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martedì 30 luglio 2019

SettimanaNews: La pastorale dello sguardo

di: Michele Giulio Masciarelli



Non si contano più le volte nelle quali papa Francesco parla dello “sguardo” in contesto spirituale e pastorale: lo ha fatto, specie i primi anni del pontificato, nelle udienze del mercoledì e negli Angelus. È un tema che egli svolge in tanti modi. Forse la modulazione più articolata la troviamo nella lontana meditazione mattutina tenuta nella Cappella della Domus Sanctae Marthae il 21 settembre del 2013.

Lì papa Francesco ha sottolineato il potere degli sguardi di Gesù, capaci di cambiare per sempre la vita di coloro sui quali si posano. Commentando l’incontro di Gesù con Matteo, afferma: «Appena sentito nel suo cuore quello sguardo, egli si alzò e lo seguì». E fa notare che «lo sguardo di Gesù ci alza sempre; ci porta su», ci solleva; mai ci «lascia lì» dov’eravamo prima d’incontrarlo, né toglie qualcosa a colui sul quale si posa il suo sguardo: «Mai ti abbassa, mai ti umilia, ti invita ad alzarti». E conclude raccomandando di «… lasciarci guardare da lui».

Altra volta papa Francesco parla dello sguardo che occorre fissare su Gesù. Dunque, egli compone un andirivieni: dal passivo lasciarsi guardare da Gesù occorre passare all’attivo guardare Gesù.

Così, nella meditazione mattutina in Santa Marta del 3 febbraio 2015 raccomanda di leggere ogni giorno una pagina del Vangelo per «dieci, quindici minuti e non di più», tenendo «fisso lo sguardo su Gesù» per «immaginarmi nella scena e parlare con lui, come mi viene dal cuore» e conclude dicendo: queste sono le caratteristiche della «preghiera di contemplazione», vera sorgente di speranza per la nostra vita.

Evidentemente, non ogni sguardo è così significativo; lo è indubbiamente quello non superficiale, ma tale da mirare alla persona: «quando aiutate gli altri, li guardate negli occhi?», si chiede. Questo è uno sguardo che impegna il volto; in cuore e il volto, infatti, sono posti, nell’uomo, in un forte collegamento spirituale fra di loro. Il cuore è nascosto e il volto è visibile ed esposto, ed è proprio per queste due qualità opposte che il loro legame risulta necessario e intrigante. Intanto, soprattutto l’occhio e il cuore si richiamano a vicenda: sono reciproci e interdipendenti.

L’importanza dello sguardo cordiale
Nella Scrittura troviamo un singolare legame tra cuore e volto (occhio): è il filo chiarissimo della semplicità e quello della bellezza. Il cuore dà lucentezza e trasparenza allo sguardo: lo rende sottile, acuto, penetrante, bello; probabilmente, acuisce la vista, rischiara l’orizzonte, illumina e fa vedere bello ciò e chi è guardato.

Rovesciando i termini di queste considerazioni, appare ancora più decisiva la forza purificatrice, rischiaratrice, abbellitrice del cuore nel guardare dell’uomo: è il cuore che si fa volto e occhio; è il cuore che trasferisce la sua bellezza sul volto e sull’occhio: si ricordi che il volto per i neoebraici e per il nostro don Italo Mancini è l’uomo intero.

Il vero dialogo nasce dall’essere guardati e dal riguardare evidentemente con l’implicazione del cuore: «Quando gli occhi e la mente sono guidati e animati dal cuore, allora lo sguardo si fa luminoso e penetrante come una lama di coltello e focalizza l’obiettivo in modo perfetto con contorni nitidi e colori genuini, senza pericolo di alterazione alcuna».

È rimasta celebre la raccomandazione che la volpe fa al piccolo principe per ricompensarlo dell’amicizia: «“Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. “L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe per ricordarselo. […] “Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare”».

Il volto come lo specchio del cuore; anzi il cuore fa il volto, poiché lo forma: «Il cuore dell’uomo modella il suo volto, in bene e in male» (Sir 13,25). Sul volto si mostra la bellezza dell’anima e anche il suo contrario. La bellezza nasce dal cuore dell’uomo: un’interpretazione affatto dubitativa è che la bellezza nasce dall’intimo desiderio dell’uomo, ossia dal cuore come simbolo dell’interiorità dal quale ogni desiderio nasce e si esprime, perciò anche quello della bellezza. Questo significa che la bellezza nasce e rinasce, si rinnova continuamente.

Una proposta: uno sguardo nuovo sull’uomo contemporaneo
L’uomo contemporaneo è quello che è, come il mondo, in cui egli vive il suo “mistero”, è anch’esso quello che è. Serve uno sguardo prospettico. Dopo tutto quello che s’è detto sulle caratteristiche dell’uomo contemporaneo, sulle sue carenze, sui suoi abbandoni, sui suoi smarrimenti, forse è il caso di fare una considerazione sul come vedere e interpretare il difficile corredo del nostro tempo. Per esprimere tale urgenza, si potrebbe usare il titolo di un libro d’un famoso critico d’arte, John Berger, che recita proprio così: È questione di sguardi (Il Saggiatore, Milano 2009): si aggiunge solo “anche” per dire subito che, nei discorsi che sono stati affrontati sul tempo e sull’uomo d’oggi non c’entra solo lo sguardo.

Tuttavia, per guardare l’uomo contemporaneo che abita un tempo singolare e complesso, occorre adottare uno sguardo prospettico, ossia l’arte di disporre lo sguardo in modo nuovo, aggiungendo alle due dimensioni piatte (l’orizzontale e la verticale) una terza, quella della “profondità”. Quest’aggiunta ha costituito la rivoluzione che è avvenuta nella pittura da oltre cinque secoli. «L’avvento della prospettiva – scrive – è penetrare la terra, contemplarla come l’essere umano la vede, decide di abitarla meritevolmente, ma in armonia, poeticamente, con lo sguardo degli altri mortali».

L’applicazione della prospettiva allo sguardo è uno dei perspicaci pensieri con cui Barbara Spinelli introduce il piccolo libro di un monaco italiano che si pone il problema di adottare uno «sguardo cristiano» per guardare l’uomo contemporaneo e che, fra l’altro afferma: «Non si tratta di studiarlo, l’uomo di oggi, come da incuriosita sapienza antropologica. Si tratta di chiedersi: che sguardo posso, debbo avere, su quelle che chiamiamo malattie del secolo…».

Lo sguardo prospettico non è uno sguardo truccato con cui, mediante posizioni artefatte, si vede l’uomo contemporaneo solo dai lati belli, sorpassando difetti e deformità. Lo sguardo prospettico non evita né il discernimento severo né l’eventuale necessaria riprovazione: è uno sguardo veritiero e affidabile.

Guardare l’uomo del nostro tempo con occhi cristiano-mariani 
Con l’affermazione già fatta, che è anche questione di sguardi, sono sottintese due negazioni: che non basta descrivere chi sia e come sia malridotto l’uomo contemporaneo e che la prima cosa da fare non è giudicare e condannare l’uomo contemporaneo, ma, prima, inoltrarci a dire sullo “sguardo cristiano” da volgere su di lui; fra l’altro, va avvertito che noi rischiamo di estraniarci da lui se dimentichiamo che quell’uomo è ciascuno di noi e che il post-moderno, in cui egli vive, è il nostro tempo e che perciò de re nostra agitur.

