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lunedì 2 dicembre 2019

Laura Invernizzi "La morte nella Bibbia"

L'Osservatore Romano del 30 novembre 2019
Laura Invernizzi: La morte nella Bibbia

Che cos’è la morte per la Bibbia? La domanda è semplice, la risposta improba, perché quello della morte è un concetto ambiguo e nella Bibbia, che raccoglie una riflessione sviluppatasi in un arco di circa mille anni, non esiste un unico modo di pensare alla morte: vi si trovano insieme molteplici prospettive, non organizzate, nel libro che abbiamo in mano, né secondo lo sviluppo storico del pensiero e della riflessione (che può essere ricostruito attraverso la datazione dei testi), né in modo sistematico.
La riflessione speculativa sulla morte non è di interesse biblico, anche perché più che la morte in sé, o ciò che la segue, alla Bibbia interessa la vita, e la morte, facendo parte naturalmente del ciclo della vita umana, è incontrata solo come limite della vita stessa.

Nella Bibbia ebraica, in cui il numero delle ricorrenze del sostantivo «morte» (152) è circa un terzo di quello delle ricorrenze del verbo «morire» (843), inoltre, più che della morte in astratto, della sua provenienza e del motivo per cui costituisce il termine ineludibile della vita, si parla del morire dell’uomo, delle diverse circostanze e dei modi in cui l’uomo affronta la morte, propria o altrui. La situazione cambia nei testi scritti in greco, con un aumento in proporzione dell’uso del sostantivo, forse perché è maggiore il grado di astrazione che tale lingua permette. Tali testi, inoltre, essendo più recenti, riflettono uno stadio più avanzato della riflessione e tra di essi vi sono gli scritti del Nuovo Testamento, nei quali la morte di Gesù e il suo morire hanno importanza fondamentale per dar senso non solo alla morte, ma alla vita stessa.

Percorrendo le pagine bibliche si può tratteggiare una piccola fenomenologia dell’uomo davanti alla morte, che non pretende di essere esaustiva, ma permette di evocare vari modi in cui la morte è vista e valutata e di far emergere l’ambiguità che soggiace a ogni ragionamento, che tocchi tale realtà.

La morte — che raggiunge in età avanzata dopo una vita piena e benedetta dalla presenza di figli e nipoti il vecchio «sazio di giorni» o in «felice canizie», come Abramo (Genesi, 25, 8), Ismaele (ibidem, 25, 17), Isacco (ibidem, 35, 29), Giacobbe (ibidem, 49, 33), il giudice Gedeone (Giudici, 8, 32), il re Davide (1 Cronache, 29, 28), il sacerdote Ioiada (2 Cronache, 24, 15), Giobbe (Giobbe, 42, 17) — è una morte serena, che viene vista come un «addormentarsi con i propri padri» e «riunirsi ai propri antenati». Tali espressioni, a meno che non alludano semplicemente al comune destino, lasciano aperta una possibilità di sopravvivenza legata alle relazioni essenziali di cui la vita è intessuta. Tale concezione mitiga l’idea, anch’essa presente nella Bibbia, che la morte sia semplicemente un ritornare alla terra dalla quale si è stati tratti (Genesi, 3, 19; Giobbe, 34, 15; Salmi, 90, 3; 104, 29; Qoèlet, 3, 20; 12, 7) o finire nello sheol, ovvero nell’oltretomba o negli inferi. Questo “luogo”, definito come «la casa di ritrovo per tutti i viventi» (Giobbe, 30, 23), buoni e malvagi insieme, è una regione sotterranea e non è inteso, in prospettiva escatologica, come luogo di bilanci o di retribuzione per quanto si è fatto in vita, ma come luogo di ombre, in cui svanisce ogni traccia di chi vi discende (Salmi, 49, 15) e non è lasciato spazio ad alcuna possibilità di vita e speranza, perché la vita è depauperata proprio di ciò che la rende tale, cioè delle relazioni.

Lo sheol è la perdita di ogni contatto con la terra dei viventi; la reazione di Davide alla morte del figlio avuto da Betsabea indica che la discesa nello sheol è un movimento inteso come irreversibile: «Potrei forse farlo ritornare? Andrò io da lui, ma lui non tornerà da me» (2 Samuele, 12, 23). Dallo sheol non si torna (Giobbe, 7, 9); in esso ogni relazione è interrotta; non solo la relazione con gli altri, ma anche e soprattutto quella con Dio (Isaia, 30, 10-12). Diversamente dalla visione degli inferi dei popoli mesopotamici e dei greci nessun dio abita nello sheol, Dio non conserva il ricordo di coloro che vi scendono (Salmi, 88, 6) e a sua volta lì non è ricordato (ibidem, 6, 6), né lodato (ibidem, 30, 10; 88, 11; 115, 17; Isaia, 38, 18), né fa giungere i suoi prodigi e la sua benevolenza (Salmi, 88, 11). Per questo nei salmi è pressante l’invocazione a essere salvati dalla morte e non lasciati in preda allo sheol (116, 3-4): c’è voluto tempo perché Israele avesse l’audacia di credere che Dio può agire anche nella morte.

