Come ha messo in giusto rilievo Giovanni Marcotullio, in un recente testo su “Aleteia”, la discussione che la condizione di quarantena ha aperto intorno alla messa e alle sue difficoltà, non deve far dimenticare l’altra questione bruciante, che si apre intorno al tema della “confessione sacramentale”, alle sue forme e alle diverse soluzioni che vengono proposte per affrontare le difficoltà legate alla condizione di “pandemia”, con tutto ciò che questo significa in termini di distanze, esclusione del contatto, presidio sanitario e normativa civile che si impone anche a livello ecclesiale. Una immagine, che correda in apertura l’articolo di Marcotullio, fotografa bene una delle forme di “recezione” della novità: un prete, seduto a debita distanza, all’aperto, in una specie di parcheggio, ascolta la confessione di un penitente che sta seduto nella sua automobile. L’auto si trasforma in confessionale, per un sacramento in versione “drive-in”. La inventiva pastorale non ha limiti. Ma forse è bene sostare sulla questione in modo più complessivo e generale. Io sono convinto che anche per questo sacramento, come per l’eucaristia, la “emergenza virus” sia in grado di far emergere una serie di questioni che riguardano il senso stesso del sacramento della penitenza e potrei dire il suo “significato sistematico”. Proviamo a interrogare l’esperienza nel modo più spregiudicato possibile, per quanto ci è consentito.
a) La tradizione di questo sacramento e la “res” che vuole assicurare
Un primo aspetto che non deve essere trascurato è questo: nel sacramento della penitenza sappiamo che il contatto non può essere aggirato. La implicazione del soggetto è percepita con un grado maggiore rispetto alla stessa celebrazione eucaristica. E questo è un dato rilevante. Potremmo dire che la “partecipazione”, che nella messa può essere anche largamente “passiva” – e sopporta tranquillamente la “diretta streeming” anche nella forma più impersonale – per la confessione non funziona. Devo essere personalmente coinvolto, interpellato, sollecitato, implicato. Per questo il sacramento, se deve esistere ancora in regime di quarantena, deve trovare “soluzioni” al problema delle distanze imposte, del contagio da evitare. Il luogo più appartato e più intimo della Chiesa, il confessionale, diventa impraticabile. Dunque, potremmo dire che, se per la messa, con la pandemia la logica tridentina sembra trionfare – messe private di soli preti e assemblea che torna muta spettatrice – per la confessione il simbolo stesso del sacramento viene come “profanato” dalle norme civili. Questo impone di introdurre delle varianti, che possono essere pensate a diversi livelli. Proviamo a considerare le principali.
b) L’imbarazzo e le vie di uscita: vere e false trasgressioni
Di fronte a queste difficoltà si sono manifestate tre strade con cui si è tentato di rispondere alla emergenza:
b1) la prima è quella semplicemente “tecnica” e “funzionale”: luoghi arieggiati, guanti in vinile, distanza di sicurezza, mascherina obbligatoria. Cambia qualche accidente, la sostanza resta immutata;
b2) la seconda è il ricorso alla “terza forma” del sacramento, ossia quella con confessione e assoluzione in forma generale, che ha il vantaggio di non richiedere alcun contatto, e lo svantaggio della genericità e della non individualità;
b3) la terza proposta fa ricorso al tema classico del “votum sacramenti”, per il quale, in circostanze eccezionali, si può superare la mancata confessione specifica dei singoli peccati gravi ed essere riconciliati “in voto”: dove per “voto/desiderio/proponimento” si intende non solo la desiderata riconciliazione, ma anche il proposito di confessare quanto prima i peccati gravi, non appena sarà possibile.
E’ evidente come le diverse risposte manifestino una diversa considerazione attribuita alle circostanze storiche e culturali in cui la Chiesa si muove in questo tempo. Vi è, tuttavia, un elemento che accomuna tutte queste soluzioni, ed è una considerazione che mi pare semplicistica e troppo “amministrativa” del sacramento, che deriva da una lettura in cui le sole fonti “canoniche” esercitano un peso eccessivo, fino a distrarre dal centro pulsante del sacramento. Proviamo a vedere perché.
c) Un ripensamento complessivo del sacramento rispetto al “fare penitenza”
La norma che risuona come sottofondo di tutte queste soluzioni è quella enunciata dal can 960: “Individualis et integra confessio atque absolutio unicum constituunt modum ordinarium quo fidelis peccati gravis sibi conscius cum Deo et Ecclesia reconciliatur”. A questa definizione del “modo ordinario” di amministrare il sacramento seguono le eccezioni straordinarie, dovute a impossibilità fisica, morale o a circostanze eccezionali, che permettono di superare questa unicità. Di per sé, dunque, le tre soluzioni appaiono tutte guidate – in positivo o in negativo – da questa definizione. Di per sé la soluzione b1) resta pienamente nell’alveo della definizione, solo con accorgimenti tecnici; b2) può fare a meno della confessione integra e individuale; b3) può prescindere sia dalla confessione, sia dalla assoluzione.