1) Non aver paura («Non sgomentatevi…»). È in riferimento al proprio tempo che non bisogna aver paura, ma essere oggettivi, critici, prudenti, pacati, benevoli, miti. La paura non vinta non fa indovinare la giusta distanza, la giusta visione, le giuste parole, il giusto giudizio e, perciò, crea aggressività: il proprio tempo non va aggredito mai… Giustificate il vostro sperare dice san Pietro nella sua Prima Lettera («… pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza…»: 3,15-16): si tratta di ricercare incessantemente i motivi per credere e sperare e mostrarli testimonialmente, ricordando che l’evangelo è sempre più grande dei discepoli che lo accolgono e lo diffondono.

2) Praticare la mitezza («con dolcezza e rispetto…»): si richiede pertanto l’attenzione all’altro, il rispetto, la benevolenza. «Il cuore del cristianesimo è scoprire la misericordia di Dio, viverla e riviverla. Ecco un altro esempio dell’atteggiamento cristiano dinanzi all’uomo contemporaneo: comunicare speranza, incoraggiare a vivere».

venerdì 26 luglio 2019

SettimanaNews: il grande vuoto


Vorrei dedicare questa riflessione non alle vicende politiche di questi ultimi mesi – o forse sarebbe più appropriato dire: di questi ultimi anni –, ma a noi, agli italiani, e a ciò che nel corso di queste vicende è accaduto alla nostra anima. Sì, all’anima delle persone.

Perché anche tanti che pure non credono in un principio immortale dentro l’uomo, anche tanti che sono alieni da prospettive religiose o magari soltanto “spirituali”, in questa ormai lunga stagione della nostra vita pubblica che va sotto il nome di «Seconda Repubblica» hanno percepito, più o meno oscuramente, che qualcosa stava venendo meno, a un livello molto profondo, in quella sfera segreta in cui si decide l’atteggiamento delle persone verso la vita e verso gli altri, e che qui chiamo “anima”.

La «bancarotta spirituale»
Che questo disagio non sia l’illusione ottica di un cattolico nostalgico del passato mi sembra lo confermi la pagina letteraria di «Repubblica» del 10 maggio 2018, dove si pubblicava un testo del monaco trappista Thomas Merton.

Il titolo dato dal curatore era: «La vera bancarotta è quella spirituale». E nell’“occhiello” si leggeva: «Perdere l’anima». Eloquente la presentazione del pezzo: «Era lo scorso secolo. Ma sembra oggi».

Scriveva Merton: «Generazioni su generazioni di uomini hanno a tal punto perduto il senso di una vita interiore, si sono talmente isolati dalle loro profondità spirituali (…), che ora noi siamo quasi incapaci di godere di una qualsivoglia pace, quiete, stabilità interiore. Gli uomini sono arrivati a vivere esclusivamente sulla superficie del loro essere (…). Siamo lasciati in balìa di stimoli esterni e la stimolazione è arrivata addirittura a prendere il posto che, una volta, era occupato dal pensiero, dalla riflessione e dalla conoscenza».

Il fenomeno, in sé, è antico quanto l’uomo. Ma ci sono epoche in cui il contesto culturale e sociale favorisce questo smarrimento profondo.

I primi ad essere colpiti sono i più giovani. Penso al triste fenomeno dei Neet – i ragazzi che non studiano, né lavorano, né cercano lavoro –, che in Italia sono il 29,1% dei giovani tra i 18 e i 24 anni (quasi uno su tre!); penso ai suicidi, che tra gli under 25, sono nel nostro Paese la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali; penso ai comportamenti balordi e anch’essi in sostanza autodistruttivi, sotto l’influsso dell’alcol o delle droghe…

Televisione e crisi della politica nella “Seconda Repubblica”
Questo “vuoto dell’anima” si è da un lato alimentato, dall’altra manifestato grazie al progressivo deterioramento dei programmi televisivi, all’irrompere del vocìo dei social, al decadere degli stili della politica.

Nell’ultima fase del secolo scorso è stato il passaggio dalla Tv “pedagogica” dei grandi sceneggiati televisivi – come «Jane Eyre» o i «Promessi Sposi» – a quella commerciale del «Grande Fratello» a segnare un irreversibile imbarbarimento.

Nel frattempo la politica diventava spettacolo, con i volti dei leader e gli slogan pubblicitari al posto degli ideali e dei programmi, con l’inizio del dominio della post-verità, in grado di capovolgere la realtà sostituendola con dei miraggi, con l’offuscamento delle tradizionali regole della dignità e del pudore.

Una crisi vissuta dalla “destra” all’insegna del potere del denaro e del mito del successo, efficacemente rappresentato dal personaggio di Berlusconi; dalla “sinistra” sostituendo alla ormai obsoleta concezione marxista quella liberal-borghese dell’individualismo possessivo (ognuno è proprietario del proprio corpo e della propria vita e non deve risponderne a nessuno) e dei diritti senza doveri.

Il popolo senz’anima
In questo deserto valoriale, dove la cosiddetta “fine delle ideologie” mascherava in realtà il trionfo dell’unica sopravvissuta, condivisa alla fine dagli opposti “poli”, nessuno si è più occupato dei più deboli, dei poveri, delle generazioni future.

Lo sviluppo c’è stato, ma la forbice tra ricchi e poveri si è allargata sempre di più. Quando Renzi fece la riforma fiscale dovette ammettere che essa non riguardava quei cinque milioni di italiani, detti “incapienti”, che non potevano neppure pagare le tasse, perché non avevano il reddito minimo per farlo, mente i membri (numerosi) della “casta” fruivano di pensioni stratosferiche a spese dei contribuenti.

L’avvento del cosiddetto “populismo” è stata la logica reazione a questa situazione. Sostenuto dall’avvento dei social e dal nuovo potere che essi davano a chiunque di esprimersi e di pesare, esso ha sovvertito il quadro politico e portato alla ribalta nuovi protagonisti.

Purtroppo, il soggetto di questa rivoluzione, in sé legittima, era un popolo da tempo svuotato dei vecchi valori e incapace di trovarne altri alternativi, che si è trovato protagonista della politica (emblematico il peso che hanno i sondaggi) senza avere mai avuto una educazione alla cittadinanza e al bene comune (l’“educazione civica” nelle nostre scuole è rimasta sempre un fantasma) né dalla famiglia (peraltro da tempo in crisi), né dalla scuola (sempre più ispirata alla logica della “trasmissione dei saperi” piuttosto che a quella dell’educazione), né dalla parrocchia (ormai ridotta spesso a una stazione di servizio per la distribuzione di sacramenti).

Il “vuoto dell’anima” sui social
Il “vuoto dell’anima” in realtà era ancora più profondo. La politica ne è stato solo un drammatico specchio. Il declino della morale diffusa e della religiosità popolare del passato ha potuto dare un senso di maggiore libertà.