La rottura di ogni relazione e legame rende amara e funesta la morte propria e altrui, e non solo quando la morte spezza prematuramente la vita di un giovane, ma anche quando l’uomo riflette sulle condizioni del vivere, sebbene talora il profilarsi all’orizzonte di una minaccia letale (1 Re, 19, 3-4), il senso pressante di una dolorosa angoscia (Giobbe, 3, 3; 7, 13-16) o persino l’indignazione che accompagna l’impressione di aver subito da Dio un’ingiustizia (Giona, 4, 8) possano rendere la morte preferibile e auspicabile rispetto alla vita. La rottura relazionale, con gli altri e con Dio, e l’angoscia che accompagna il morire mettono in evidenza un misterioso legame esistente tra morte e peccato, diffuso nella tradizione di Israele ed ereditato anche dal Nuovo Testamento. Il racconto della tentazione nel giardino dell’Eden (Genesi, 3) lo evidenzia inserendo tra le conseguenze del peccato il cambiamento del modo di intendere la morte (ibidem, 3, 19). L’uomo è creato dall’inizio caduco: plasmato dalla terra come gli animali (ibidem, 2, 19), solo per lui viene specificato che si tratta di «polvere» (ibidem, 2, 7), un termine che spesso è associato alla morte (Giobbe, 7, 21; Daniele, 12, 2; Salmi, 22, 19). Si tratta qui del termine naturale della vita, che accomuna tutti i viventi, ma forse la menzione della «polvere» suggerisce che l’uomo è l’unico ad aver coscienza di dover morire. Con la tentazione del serpente, le cose, però, cambiano. Se nelle pagine precedenti, il racconto ha mostrato che sui limiti posti da Dio si regge l’universo ed è basata la possibilità della vita (Genesi, 1,1–2,4), dando ascolto a una parola “altra”, quella del serpente che proietta su Dio intenzioni malevole e ne fa un rivale che impedisce la vita attraverso l’imposizione di limiti arbitrari, l’uomo inizia ad aver paura di Dio e non vive più morte fisica e ritorno alla polvere come evento naturale, ma come limite tragico e negativo.

L’ambiguità della morte verrà esplicitata dalla riflessione del libro della Sapienza, che troverà sviluppo anche nel Nuovo Testamento. Composto in greco nel I secolo avanti Cristo, tale libro distingue la morte fisica, il dato biologico del morire, dalla vera morte, la morte eterna, punizione e «salario del peccato» (Romani, 6, 23), rottura della relazione con Dio. Questa è la morte che «Dio non ha creato» (Sapienza, 1, 3) ed è entrata nel mondo «per invidia del diavolo» (ibidem, 2, 24). Di fronte alla morte, così, giusti ed empi si dividono, perché per il giusto la morte, pur conservando la sua ambiguità, diventa un passaggio nella vita.

Gesù di fronte alla morte ha vissuto fino in fondo la propria umanità, senza sottrarsi all’ambiguità della morte. Anche per lui, sebbene egli abbia potere di riportare in vita i defunti, la morte è un evento tragico, che gli procura un evidente turbamento quando si accosta alla morte, tanto quella altrui — per esempio quella della figlia di Giairo (Matteo, 9, 18-26; Marco, 5, 21-43; Luca, 8, 40-56), del figlio della vedova di Nain (Luca, 7, 11-17) o dell’amico Lazzaro (Giovanni, 11) — quanto alla propria, di fronte alla quale sperimenta paura e angoscia, tristezza. I verbi utilizzati dall’evangelista Marco per descrivere la preghiera di Gesù nel Getsèmani (Marco, 14, 33-34) sottolineano straordinariamente l’intensità dell’emozione provata da Gesù. Si tratta di uno sbalordimento che rende attoniti, impietriti e sconcertati, che si unisce a un senso di isolamento, lontananza (da Dio e dai discepoli) e abbandono.

Anche per Gesù la morte, pur pienamente e consapevolmente assunta, è esperienza della rottura delle relazioni e dell’abbandono di Dio, fino alla croce. Le tre ore di buio, che nel racconto marciano, precedono la morte in croce (Marco, 15, 33) hanno un significato peculiare per la comprensione dell’esperienza di Gesù, perché in questo vangelo la tenebra è uno dei segni della presenza di Dio, il terzo dopo i cieli squarciati al battesimo (ibidem, 1, 10) e la nube della trasfigurazione (ibidem, 9, 7). Ma se al battesimo e alla trasfigurazione il Padre aveva fatto udire la sua voce, sul Gòlgota tace. Se la tenebra indica presenza, il silenzio è espressione di una lontananza, che fa soffrire Gesù. Il suo grido «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (ibidem, 15, 34) dà voce alla sua solitudine, all’abissale dolore che la distanza gli provoca, pur se consapevole della presenza del Padre. E nell’affidamento al Padre (Luca, 23, 46) l’evangelista Luca coglie l’esplicita posizione di Gesù rispetto al suo umano morire: egli fa della propria morte l’occasione di una consegna della propria vita, nelle mani di un Dio che, nonostante non ne senta la voce, continua a ritenere affidabile, sulla soglia della morte, e anche nella morte.

La morte di Gesù e il suo morire, così, danno alla morte stessa un senso nuovo, capace di trasformare addirittura la morte dell’uomo: dalla morte di Gesù in avanti — e il malfattore che accanto a lui condivide e accetta la stessa pena lo sperimenta (Luca, 23, 43) — l’uomo può morire con lui e come lui.