LE RELAZIONI EBRAICO-CRISTIANE
:: La situazione di oggi nel mondo
:: La domanda cruciale e la risposta fino a questo momento
:: Il futuro: avvertenze e speranze
La situazione di oggi nel mondo
Mi piace iniziare evocando Martin Buber il quale, insieme con altri eminenti pensatori del secolo scorso penso a Franz Rosenzweig, Hennann Cohen, Leo Baeck e Jacques Maritain cercò costantemente di conciliare l'istanza critica della filosofia della scienza con l'esigenza personalistica della fede.
Mentre le grandi scuole filosofiche di Berlino e di Vienna (e, più tardi, quelle americane) si impegnavano con Neurath e Popper a fondare una filosofia scientifica che prescindeva da questioni di ordine metafisico, Buber non volle mai rinunciare alla speranza che trova nella fede il fondamento ultimo e nella storia una continua sfida alla libertà e alla responsabilità umana. Nel terzo millennio la storia interpella anche noi: per noi risuona oggi l'imperativo Zachor! , ricordati! non dimenticare l'uomo, tuo fratello; Shema' ascolta il suo grido di dolore che attraversa i secoli. I figli della memoria saranno i padri generosi di un futuro di pace.
L'immane tragedia della Seconda guerra mondiale e, in essa, l'abisso del male della Shoah ha purtroppo mostrato ancora una volta, e in misura mai prima sperimentata, quanto sia fragile il cammino dell'uomo nella storia, e di quanto orrore possiamo essere responsabili o complici; così l'interrogativo etico sul male si è riproposto con forza alle coscienze dei singoli e dei popoli.
Anche gli stermini di massa del ventesimo secolo, dal genocidio degli armeni fino alla "pulizia etnica" in Europa e ai massacri contemporanei in Africa centrale, stanno dinanzi a noi e ci coinvolgono. Anzi, possiamo dire che la misura della compassione e della solidarietà sta divenendo sempre più la cifra che mostra la maturità di ogni persona e mette alla prova la sua capacità di opporsi al male con il bene, fino al dono totale di sé - come fecero Martin Luther King, Gandhi o Madre Teresa.
Siamo sollecitati anche a fare memoria di altri umili grandi eroi, martiri della fede, della libertà e dell'amore: tra questi, Dietrich Bonhoffer, Bernhard Lichtenberg, Janusz Korczack. Come loro, tanti altri uomini e donne preferirono donare la vita per gli altri, i perseguitati, i deboli, i bambini ebrei orfani, i deportati nei campi di sterminio. È una folla immensa e silenziosa, che ci propone un esempio vivo di come sia possibile contrastare il male col bene, e ci aiuta a evitare che la sofferenza passata e presente venga dimenticata, rimossa, negata o banalizzata.
A più di cinquant'anni dalla Shoah, vi sono nel mondo vaste zone di miseria e di povertà, morale e materiale, sia a Oriente che a Occidente, nel Nord e nel Sud del mondo; una situazione che è aggravata dallo sfruttamento della miseria, da sistemi di commerci criminali di droga, armi, prostituzione, uniti allo sfruttamento insensato delle risorse naturali. Si ha l'impressione che la dottrina del pragmatismo economico presuma, ingenuamente, di presentarsi come soluzione generale ai problemi dell'umanità, salvo che poi non si rischi di ricadere negli errori delle generazioni precedenti. I programmi di un mercato mondiale rischieranno di fallire se non saranno sostenuti da un adeguato impegno civile, sociale, educativo e da una comune tensione etica.
La domanda cruciale e la risposta fino a questo momento
In questo panorama mondiale, quale potrebbe essere il contributo dei cristiani e delle chiese, il contributo di ebrei e musulmani e di tutti gli uomini e donne di fede?
Una risposta ampia e meditata dei cristiani, frutto di un secolo di movimento spirituale e pratico, è stata il movimento ecumenico con i suoi protagonisti: John Mott, Nathan Soderblom, Atenagora, Giovanni XXIII, il cardinale Agostino Bea e molti altri. Tale movimento nasceva dall'esperienza missionaria, specialmente in Asia, e dal "movimento di Oxford" che guardava in modo particolare ai cristiani d'Oriente e alla Russia. Oggi, una nuova linfa di straordinario vigore può forse venire all'ecumenismo dal rinnovamento spirituale che si manifesta in alcuni movimenti.