Salvo però a scoprire che, insieme a tante altre cose, è venuta meno anche quella base valoriale condivisa che garantiva, al livello pubblico, il retroterra “privato” di una spiritualità e di un’etica ispirate al vangelo e dunque umane.

Lo spettacolo spaventoso (cito solo un esempio tra i mille) di un’ondata di commenti inneggianti al suicidio di un immigrato che temeva il ripatrio – «Uno di meno!»; «Morite tutti!» e cose del genere – è un fatto culturale che dovrebbe atterrire (e in effetti a volte atterrisce) anche chi è favorevole alla politica dei “porti chiusi”, perché rivela una “perdita” dell’anima ben più profonda del piano delle scelte che riguardano la politica.

Programmi politici inadeguati
Anche se poi la politica della “destra” l’intercetta e la usa, come fa Salvini, per suffragare queste scelte, che vengono incontro a una sensibilità ormai diffusa, permettendosi anche di presentarle come scelte “evangeliche”, solo perché avallate da simboli religiosi e a preghiere ai santi (a tal punto è arrivata la perdita del senso del vangelo tra i “cattolici”!).

Come del resto, sul fronte opposto, si crede di poter rivitalizzare l’asmatico respiro della “sinistra” promettendo, come ha fatto recentemente Zingaretti, una lotta decisa per far passare la legge sull’eutanasia.

Non – attenzione – un progetto per conciliare l’accoglienza con l’integrazione (ciò su cui i governi di “sinistra” hanno miseramente fallito nel passato); non una serie di iniziative coraggiose per venire realmente incontro agli italiani poveri (quelli che Salvini cita sempre per spiegare perché respinge i migranti, ma a cui offre come soccorso il condono agli evasori fiscali e, in prospettiva, la riduzione delle tasse ai ricchi).

Garantire il diritto dell’individuo di morire senza risponderne a nessuno: questo l’ambizioso obiettivo, in una società dove moltissimi vorrebbero invece assicurato il diritto di vivere, sulla base di una visione in cui la libertà sia praticata come reciproca responsabilità.

Il compito delle comunità educanti
Al posto dell’individualismo possessivo deve rinascere una cultura della solidarietà, dove l’“essere” della persona sia più importante dell’“avere” e dove i doveri vengano prima dei diritti. Ma questo non sarà possibile se le persone non saranno messe in grado di uscire dalla superficialità del flusso mediatico e di ritrovare se stesse.

Scriveva Thomas Merton: «La bancarotta spirituale dell’uomo non gli ha lasciato nessuna possibilità di rifugiarsi in se stesso, nessuna cittadella interiore in cui potersi ritirare per raccogliere le forze (…). L’ultimo posto al mondo in cui l’uomo moderno cerchi rifugio e consolazione sono le profondità della propria anima (…). Il pensiero di prendere residenza in noi stessi ci alletta quanto quello di vivere in una casa infestata fantasmi».

Le tradizionali comunità educanti – la famiglia, la scuola, la Chiesa – devono uscire dallo stato di paralisi in cui le hanno messe i nuovi stili comunicativi e mettere in azione la loro fantasia, per ripartire da qui. Dalla ricerca e dalla riscoperta dell’anima. Se la ritroveranno le persone, anche la politica – al di là della diversità delle posizioni – tornerà ad averne una.

È un progetto a lunga scadenza, certo, come tutti quelli che riguardano le profondità dell’essere umano. Ma le soluzioni a breve termine sono ingannevoli. Si crede di uscire dal buio ma, se non cambiano le persone, da Berlusconi si passa a Renzi e da Renzi a Salvini… L’esperienza dice che al peggio non c’è fine. Solo se riusciremo a riaprire le porte del pensiero e della riflessione potremo sperare di sconfiggere i mostri che si aggirano nel grande vuoto, perché questo vuoto non è chi sa dove, è dentro di noi.

Giuseppe Savagnone

giovedì 25 luglio 2019

SettimanaNews: Il futuro del cristianesimo in Europa


Christoph Theobald 
23 luglio 2019

La Provincia dell’Italia Settentrionale dei dehoniani si confronterà, nel corso dell’annuale settimana di formazione permanente, con la questione della «Vocazione e destino dell’Europa» – sarà l’occasione per tornare sul tema della profetica e faticosa costruzione di un progetto di Unione Europea e sul ruolo e le responsabilità che in questo percorso competono alle Chiese e alla vita consacrata (Albino, 26-29 agosto). In vista di questo appuntamento, ci sembra opportuno condividere con i lettori e gli amici di SettimanaNews un percorso di preparazione e di riflessione comune attraverso alcuni contributi ad hoc nell’orizzonte complessivo dei lavori che ci aspettano a fine agosto.

Iniziamo questa breve serie estiva con un articolo di Christoph Theobald s.j. in cui vengono delineate le coordinate maggiori per un eventuale futuro del cristianesimo e della Chiesa cattolica nell’Europa odierna.

Si può pensare a un futuro del cristianesimo in Europa solo se si ha ben chiara la crisi della Chiesa. Gettare lo sguardo al futuro significa sicuramente ben più di una semplice gestione della crisi, ma presuppone  che apprendiamo qualcosa dalla crisi attuale. Analisi storico-sociologiche in merito alla nostra situazione circolano da tempo. Personalmente, sono più familiare con le indagini sul tema in lingua francese e con gli studi europei sui valori.

La novità, però, risiede nel fatto che oggi anche coloro che hanno responsabilità nella Chiesa ammettono che stiamo attraversando una crisi sistemica e che molti credenti, duramente scossi nella loro fiducia a motivo della pedo-criminalità tra le gerarchie ecclesiali, oramai ne parlano apertamente.

Tuttavia, non è facile analizzare questa crisi che esiste già da lungo tempo. Essa si propone a diversi livelli e vi è il pericolo che gli aspetti oggi più visibili (lo scandalo degli abusi, il loro occultamento, il clericalismo e la sacralizzazione del ministero) finiscano col nascondere tutti gli altri.

Al di sotto di questa superficie si annuncia una condizione di minoranza delle comunità cristiane che non viene percepita e accolta come un’opportunità dai credenti e dal clero, e quindi non viene elaborata in maniera positiva. E se ci si chiede quali siano le ragioni di tutto ciò, ci si imbatte inevitabilmente nella difficoltà che la tradizione cristiana ha nel raggiungere la vita quotidiana degli uomini e delle donne. Una difficoltà, questa, che spinge i sociologi a parlare di «ex-culturazione» del cristianesimo in Europa.

In questo contributo procedo muovendomi secondo tre temi. Inizio con la condizione di minoranza dei cristiani nell’Europa occidentale, passo poi ad analizzare il rapporto fra Vangelo e vita quotidiana, e infine vorrei dire qualcosa sulla crisi sistemica della Chiesa.

Chiesa in diaspora
Mi sembra che Karl Rahner, in maniera profetica, abbia già detto tutto l’essenziale sulla nostra condizione odierna di minoranza in un testo del 1954: «Il cristianesimo (anche se in misura diversa) è ovunque nel mondo e sulla terra in diaspora. Nella sua realtà è dappertutto, numericamente, una minoranza; non ha di fatto un ruolo guida che gli permetta di imporre con potenza il suo sigillo degli ideali cristiani sul tempo.