Ciò che tuttavia sorprende è che le risorse pastorali, in un tempo dalle caratteristiche così eccezionali, si lascino condizionare in modo così profondo da una definizione “incompleta” del sacramento. Incompleta, ad es., rispetto alla definizione del CCC 1491. Perché bisogna riconoscere che il testo canonico, con un linguaggio istituzionale che forza la realtà, riduce il sacramento della penitenza a “due atti” (confessione e assoluzione), lasciando sullo sfondo, e nella sostanziale irrilevanza, la elaborazione del dolore e della libertà (ossia contrizione e penitenza). Potremmo dire che, nel sacramento della penitenza, così come considerato dal codice, non c’è più la penitenza. E siccome questo nostro tempo sovrabbonda proprio di penitenze – addirittura imposte per legge – sorprende alquanto che si pensi ai guanti di vinile, a come dispensare dalla confessione specifica, o addirittura dalla assoluzione, ma non si lavori sui due punti chiari, evidenti e comuni a tutti: il dolore che non passa, che spaventa e che paralizza, e la risposta corporea e spirituale della libertà all’annuncio del perdono.
In effetti, ciò che la Chiesa si vede consegnato, nel sacramento della penitenza è, per usare una definizione tridentina, un “battesimo laborioso”. Ma perché mai, proprio in un tempo di così grande elaborazione del dolore e delle forme di vita come questo, noi ci occupiamo solo di sistemare formalmente (e forse anche un po’ formalisticamente) degli “atti ufficiali”?
d) Le risorse inesplorate: la condizione di vita della quarantena non è già fare penitenza?
Ecco allora una buona occasione, offertaci da questo tempo di clausura, per tornare con occhi nuovi a questo sacramento e al suo contesto più vero. Potrei dirlo qui con una serie di 10 brevi proposizioni, dotate anche di una certa provocazione, ma spero capaci di smuovere le coscienze e di aprire gli occhi sulla realtà.
d1) I sacramenti del perdono, nella vita cristiana, sono battesimo e eucaristia. In essi facciamo la grande esperienza del perdono, che Dio riserva agli uomini e alle donne. Un dono gratuito che ci impegna e che ci mette alla prova. Possiamo vivere la comunione con Dio e con il prossimo, possiamo gustarne la gioia e la forza, ma possiamo anche entrare in crisi. Per questo ci sono non uno ma due sacramenti della crisi;
d2) Il peccato grave del battezzato e la malattia grave del battezzato sono i motivi della crisi. Nella nostra contingenza attuale, è del tutto normale che, a causa della malattia grave che contagia tanti nostri fratelli e sorelle, i malati e coloro che li amano e sono ad essi legati, vivano una crisi profonda, che investe anche la fede. La unzione dei malati e la penitenza sono i rimedi con cui la Chiesa torna al battesimo e alla eucaristia, come grandi esperienze di perdono e di grazia;
d3) La malattia grave è una “crisi di fede senza colpa”. Noi non siamo abituati a pensare così. E a sentire la vicinanza della Chiesa a coloro che soffrono la malattia grave perché non disperino. La colpa grave è una crisi di fede legata invece al comportamento volontario, scelto intenzionalmente dal soggetto. Di fronte ad esso la Chiesa non soltanto “annuncia il perdono” (assoluzione) di fronte al peccato confessato (confessione), ma accompagna la elaborazione del dolore (contrizione) e la strutturazione della risposta della libertà (penitenza);
d4) Ciò che nel sacramento della penitenza è qualificante e specifico non è l’annuncio del perdono, che questo sacramento ha in comune con battesimo e eucaristia. E’ invece l’accompagnamento nella elaborazione del dolore e nella ristrutturazione del corpo, della mente e dello spirito. Potremmo dire al “dono del perdono”, ripetuto e mutuato dal battesimo, corrisponde la elaborazione del lutto, della memoria e della libertà, che è specifico del IV sacramento.
