanto «oggetto» di attenzione, ma diventa protagonista di nuove relazioni interpersonali. Il migrante è al centro della dimensione pastorale della Chiesa, ma nel ruolo di attivo interlocutore, non solo come destinatario di un servizio[1].

In definitiva, si ribadisce l’importanza di favorire, promuovere e difendere la centralità e la dignità della persona, di ogni persona, tutta la persona, di tutte le persone senza eccezione alcuna, con la ferma convinzione che «la principale risorsa dell’uomo… è l’uomo stesso»[2] e che, nella complessità dei movimenti migratori, «il migrante è assetato di “gesti” che lo facciano sentire accolto, riconosciuto e valorizzato come persona» (EMCC 96).

Puntare sull’accoglienza, quindi, significa non fermarsi alle molteplici attività assistenziali e caritative, di appoggio e di conforto della persona umana, ma qualificare anzitutto, con la prospettiva escatologica dell’unità di tutto il genere umano, la forza della motivazione cristiana della missione, che precede la vasta articolazione del fare e si attesta nella vitale dinamicità dell’essere.

Nota bibliografica

G. Bentoglio, Apertura e disponibilità. L’accoglienza nell’epistolario paolino, PUG, Roma 1995.

Id., Il ministero di Paolo in catene (Fm 9), in «Rivista Biblica» 53 (2005) 173-189.

B. Byrne, The Hospitality of God. A Reading of Luke’s Gospel, St Paul’s Publ., Strathfield 2000.

I. Cardellini (ed.), Lo «straniero» nella Bibbia, EDB, Bologna 1996.

C. Di Sante, Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina 2002.

J. Schreiner - R. Kampling, Il prossimo, lo straniero, il nemico, EDB, Bologna 2001.


[1] Cf. Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, Istruzione Erga migrantes caritas Christi (03.05.2004) (EMCC), nn. 37-38. 91.

[2] Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus annus (01.05.1991), n. 32.