La Chiesa della diaspora, sociologicamente, ha il carattere di una “setta” (rispetto alla Chiesa popolare di massa a cui appartiene già sempre ogni cosa, e che si presenta sociologicamente di fronte alla singola persona non come qualcosa fatto e portato da lei, ma come ciò che è presente in maniera del tutto indipendente da essa). Con i vantaggi di questo dato di fatto e con il dovere di dover superare sempre di nuovo i pericoli legati a esso» (SW 10, 260-265).

Il concetto di diaspora è sociologico e contrassegna gruppi religiosi, nazionali, culturali o etnici di persone che si trovano all’estero/esterno, dopo che essi hanno abbandonato la loro patria tradizionale e, nel frattempo, si ritrovano disseminati in varie parti del mondo. Per molti secoli, questo termine è stato riferito unicamente all’esilio del popolo ebreo; ma, a partire dal XIX secolo, esso è stato ampliato anche in senso sociologico.

Se si utilizza il concetto di diaspora in riferimento alle Chiese cristiane, allora bisogna relativizzare l’idea di un paese di origine e di una «terra santa». Il sepolcro è vuoto e da allora, per il cristianesimo (a differenza dell’ebraismo), non c’è più alcuna regione del mondo che abbia un carattere sacro. La Galilea diventa «Galilea delle genti», «Galilea di tutte le nazioni in cui si realizza la Signoria di Dio».

Secondo Karl Rahner, la nostra condizione di diaspora ha il carattere di una «necessità» teologica – nel senso evangelico del «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,26). Con il sorgere di una situazione planetaria e di globalizzazione del cristianesimo, il principio della vita cristiana «nel mondo, ma non del mondo» si deve concretizzare in altro modo. Nel corso del Medioevo e nel secondo millennio della storia umana, questo principio si incarnò tra la cristianità, da un lato, e il resto del mondo, dall’altro.

Il pericolo della condizione di minoranza
Oggi, ma a dire il vero già dagli inizi della modernità, questo principio cristiano «nel mondo, ma non del mondo» si concretizza all’interno di ogni paese – con tutte le resistenze prodotte da questa forma di vita escatologica.

Per dirla con le parole di Rahner: «Nel momento in cui inizia a diventare Chiesa di tutti i pagani, la Chiesa incomincia anche a essere ovunque tra i pagani». Rahner rimanda così alla questione decisiva di questa condizione di minoranza che rientra nella prospettiva storico-salvifica: ossia, il rischio della setta. Un cattolicesimo di minoranza può diventare una setta (tra molte altre); ma può diventare anche una significativa comunità missionaria.

A questo punto decisivo possiamo già gettare uno sguardo sul futuro del cristianesimo in Europa. Dipende dalle nostre comunità e dalle forme cristiane di socializzazione se, nel prossimo futuro, saremo condannati a vivere un’esistenza settaria irrilevante, oppure se riusciremo a diventare una significativa minoranza missionaria all’interno delle nostre società europee.

Questo presuppone, però, un processo individuale e collettivo di consapevolezza e di conversione: il futuro non appartiene a un cristianesimo che si riproduce da sé (e alle strategie pastorali legate a questa concezione). Il cristianesimo di oggi e di domani è un «cristianesimo di scelta», che si edifica sulla persuasione interiore dei fedeli. Solo se la condizione di minoranza, o diaspora, viene assunta con pacatezza e tranquillità (il che vuol dire non con indifferenza, o in maniera aggressiva o stravolta), ossia se si tratta di una libera scelta (perché corrisponde al “deve” divino), si può allora chiedere come il cristianesimo possa far fronte al rischio di diventare una setta, così che esso possa invece diventare missionario. E questo nel senso inteso da papa Francesco nel primo capitolo della Evangelii gaudium, quando parla di una «riconfigurazione missionaria della Chiesa».

Siamo così giunti alla questione decisiva del rapporto del Vangelo con la vita quotidiana degli uomini e delle donne.

Riguadagnare il rilievo del Vangelo per la vita quotidiana
La tesi sociologica dell’«ex-culturazione», di cui abbiamo già fatto cenno, rimanda ai profondi fossati esistenti tra le esperienze quotidiane dei nostri contemporanei e l’annuncio ecclesiastico, centrato sulla liturgia, della Chiesa.

Un futuro del cristianesimo in Europa è però possibile solo se e quando questi fossati verranno superati, senza rinnegare il carattere escatologico della forma cristiana del vivere.

Questo presuppone che i cristiani stessi percepiscano e rispettino le dimensioni «spirituali» profonde dei loro contemporanei. La condizione di diaspora del cristianesimo nelle nostre regioni non significa affatto la scomparsa di ogni «spiritualità» intorno a lui. Al contrario. L’indebolimento delle istanze regolative ecclesiali, sociali e politiche, osservato dai sociologi, permette l’emergere e il divenire visibile di nuove correnti «religiose» o «spirituali».

E anche se si prescinde da ciò, diventa oggi palese che non è possibile una vita senza una fede elementare nel fatto che vale la pena di vivere, o quanto meno merita di andare avanti a vivere. La «fede» è così un fenomeno originariamente antropologico (1), non necessariamente religioso; che emerge nella nostra «apertura» e «vulnerabilità» (2).

Essa prende la forma di un’interrogazione sull’«orientamento» nel mondo della nostra vita e di una domanda sul «senso» della nostra esistenza, anticipandone l’intero senza potervi disporre (3).

«Fede» si dà a vedere laddove tale indisponibilità del «senso» e dell’«intero» non viene accantonata e liquidata come qualcosa di non interessante (categoria dell’indifferenza) o viene lasciata in balìa di un’indecisione agnostica.

La fede elementare
Chiediamoci dapprima come sorge tale fede «antropologica». Nonostante tutta la routine che caratterizza la nostra quotidianità, essa rimane però esposta a tutta una serie di «interruzioni» che ci ricordano il quadro complessivo delle correlazioni della nostra vita, e richiedono una fede elementare nella vita stessa.

Tutto questo accade sempre in un contesto evenemenziale di incontri e rapporti, nel quale l’altro gioca un ruolo particolare. Un ruolo in cui l’altro rispetta la competenza ermeneutica di «chiunque» e, in molti casi, la deve addirittura attivare.

Le «interruzioni» del quotidiano, nelle quali dobbiamo sempre mettere all’opera la nostra fede nella vita, si possono ricondurre a tre momenti decisivi.

Il primo sono le «crisi» (più o meno pesanti) che si vivono tra le singole fasi psico-fisiche o le diverse tappe delle nostre storie di vita, quando un precario equilibrio raggiunto mostra il suo limite e bisogna trovarne un altro. Si tratta di uno sbilanciamento relativo tra due stati di relativo equilibrio. Questa è la definizione medica della «crisi», che rende possibile un incremento della vita o una nuova, ma che può anche rivelarsi fatale.

Il secondo momento è collegato ai progetti aperti al futuro che portiamo avanti, talvolta con passione profonda, nel corso della nostra storia di vita: trovare un lavoro, costruire rapporti, trovare un appartamento o costruire una casa, fare sport o pianificare una vacanza.