d5) Per questo gli antichi, molto più di noi, sapevano che “penitenza” è prima una virtù che un sacramento. E il sacramento è al servizio della promozione e della articolazione della virtù. Essere consapevoli del perdono ricevuto nel battesimo e continuamente rinnovato nella eucaristia permette di superare anche i peccati più gravi se, a partire dal rinnovarsi della parola del perdono di fronte alla parola che confessa il peccato, imparo nel tempo a elaborare il dolore e a ristrutturare la mia libertà;
d6) Ecco allora che, all’improvviso, possiamo capire una cosa che ci era nascosta. Questo nostro tempo, già di per sé, ha una sua duplice struttura penitenziale, che è pronta e disponibile per tutti: il tempo quaresimale, per la tradizione ecclesiale, e il tempo di quarantena, per la tradizione civile, sono forme comuni, potremmo dire pubbliche e comunitaria, di elaborazione del dolore e di ristrutturazione dei comportamenti;
d7) Nella penitenza antica accadeva così: dopo aver confessato il peccato si diventava penitenti e si entrava in un “regime particolare”, che investiva il lavoro, il tempo, la preghiera, i luoghi di vita…Abbiamo oggi una sorta di “regime penitenziale” che accomuna una intera nazione. Come mai la Chiesa non se ne accorge? Perché usa il vecchio armamentario, che si lascia suggerire da un diritto canonico algido, inadeguato e spento, e non lavora sulla materia viva delle esperienze esposte al non-senso o ad un surplus di senso, che le parole alte della tradizione biblica e spirituale sanno interpretare con tanta forza? Perché usiamo invece “nozioni giuridiche”?
d8) L’immaginario pubblico ha provato a elaborare la condizione attuale. Le parole che emergono su tutte sono clausura, quarantena e arresti domiciliari. Sono tre vissuti di “pena” o di “penitenza”. Ma la logica pubblica le interpreta solo come “male minore” in vista della salute. E non è poco. La grande tradizione umana e cristiana sa che ogni cambiamento costa sofferenza, fatica, privazione, dolore. Una riconsiderazione della esistenza bella alla luce della quarantena è una occasione penitenziale che non possiamo leggere solo con un concetto di penitenza ridotta al sacramento, e di sacramento ridotto alla normativa canonica su di esso; questa sarebbe povertà culturale, che non nutre nessuno. Abbiamo molto più del sacramento già pronto, nella vita quotidiana: sembra un paradosso, ma è la nostra realtà di oggi, nella sua eccezionalità.
d9) Desiderio del sacramento? Sarebbe questo il desiderio necessario? Proprio in un tempo in cui il desiderio è messo così profondamente alla prova e possiamo sperimentare il “desiderio di buona salute” e “desiderio di una passeggiata” come una cosa irrealizzabile, il desiderio di pienezza e di pace, di fiducia e di contatto prende forma e ha bisogno di rapporti significativi. Un sacramento ridotto al meccanismo ad orologeria “confessione/assoluzione” diventa disumano se non è calato in un rapporto vitale. Se poi ci aggiungi guanti e mascherina, rischi di trattare l’anima con asettica competenza, ma in modo estrinseco e freddo. Il desiderio non può essere del sacramento, ma è desiderio di pienezza (eucaristica) e di cambiamento (penitenza). Che solo eventualmente passa per il sacramento, ma sempre passa per ciò che sta al di qua e al di là del sacramento, anche quando lo abbiamo restituito alla sua pienezza e non lo riduciamo arbitrariamente alla immediatezza disumana di confessio/absolutio.
d10) Lavorare sul “fare penitenza” oggi è una occasione, che ha due interlocutori diversi. Chi lavora, lavora molto di più e in condizioni peggiori. Chi non lavora ha tempi più distesi e problemi nuovi e non meno complicati. La efficienza è compromessa, o per eccesso o per difetto. Le parole della tradizione biblica, quaresimale, penitenziale, ascetica, monastica, orante, prendono oggi un nuovo tono e diventano nutrimento irrinunciabile. Accompagnare questa rilettura, al di qua e al di là degli atti formali di confessione/assoluzione, mi parrebbe la occasione da non perdere. Far diventare il “precetto pasquale” un “dono di elaborazione del lutto, della memoria e della libertà”: questo è il kairòs. O giochiamo su questo tavolo, con il meglio delle nostre parole, oppure, con la più nobile delle nostre intenzioni, spingeremo la tradizione a diventare un grande museo.