Da parte ebraica, una risposta al nuovo clima di dialogo e di collaborazione non si è certo fatta attendere, preparata da personalità coraggiose, capaci di superare le barriere della diffidenza, barriere erette durante due millenni di insegnamento del disprezzo, di condanna e di persecuzione.
Dopo la catastrofe che travolse l'Europa, mentre ci si interrogava sulle responsabilità morali e civili di avvenimenti così tremendi, vi furono immediati riconoscimenti di errori e peccati che avevano reso possibili le atrocità e il male di Auschwitz. La prima Assemblea del Consiglio ecumenico delle chiese, riunita ad Amsterdam ne11948, pubblicò un documento nel quale le chiese confessavano "in tutta umiltà che troppo spesso abbiamo trascurato di manifestare l'amore cristiano verso il prossimo ebreo, e anzi quello della semplice giustizia sociale. Abbiamo tralasciato di combattere con tutte le nostre forze il disordine secolare dell'uomo rappresentato dall'antisemitismo [...]. chiediamo a tutte le chiese qui rappresentate di denunciare l'antisemitismo, qualunque siano le sue origini, come un atteggiamento assolutamente inconciliabile con la professione e la pratica delle fede cristiana [...]. L'antisemitismo è un peccato contro Dio e contro l'uomo".
Tre settimane prima, il Comitato internazionale ebraico-cristiano, che fu all'origine dell'istituzione dell'lnternational Council of Christians and Jews (ICCJ), aveva convocato a Seelisberg, in Svizzera, una conferenza internazionale che rivolse alle chiese un " Appello" in dieci punti, di fondamentale importanza per il dialogo.
Da allora sono trascorsi cinquant'anni, e possiamo riconoscere che i "Dieci punti di Seelisberg" hanno esercitato un influsso decisivo non solo orientando l'attività dell'ICCJ in prospettiva ecumenica, ma pure suscitando nelle Chiese una grande apertura verso Il popolo ebraIco, la sua stona e la sua tradizione spirituale.
L'ecumenismo e il dialogo con gli ebrei divennero anche punti qualificanti del programma di aggiornamento che papa Giovanni XXIII affidò al Concilio Vaticano II; esso trovò espressione nel decreto Unitatis Redintegratio e nella dichiarazione Nostra Aetate. Il successivo magistero pontificio di Giovanni Paolo Il e alcuni suoi gesti significativi, dalla visita alla sinagoga di Roma all'allacciamento di piene relazioni diplomatiche tra Santa Sede e stato d'lsraele, hanno permesso di compiere grandi passi nella direzione auspicata da Martin Buber per il superamento della frattura tra i "due generi di fede" e verso il riconoscimento della vocazione comune del popolo di Dio "in quanto Israele e in quanto chiesa".(1)
Più volte il papa ha levato la voce per indicare alla chiesa il cammino della teshuvah, la conversione e la riconciliazione tra chiesa e popolo ebraico, riconoscendo i torti e le discriminazioni inflitte a questo popolo durante secoli di prevalente cultura cristiana.
Le cinque dimensioni di un grave compito
Dinanzi alle sfide del mondo contemporaneo, il compito di servire Dio "spalla a spalla" (Sof 3,9), lavorando insieme per la giustizia e la pace, costituisce un'opera di proporzioni immense. Si tratta infatti di collaborare con Dio da uomini liberi per restaurare nel mondo la signoria dell'Altissimo.
Anche il Giubileo del 2000 ha riproposto con forza il progetto di redenzione che Dio intende realizzare nella storia, come hanno annunziato i profeti d'Israele. Il grande anno santo della redenzione annunziato da Gesù consiste appunto nell'effusione dello Spirito del Signore: "Lo spirito del Signore è su di me, per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore" (Is 61, 1-2; Sof 2,3-4). Il fatto che Gesù abbia proclamato l'anno di grazia nella sinagoga di Nazaret non è senza significato: ci ricorda che neppure noi cristiani possiamo pretendere di ripetere il messaggio evangelico staccandoci dalla sinagoga, dalla nostra necessaria e radicale relazione con Israele.