Mentre viviamo le fasi biologiche della nostra esistenza in maniera sostanzialmente passiva, ma poi possiamo – fino a un certo punto – integrarle nella nostra storia di vita, i nostri piani e progetti dipendono invece dalla nostra stessa immaginazione. Ma anche in questo ambito vi sono delle «interruzioni». Non solo il fallimento di un progetto, ma anche la sua riuscita, oppure l’accadere di qualcosa che supera ogni nostra attesa – come la nascita di un figlio.

In molti modi le «interruzioni» dei nostri piani sono particolarmente complesse, perché la loro realizzazione implica una qualche forma di collaborazione, e noi molto spesso siamo «invischiati» nei progetti di altre persone. Si sviluppano delle strategie, ma si dà inizio anche a forme di agire comunicativo così che l’altro non sia uno strumento funzionale al mio progetto, ma sia possibile superare le incomprensioni e la potenziale violenza che si annidano nei nostri rapporti.

Il terzo momento è rappresentato da quei molteplici, piccoli o grandi eventi che «interrompono» il corso della nostra vita. Un incontro, innamorarsi (la lingua francese rimarca il carattere evenemenziale dell’innamoramento quando lo esprime con «on tombe amoureux» – si cade nella condizione di essere innamorati), una realizzazione, essere coinvolti in un incidente, fare tombola, e così via. Detta in breve: si tratta dei molti avvenimenti occasionali che, non di rado, danno una piega inaspettata alle nostre storie di vita.

Il quotidiano interrotto e l’irruzione inattesa
L’uniformità quotidiana, con i suoi riti e le sue abitudini, passa dunque attraverso  una serie di «interruzioni» nelle quali, non di rado, la propria vita o quella di un’altro si rivela inaspettatamente come una totalità. Si tratta di situazioni di apertura o di rivelazione. In inglese si parla delle cosiddette disclosure situations.

Con esse si intendono «momenti», o frammenti di tempo più o meno lunghi, che fanno vedere la nostra vita, come attraverso una finestra, nel suo essere un tessuto indisponibile di connessioni e rapporti. La morte e la nascita, ossia i due dati limite di ogni vita, si annunciano in questi momenti improvvisi di apertura e ci ricordano che abbiamo solo una vita. Non scelta, ma destinata, questa sola vita mi viene ogni volta di nuovo offerta in scelta in queste situazioni. Certo, possiamo lasciarci scorrere addosso questi momenti come se nulla fosse. Ma, allo stesso modo, possiamo consegnarci a essi senza riserve e senza volontà di disporvi.

Riconosciamo che questa consegna non è affatto qualcosa di scontato; soprattutto quando le «interruzioni» o le «situazioni di rivelazione» hanno un carattere negativo e danno un tono drammatico alla nostra domanda sul senso: vale la pena davvero di vivere? Di andare avanti con la vita? La vita data/inferta è in grado di mantenere la sua promessa? Il mero impulso di sopravvivenza non basta in questi casi. Riconoscere questo fatto fa diventare visibile la «profondità dell’esistenza» e rende possibile il sorgere di una «fede elementare nella vita».

Quest’ultima nasce quando in queste «situazioni di rivelazione» il Vangelo viene reso percepibile: si tratta della nuova, e sempre di nuovo nuova notizia di un radicale essere-buono (Eu-angellion) che, davanti al male e al dolore presenti nel mondo, non può essere annunciata da nessuno in proprio nome. Solo colui che chiamiamo «Dio» la può, infatti, garantire. Ma se essa viene annunciata in quanto tale, allora il fossato tra l’annuncio di Gesù e la vita quotidiana dei nostri contemporanei viene improvvisamente colmato.

Generati alla fede elementare
Sono sempre gli altri che generano in noi questo atto necessario alla vita che è la fede elementare, senza però poterlo porre al nostro posto. Qui entra in gioco l’ospitalità: dapprima quella dei nostri genitori, ma anche l’ospitalità di altre figure nelle nostre personali storie di vita – e, così almeno speriamo –, anche lo spazio ospitale della Chiesa.

Non si tratta mai di strategie che perseguono un interesse, ma di una pura «presenza» (parousia), di un semplice essere-qui. Nella consapevolezza che questa presenza umana è necessaria alla vita, ma che essa non può mai sostituire la fede elementare dell’altro. Entra così in gioco la credibilità dello stare l’uno di fronte all’altro.

Tutte le strategie sono insufficienti, solo la gratuità (e si sente risuonare il termine grazia) rende possibile la fede (anche quella biblico-cristiana) e mai necessaria. Infatti, questo atto così fragile e minacciato, nel cuore della nostra vulnerabilità, quando accade è qualcosa come un «miracolo» che ci «sorprende» (se solo abbiamo un po’ allenato il nostro senso per la fede). La fede accade dove non ce lo saremmo mai aspettati.

Due modi di fede
A questo punto diventa necessario fare una differenziazione tra due diversi modi di fede: la fede «elementare» nella vita, senza la quale l’esistenza umana è impossibile (anche se essa non si genera mai automaticamente), e la fede in Cristo dei cristiani. Il primo modo di fede non conosce né il rapporto tra il «maestro» e i/le «discepoli/e», e neanche un’esplicita relazione con Dio.

La fede in Cristo implica tre caratteristiche specifiche: 1) un’effettiva sequela di Gesù; 2) con e in Gesù, l’accesso all’abissale intimità con Dio, lo spazio della gratuità abitato dallo Spirito Santo; 3) una disposizione diaconale di fondo. Nessuno viene battezzato per se stesso.

Fede in Cristo e conformità con lui fanno dei cristiani dei «discepoli missionari» – così il nuovo concetto di papa Francesco. Il «discepolo missionario» è a servizio della fede elementare nella vita di molti dei suoi contemporanei. Egli mette in esercizio oggi, nei suoi ambiti di vita e secondo le condizioni odierne, quel servizio e dedizione all’umano che Gesù ha praticato in Galilea verso i suoi contemporanei.

Mi sembra opportuno tornare sul titolo di questo contributo – «Il futuro del cristianesimo in Europa» –. Non si tratta solo del futuro della Chiesa, ma del futuro di una Chiesa a servizio dei nostri contemporanei. È chiaro che «cristianesimo» qui non deve essere identificato con «Chiesa», poiché noi come Chiesa dobbiamo tenere sempre conto dell’agire, che ci precede, dello Spirito nelle dimensioni profonde della vita quotidiana dei nostri contemporanei.

La distinzione fra «fede elementare nella vita» e sequela di Cristo può essere fatta risalire ai sinottici e anche a Giovanni. Accanto ai discepoli e alle discepole vi sono molti simpatizzanti di Gesù. Sono figure individualizzate, come ad esempio l’emorroissa o la donna siro-fenicia. Figure che sentono soltanto la parola di conferma di Gesù: «Figlia mia, la tua fede ti ha salvata» (Mc 5,34).