Vorrei allora indicare le cinque dimensioni del grave compito cui siamo chiamati.
Anzitutto amore per Israele. L'amore per il popolo primogenito dell'Alleanza non è un'opzione per i cristiani, bensì un imperativo teologico che condiziona l'annuncio della salvezza. Nello stesso tempo dobbiamo rispettare l'identità di fede della comunità d'Israele, riconoscendo che il piano misterioso di salvezza, nel quale siamo stati innestati, riguarda sempre anche il popolo dell' Alleanza mosaica.
In proposito occorre riconoscere che esiste un'asimmetria tra Israele e la chiesa, e che essa ha pure una dimensione teologica e anche conseguenze e implicazioni storiche ed etiche. Ma non è, in fondo, un'icona mirabile dell'asimmetria dell'amore gratuito e premuroso di Dio per l'uomo, un amore smisurato che perdona, condivide, soffre con ogni uomo umiliato e offeso, con la vedova, con l'orfano e lo straniero, e che attraverso tale condivisione vuole per tutti la liberazione dal male? L'amore appassionato di Dio Padre si rivela anzitutto per Israele, e noi cristiani ne possiamo contemplare il volto paterno e materno leggendo, meditando e pregando la Bibbia degli ebrei, che la chiesa riceve con umiltà e gratitudine come suo primo libro sacro.
Oltre alla dimensione spirituale del nostro profondo legame con Israele, vi è una seconda dimensione in cui storia e responsabilità etica si fondono. Specialmente noi cristiani dobbiamo sentire un immenso dolore per le tragedie storiche che si sono abbattute sul popolo ebraico, tanto amato dal Padre; tragedie giunte fino al tentativo di distruzione totale nell'ultima guerra mondiale. E questa consapevolezza storica, che genera un senso di dolorosa solidarietà, non può arrestarsi finche non abbia portato alla confessione umile della nostra complicità, ripudiando ogni forma di antisemitismo e guidandoci sul cammino della teshuvah.
Una terza dimensione del nostro rapporto con Israele lega insieme storia e futuro ultimo del mondo, nella prospettiva della piena realizzazione della redenzione. L'azione misteriosa e potente di Dio salvatore continua a compiersi nella storia del popolo ebraico, oggi e in futuro, perché Dio ama ancora oggi come al principio questi suoi figli nella fedeltà dell'alleanza con essi mai revocata, per mezzo di loro fa lodare il suo nome in ogni parte della terra, a loro ancora oggi rivolge la sua chiamata. Con loro anche noi attendiamo i momenti dello svelamento dei cuori, e con loro siamo chiamati a collaborare per il bene della umanità.
Ma nella comune responsabilità per la salvezza del mondo e dell'umanità, Israele e la chiesa non sono soli: nella testimonianza universale di preghiera per la pace, convocata dal papa in Assisi nel 1986, si levarono voci in profonda consonanza con Isaia e il Vangelo. Il santo e saggio buddhista Shantideva (secolo VIII) pregava così: "Possano quanti sono stremati dal freddo trovare calore, e quanti sono oppressi dal caldo trovare refrigerio [...]. Possano tutti gli animali liberarsi dalla paura di essere divorati gli uni dagli altri; possano gli spiriti affamati essere felici, i ciechi vedere, i sordi sentire [...]. Possa l'ignudo trovare vestiti, l'affamato il cibo [...]. Possano tutti coloro che sono spaventati non avere più paura, e coloro che sono incatenati trovare la libertà [...] e possano tutti gli uomini mostrarsi amici fra di loro".
Non diversi furono gli accenti di preghiera induista, tratta dalle Upanishad, le antiche meditazioni sui Veda: "Confermiamo il nostro impegno nella costruzione della giustizia e della pace mediante gli sforzi di tutte le religioni del mondo [...]. Che Dio Onnipotente, l'amico di tutti, sia favorevole alla nostra pace. Possa il Giudice Divino essere il Donatore della pace per noi".
E conosciamo pure la pienezza di senso religioso e umano che la parola "pace" ha nella tradizione sia musulmana (salam ) sia ebraica (shalom), che collegano la pace con la presenza del regno di Dio e con l'obbedienza della fede (Islam), e fanno dell'augurio di pace l'espressione quotidiana di saluto tra i fratelli di fede. Questi accenti di fede e di profonda umanità, ampiamente diffusi nei testi sacri delle religioni del mondo, possono farci pensare a quel "libro dei popoli" di cui parla la Bibbia (cfr. Salmo 87,6): un libro celeste, nel quale Dio stesso scrive, ma le cui pagine trovano riferimento anche nei libri dei popoli del mondo.
Tutto ciò testimonia che le grandi tradizioni religiose dell'umanità sono in grado di ispirare anche oggi la ricerca e la costruzione delle vie della pace tra gli uomini, e in tale tensione si inserisce bene, a me sembra, l'impegno tenace e lungimirante dell'ICCJ. Di questo impegno si potrebbe dire quanto espresse Giovanni Paolo II al termine della storica preghiera per la pace in Assisi: "Cerchiamo di vedere in esso un'anticipazione di ciò che Dio vorrebbe che fosse lo sviluppo storico dell'umanità: un viaggio fraterno nel quale ci accompagniamo gli uni gli altri verso la meta trascendente che egli stabilisce per noi".
Negli accenti universali di preghiera e di pace ci piace cogliere un principio di fioritura della redenzione, un'effusione pentecostale dello spirito di Dio, come aveva predetto Gioele: "effonderò il mio spirito sopra ogni uomo" (Gl 3, 1; At 2, 17).
Certo, nel corso della storia dell'umanità questa effusione dello spirito si è compiuta non di rado in ambienti laici e profani: pensiamo alle sublimi meditazioni dei dialoghi di Platone, alla saggezza insegnata da Confucio, all'insaziabile ricerca della perfezione estetica nella musica e nelle arti fino alle scoperte e agli interrogativi suscitati dalla scienza contemporanea nelle università e nelle accademie, nei laboratori e nei centri di ricerca.
La sete di infinito e di verità ha preso anche le forme sublimi del mito e del racconto, esprimendosi in figure immortali come Ulisse o Prometeo, simboli di ogni uomo assetato di eternità e pellegrino dell'assoluto.
L'avventura umana nel mondo e persino la mirabile sinfonia del cosmo possono essere descritte nell'immagine di un incessante cammino, di una tensione perenne, di un pellegrinaggio sacro dell'uomo e del cosmo in ascesa verso la perfezione del bello e del santo, del giusto e del vero.
La luce della sapienza dell'Oriente e la raffinata scienza e tecnologia dell'Occidente si integrano reciprocamente e si compenetrano, senza mai pretendere di realizzare adeguatamente l'aspirazione suprema del cuore dell'uomo.
Il futuro: avvertenze e speranze
Questo pellegrinaggio personale, storico e cosmico, si svolge sul crinale di due opposti abissi, librandosi tra essi sostenuto dal tenue filo d'argento della libertà. Da una parte c'è il bagliore, inestinguibile e accecante, della luce pura e ardente che supera ogni parola umana; dall'altra, invece, c'è la tenebra dell'errore, della volontà di potenza che può giungere a servirsi della verità più sacra per giustificare ogni violenza.
Dunque, anche il più santo dei pellegrinaggi rischia di trasformarsi in un'orrida strage di innocenti, come il martirio delle comunità ebraiche in Europa durante le crociate, e i roghi possono essere accesi per incenerire corpi di pii fedeli e pagine di libri venerati.
I libri più sacri, nella nostra, ma pure in altre tradizioni religiose, sono stati non di rado oggetto di ingiustificata distruzione o, all'opposto, sono stati strumentalizzati contro la loro natura e usati per giustificare azioni di persecuzioni e di violenza, contrarie alla dignità e alla libertà della persona umana; pensiamo, in particolare, al ruolo determinante delle tradizioni religiose per la promozione della dignità femminile, o alloro influsso negativo che può risultare di ostacolo alla piena parità dei diritti tra uomo e donna. Infine, il dialogo può diventare l'anticamera di una spietata condanna inquisitoria, della censura e della scomunica. Sarà perciò determinante, per la credibilità del Vangelo offerto all'umanità nel prossimo millennio, il modo in cui cercheremo di evitare e di porre rimedio a tali gravi errori e pregiudizi del passato.