Non siamo di fronte a un vuoto spirituale
Proprio questa distinzione, che potrebbe essere spiegata e precisata ulteriormente con una serie di esempi, ci rende avvertiti del fatto che noi cristiani della diaspora non ci troviamo davanti a un vuoto «spirituale», ma che, come Gesù in Galilea, abbiamo a che fare con le dimensioni profonde della singolare avventura umana di molti nostri contemporanei.

Futuro cristianesimo in EuropaE quanto è stato detto sulla fede elementare dei nostri contemporanei si lascia trasporre anche alle nostre società secolari, la cui tenuta si basa anch’essa su una fiducia elementare.

Questo significa però che non possiamo limitare l’annuncio alla liturgia e alla catechesi, ma dobbiamo sviluppare una pedagogia dell’incontro e del «colloquio spirituale» nel grigiore del quotidiano. Nel nostro ambito ecclesiale, questo richiede una profonda trasformazione della nostra consapevolezza e una conversione di fondo, poiché molto spesso siamo ancora fissati quasi esclusivamente sulla liturgia e sulle celebrazioni para-liturgiche all’interno del nostro spazio ecclesiale; e solo raramente viviamo i nostri incontri quotidiani come «discepoli missionari».

Ampliare le aree di contatto con la società
La crisi sistemica di cui parlavamo all’inizio è quella che riguarda la forma estensiva e coestensiva della Chiesa latina, scaturita dalla riforma dell’XI e del XII secolo, con un’unica liturgia internazionale, con un clero unitario internazionale e un catechismo unico internazionale. In questa forma della Chiesa le situazioni locali e singolari degli uomini hanno un carattere del tutto secondario, fino all’irrilevanza.

I principi mediante i quali può nascere un’altra Chiesa come Chiesa di Chiese, la cui forma corrisponda sia alla cultura globalizzata sia alle culture locali, sono stati in parte formulati dal Concilio Vaticano II, e devono essere sviluppati oggi ulteriormente nel senso espresso da papa Francesco (si vedano i suoi quattro principi in Evangelii gaudium).

Una Chiesa che nasce dalla passione per il Vangelo
Concluderei con alcune brevi osservazioni in merito.  La Chiesa presuppone una passione per il Vangelo di Dio. Un Vangelo che si destina a tutti gli uomini e le donne, ma che può essere udito da ogni persona solo a suo modo. Questa passione, che viene da Cristo e ci è comunicata nel battesimo, rappresenta la base della fondamentale uguaglianza di tutti i cristiani e le cristiane. Papa Francesco parla, infatti, di «discepoli e discepole missionari/e».

Questa passione per il Vangelo di Dio implica contemporaneamente un interesse ardente e gratuito per la vita quotidiana dei nostri contemporanei e per la loro «fede elementare». Insieme alla passione per il Vangelo, questo interesse rappresenta la base del servizio di Gesù in Galilea da realizzare nell’oggi delle nostre società.

Verso una Chiesa in stato nascente
La fine della «cultura parrocchiale» deve essere letta come il principio di una possibile Chiesa e parrocchia intese come comunità di comunità. In primo luogo, si tratta di adattare l’edificazione della comunità cristiana allo spazio e al territorio in cui i nostri contemporanei vivono il loro quotidiano.

Questo porta a una pluralizzazione delle forme: nelle nostre metropoli, nelle complesse periferie cittadine, nelle piccole città, nelle zone rurali – non è più possibile avere una forma che vale dappertutto.

Futuro cristianesimo in EuropaD’altro lato, dobbiamo imparare anche ad adattarci all’esistenza nomadica di molti nostri contemporanei.

Inoltre, bisogna tenere conto del fatto che i modelli di socializzazione sono oggi molteplici e, con essi, anche le forme di appartenenza e gli schemi temporali dell’esistenza umana.

Quello che ci sta davanti è un compito che possiamo realizzare come Chiesa solo se entriamo in un processo permanente di ecclesiogenesi: edificare la Chiesa su ciò che è effettivamente dato, ossia essere Chiesa in cammino e quindi missionaria.

Questo è possibile solo se impariamo ad agire sinodalmente a tutti i livelli, fidandoci del sensus fidei fidelium. Il che implica anche un cambiamento di prospettiva per ciò che concerne il ministero nella Chiesa.

Di quale ministero e servizio presbiterale e diaconale abbiamo bisogno, quali ministeri sono necessari, affinché le nostre «parrocchie» e «comunità» possano venire trasformate dall’auto-riproduzione di un cristianesimo parentale a un cristianesimo di scelta in cui tutti sono discepoli e discepole missionari?

mercoledì 24 luglio 2019

L'Osservatore Romano: Perché proprio loro? L’apparente paradosso dei francescani “economisti”

Per la cura della casa comune - Economia francescana

Dalle ricerche di questi ultimi decenni è emerso un fatto incontrovertibile: l’Ordine dei frati minori o, come si usa dire, l’Ordine francescano ha prodotto, nei secoli dal Duecento al Quattrocento, molti più testi sulle questioni di etica economica di quanto non abbiano fatto gli altri Ordini religiosi e anche i teologi appartenenti al clero secolare. Si tratta di un primato incontestabile. Per molti si tratta di una sorpresa: come mai i seguaci di frate Francesco, il campione della povertà, hanno investito tante risorse intellettuali per riflettere sulla ricchezza? Per alcuni questa sarebbe una contraddizione, l’ennesimo segno che l’Ordine ha presto dimenticato Francesco e ha preso tutt’altra strada. Per altri, che non si sentono di esprimere giudizi così perentori, rappresenta comunque uno dei grandi paradossi di cui la Storia non è certo avara.

Proprio Giacomo Todeschini, uno dei protagonisti dello studio del rapporto tra francescani ed economia, ci ha insegnato a diffidare delle nostre impressioni di paradosso, e a chiederci se non abbiano piuttosto origine dai nostri pregiudizi. Siamo noi che tendiamo a contrapporre povertà (e in particolare la povertà volontaria dei francescani) alla ricchezza come se si trattasse di mondi a parte, non comunicanti. Però, le cose stavano diversamente: le comunità dei frati non vivevano la povertà costruendo comunità il più possibile distaccate dalla società e dalla sue dinamiche, come isole utopiche. Al contrario, volevano abitare la città proponendo il messaggio evangelico con la testimonianza, la predicazione e anche quello che noi chiameremmo l’impegno pastorale. La loro scelta di vita mendicante non significava soltanto che si procurassero da vivere con la questua “porta a porta”, ma soprattutto che dipendevano, proprio per l’esistenza quotidiana delle loro comunità, dalla generosità di persone pienamente inserite nella vita economica del tempo. Insomma, la loro povertà volontaria aveva intrinsecamente bisogno della ricchezza di altri. Questo portava con sé lo stabilirsi di legami, una prossimità che non restava senza conseguenze, per esempio sul piano pastorale. Come fa notare Sylvain Piron per la Linguadoca di Pietro di Giovanni Olivi (+1298), i francescani rispondevano alle questioni di coscienza con le quali si confrontava un ceto per lo più mercantile preso nel vortice di pratiche economiche sempre più sofisticate. Tuttavia, per tracciare un profilo del buon “mercante cristiano”, per redigere un manuale per confessori in cui si distinguono, per esempio, le operazioni finanziarie peccaminose da quelle lecite, bisogna provarsi di comprendere e interpretare la vita economica nel suo complesso. E questo non può che avvenire attraverso tentativi e un confronto critico tra le proposte avanzate.