D'altra parte, se tentassimo di camminare da soli nel processo di purificazione della memoria storica, i risultati probabilmente sarebbero poco significativi.
Questo cammino ci vede dunque solidali con tutta l'umanità: non solo con gli uomini a noi contemporanei, ma con gli uomini delle epoche che ci hanno preceduto e che seguiranno.
È allora tanto più importante promuovere un vero dialogo tra ebrei e cristiani, tra chiesa e popolo ebraico, come segno di speranza verso una ripresa di dialogo universale.
Se noi guardiamo i grandi progressi compiuti in questo campo nel breve spazio di mezzo secolo, il capovolgimento dei pregiudizi negativi che duravano da millenni, la nuova considerazione positiva i di Israele quale popolo di Dio che si va sempre più affermando tra i cristiani ci sentiamo incoraggiati ad affrettare le tappe del cammino. Oggi ci sembra, come cristiani, di poter entrare nel terzo millennio con maggiore consapevolezza degli errori che hanno ostacolato o hanno pesantemente condizionato l'annuncio fedele del Vangelo.
L'anno 2000 ha visto l'iniziativa del papa di porre tra gli obiettivi principali quello di un serio esame di coscienza" da parte di tutta la chiesa (2) e una forte sottolineatura ecumenica e interreligiosa.(3)
Dal punto di vista ecclesiale, il papa legge nel Concilio Vaticano Il la migliore preparazione al terzo millennio, e la sua lettura è in sintonia con quella di Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI, che vedeva nel Vaticano II una prolusione ad un altro futuro concilio, che possa celebrare la festa di tutti i cristiani, finalmente affratellati in un solo ovile e con un solo pastore".(4) Un concilio, cioè, ecumenico in senso pieno, sulle orme dei primi sette della chiesa indivisa. Il gesto di Paolo VI che, nella Cappella Sistina, il 14 dicembre 1975 si inginocchia a baciare i piedi del Metropolita Melitone, rappresentante del patriarca Demetrio di Costantinopoli, è l'icona più rappresentativa anche perché non esiste alcuna foto ufficiale di un atteggiamento che dovrebbe diventare proprio di tutta la Chiesa nei confronti dell'umanità, a partire dal popolo di Israele.
La preghiera, il silenzio, la penitenza sono i pali che possono sostenere la tenda del nostro pellegrinaggio, una tenda che vorremmo aprire, come il nostro cuore, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
Naturalmente la tenda è soltanto provvisoria: la meta ultima del nostro pellegrinaggio, di cui ogni giorno è come mille anni e ogni millennio una modesta tappa, rimane quella assegnataci da Dio e che Egli sta preparandoci con amore nella Gerusalemme riconciliata.
Possiamo e vogliamo unire i cuori e le voci nella preghiera, perché il pellegrinaggio di tutti i popoli verso la santa Sion si compia, nell'esperienza personale e comunitaria. E ci è chiesto di vivere il servizio dell'amore fraterno, nel quale si realizza gioiosamente il culto di amore al Padre "in spirito e verità", secondo il canto del salmista:
Le sue fondamenta sono sui monti santi;
il Signore ama le porte di Sion
più di tutte le dimore di Giacobbe.
Di te si dicono cose stupende, città di Dio.
Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono;
ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia:
tutti là sono nati.
Si dirà di Sion:
"L'uno e l'altro è nato in essa
e l'Altissimo la tiene salda".
Il Signore scriverà nel libro dei popoli: "Là costui è nato".
E danzando canteranno:
"Sono in te tutte le mie sorgenti"
(Sal 87).
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1. Cfr. K. Barth, Die kirchliche Dogmatik, 1I/2.
2. Giovanni Paolo II, Tertio Millennio Adveniente, pp. 35-37.
3. Ivi, p. 53.
4. G.B. Montini, Lettera pastorale all'arcidiocesi di Milano, 22 febbraio 1962.
[Relazione all'International Council of Chriistians and Jews, 18 gennaio 1999]