Si può obiettare che osservazioni di questo genere si applicano a tutti gli Ordini mendicanti, in particolare ai domenicani e agli agostiniani e quindi non spiegano veramente l’eccezionalità del contributo francescano. E in effetti anche domenicani e agostiniani hanno una significativa produzione in campo etico-economico, che però non raggiunge l’ampiezza di quella dei francescani. Una risposta potrebbe trovarsi nei tratti specifici della povertà mendicante dell’Ordine dei minori. Mi limito a fare un esempio: secondo la Regola francescana (diversamente da quanto contenuto nelle costituzioni di domenicani e agostiniani), i frati non devono maneggiare denaro. Ma cosa si intende con questa parola “denaro”, con il quale i frati non devono avere a che fare? Si intendono esclusivamente le monete, o la proibizione riguarda qualche cosa di più ampio, di cui le monete coniate non sono che un aspetto? Rispondere a queste domande, vitali per qualsiasi frate che voglia rispettare in modo coscienzioso il proprio impegno, significa interrogarsi su cosa siano il denaro e la moneta. La radicalità della povertà francescana costringe in modo particolare a sforzarsi di comprendere e interpretare più a fondo la ricchezza, per capire le implicazioni della propria scelta religiosa, per sé e per la società in cui si è inseriti.

Da quanto detto, è evidente che i francescani non si sono accostati all’economia con l’atteggiamento di chi vuole scoprirne le leggi per puro interesse scientifico (dato e non concesso che un approccio del genere sia mai veramente esistito); intendevano piuttosto fornire indicazioni sul giusto uso delle ricchezze (ai laici impegnati nella vita economica) e sul corretto modo di vivere il voto francescano di povertà. Questa finalità portava però inevitabilmente con sé uno sforzo di comprendere e interpretare le dinamiche economiche. Non ci deve allora stupire che siano stati proprio i seguaci di Francesco a risultare in prima linea nell’etica-economica. Ricchezza e povertà (anche quella volontaria), sono sì i poli di una contrapposizione, ma sono a tal punto inscindibilmente legate tra di loro che chi professa la seconda non può esimersi dal fare i conti con la prima.

di Roberto Lambertini

lunedì 22 luglio 2019

Avvenire: La festa. Il privilegio di Maria Maddalena, la prima a cui Gesù risorto appare

Lungo la storia è stata identificata con diversi personaggi femminili del Vangelo. Da Gregorio Magno a Tommaso d’Aquino, così la raccontano santi e teologi

Il massiccio della Saint-Baume, con i suoi mille metri di altezza, nel dipartimento del Var, in Provenza. È lì che palpita il ricordo di santa Maria Maddalena, nella grotta dove secondo la tradizione la seguace di Cristo trascorse gli ultimi anni terreni, dopo essere fuggita da Israele allo scoppio della persecuzione dei cristiani, approdando in una delle più floride terre dell’Impero romano di allora. Un santuario incastonato nella roccia, all’interno del quale sono custodite alcune reliquie, un osso e una ciocca di capelli, e una comunità di frati domenicani ne tengono vivo il culto. Così come accade nella grande Basilica gotica di Saint-Maximin ad alcuni chilometri di distanza, dove della Maddalena è conservato il teschio.

In questi luoghi lunedì sarà un giorno di festa speciale. Nel giugno 2016 il Papa ha infatti elevato al grado liturgico di “festa” quella che prima era solo “memoria” di Maria di Magdala, che cade il 22 luglio appunto. Era già tuttavia una memoria particolare, come ci ricorda il domenicano Giorgio Maria Carbone: «La liturgia delle ore già prescriveva i Salmi della domenica prima settimana, tipico delle feste, era inoltre una memoria obbligatoria e in più nelle letture della Messa c’erano le letture proprie. La festa c’era già quindi nella sostanza».

“Apostola della apostole” viene definita la Maddalena nella liturgia. Un appellativo audace, usato per la prima volta nel suo trattato sul Cantico dei Cantici da sant’Ippolito Romano (170-235), primo antipapa della storia, che in ultimo si riconciliò con il Papa legittimo Ponziano, insieme al quale subì l’esilio in Sardegna e il martirio.

Dopo Ippolito fu ripreso da san Gregorio Magno (540-604), dall’abate di Fulda Rabano Mauro (780-856) e da san Tommaso d’Aquino. San Tommaso non per caso. I domenicani hanno avuto fin dagli inizi della loro storia un rapporto preferenziale con questa figura del Vangelo: furono a loro a diffonderne la devozione nel Medio Evo fino ad assumere la Maddalena tra i patroni dell’Ordine.

Padre Carbone, docente di Teologia morale e Bioetica alla Facoltà teologica dell’Emilia Romagna, che ha firmato anni fa il libro Maria Maddalena, dal Codice da Vinci ai Vangeli (ESD, pagine 176), spiega questa predilezione dei domenicani partendo dal brano evangelico in Giovanni 20: «Da lì sappiamo che la Maddalena è la prima a cui Gesù risorto appare, un primato assoluto, un privilegio altissimo. Quando lei riconosce il maestro, dopo il pianto, si sente dire: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre, ma va’ dai miei fratelli e dì loro: Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Queste parole contengono tre novità. La prima: Gesù lega la verità della sua risurrezione alla testimonianza di una donna, quando sappiamo che nel diritto ebraico tale testimonianza valeva zero. La seconda: prima di questo incontro Gesù aveva chiamato i dodici “discepoli”, mai “fratelli” Da quel momento noi siamo diventati fratelli, in virtù cioè della passione morte e risurrezione di Gesù. La terza: Gesù dà alla Maddalena il mandato di annunciare la sua risurrezione, l’essenza della nostra fede, mandato che i domenicani hanno sentito particolarmente proprio, con la predicazione».

Lungo la storia Maria di Magdala è stata identificata con diversi personaggi femminili del Vangelo, dall’adultera perdonata e salvata dalla lapidazione a Maria di Betania sorella di Marta e Lazzaro. Spiega padre Carbone: «Il brano di Luca 8 dice che Gesù aveva liberato Maria di Magdala da sette demoni, che può significare o una possessione diabolica particolarmente grave o un peccato notorio, pubblico grave o entrambe le cose insieme. In considerazione di questo alcuni hanno identificata con l’adultera perdonata di Giovanni 8, ma non ci sono altri indizi a supporto di questa teoria. L’idea che Maria di Magdala fosse invece Maria di Betania può avere una sua plausibilità, nel senso che Betania e Magdala non sono per forza confliggenti. Può essere che il luogo originario della famiglia fosse Betania, ma che Maria vivesse e si guadagnasse da vivere a Magdala, centro di pesca e ritornasse di tanto in tanto a Betania». Sicuramente è suggestivo che, secondo la Legenda aurea di Jacopo da Varazze, anche Lazzaro e le sue sorelle approdarono nel sud della Francia, divenendo poi Lazzaro il primo vescovo di Marsiglia. 

venerdì 19 luglio 2019

Settimana news: Il Colosso, la suora, il dono

“Sister”: questo è il modo in cui i miei colleghi mi hanno conosciuta e accolta tra loro. Sono in Inghilterra da un anno e mezzo ed ho lavorato per un anno nell’immenso magazzino di Amazon, quell’internet company che entra nelle nostre case con un “clic” e velocizza l’acquisto di quasi ogni tipo di prodotto. È qualcosa di Amazing, che significa “Fantastico! Stupefacente!”, ma si scontra con l’immagine della Foresta Amazzonica, famosa per essere enorme ma anche piena di insidie… perché usare queste due immagini? Perché è difficile vedere chiaro il disegno di Dio nel garbuglio del mondo del lavoro consumante e consumistico di questi tempi… si corre il rischio di rimanere intrappolati in visioni riduttive e poco speranzose.

C’è una scritta che troneggia nel grande magazzino di Amazon in UK: “Work Hard, Have Fun, Make History!” – cioè “Lavora duro, divertiti, fai la storia!”. Questo è il manifesto del ricco stolto, ricordate? «…ed egli ragionava fra sé dicendo: “Che farò, perché non ho posto dove riporre i miei raccolti?”. E disse: “Questo farò, demolirò i miei granai e ne costruirò di più grandi, dove riporrò tutti i miei raccolti e i miei beni, poi dirò all’anima mia: Anima, tu hai molti beni riposti per molti anni; riposati, mangia, bevi e godi!» (Lc 12,19).

Sono stata per un anno in uno dei più grossi “granai” del mondo. Amazon. Il suo nome deriva dal Rio delle Amazzoni, che, non a caso, è il fiume più lungo del mondo. Quanto orgoglio in 6 lettere! È la presunzione di poter raggiungere ogni traguardo puntando solo sulle proprie forze. E di forze, in questa azienda, ne vengono spese parecchie.. soprattutto quelle degli stranieri che accettano di lavorare anche 11 ore pur di guadagnare qualche sterlina in più. Ma andiamo più in là di questa immagine. Il Salmo 14 dice: «Lo stolto ha detto nel suo cuore: “Non c’è Dio”». È la tentazione più grande che abbiamo e la più facile da credere perché non ci fa rischiare e ci fa rimanere nelle nostre comode, fatue sicurezze… fino a raggiungere la perdita della Speranza, la più bella caratteristica delle persone povere in Spirito.

Cerco di spiegarmi meglio: alle volte siamo di-stolti dal fatto che i nostri beni materiali, i nostri legami affettivi, i nostri ruoli, i nostri animali domestici addomesticati.. sono ciò che ci assicurano un futuro. Quante distrazioni frenano la corsa al Cielo! Purtroppo o per Grazia, mi è ancora successo di cadere in questa triste palude di autocommiserazione in cui compro, vendo, prendo, pretendo ciò che IO voglio. E quanti IO VOGLIO sono racchiusi negli articoli che ogni giorno mi capitava di prendere tra le mani!

Le suore operaie
Noi suore operaie abbiamo una peculiarità: siamo missionarie nel mondo del lavoro, siamo in una traiettoria che ci porta al Cielo, siamo in una via che Dio traccia per noi e con noi lungo la nostra storia! Che spettacolo creativo e anticonformista!! Dio Onnipotente vuole essere coinvolto in ogni singolo aspetto della nostra piccola vita! Sì, Dio è un grande solo per i piccoli! Questo è ciò che sto scoprendo in questa terra straniera: sapere e accogliere con gratitudine il fatto di non essere Dio! Gustare la Sua magnificenza e misericordia nelle mie paure e nei miei orgogli gonfiati… un po’ come il cammello che per passare la cruna deve essere spogliato delle sue ricchezze..

In Amazon ci sono vari tipi di lavoro: c’è chi riceve le merci, chi le sistema negli scaffali, chi controlla la qualità, chi ti controlla, chi sta negli uffici, chi pulisce gli ambienti e, infine, ciò che facevo insieme ad altri 300 giovani: il picker, cioè un tizio che corre su e giù per una torre a tre piani con un carrello blu e giallo per prendere gli articoli nel più breve tempo possibile e metterli in linea.

È un lavoro terribilmente faticoso e selettivo. Ognuno di noi era dotato di uno scanner in cui era segnalato il suo target (cioè quanti articoli si recuperano nel giro di un’ora) e la sua posizione nel magazzino. Se stavi sopra i 100 articoli presi, tutto bene, se, invece, eri sotto i 100, un gentile impiegato dell’agenzia veniva a richiamarti per migliorare la tua prestazione. Se ritardavi a ritornare al lavoro dopo la pausa, ritornava il gentile impiegato dell’agenzia. La povertà che toccavo ogni giorno era non poter scegliere quando riposare, dove lavorare e con chi, infatti poteva succedere che mentre ero in una sezione, mi inviassero un sms per chiederti di cambiare piano o settore… magari per un solo articolo da prendere…

Non potevo scegliere quando, dove e con chi lavorare (come nella maggior parte dei lavori) ma ho potuto scegliere il come. Questa è la perla che anche il Tadini e le nostre sorelle ci hanno lasciato in eredità. Nella fatica c’è sempre la possibilità di una condivisione più profonda e vera, una via che ti porta ad un incontro reale e vivo con Gesù Cristo. Quindi, come non amare il lavoro nel suo essere mezzo di comunicazione con Dio?

È quello che sperimentavo con i miei colleghi ogni giorno. Un sorriso, uno sguardo che poteva far sentire compreso l’altro, una preghiera detta a mezza voce per chi lavorava lì. Non c’era tempo per le chiacchiere e questo mi ha fatto raggiungere l’essenziale e l’interiorità che da anni cerco dentro di me. Sapete, nonostante tutto, questo lavoro è stato benedizione per la mia povera fede.

Il lavoro e il dono
C’è di più: non avrei mai pensato di poter essere missionaria in un paese straniero. Ho sempre pensato di non esserne degna e di non averne le capacità. Ma più rimango dove sono e più mi accorgo che Dio mi sta regalando l’occasione di crescere e amare sempre e sempre di più. E questa è ricchezza da figlia di Dio. Conosco persone a me care che hanno avuto il coraggio di partire, lasciare tutto e condividere la vita con i poveri pur potendo vivere nell’agio della nostra società europea. Queste persone sono serenamente consapevoli di essere molto simili a loro, molto legate a loro.

C’è un piccolo segno che dice questa scelta preferenziale dei poveri: l’anello di tucum. È piccolo e nero e, tutte le volte che lo vedo indosso a qualcuno, mi ricorda che solo accogliendo la mia povertà incontro veramente gli altri, primo fra tutti Dio. Penso sia un bellissimo pro memoria per la nostra missione nel mondo del lavoro, una novità da portare e ricevere tra i nostri colleghi e le persone che ci stanno vicino. San Paolo ricordava alla comunità di Corinto e oggi a noi questo privilegio:

«Siamo afflitti ma sempre lieti: poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possiede tutto» (2Cor, 6-10). Quando sono un poco cosciente di questa immensa ricchezza la mia vita canta: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio!». Così, la mia povertà nel lavoro diventa un passaggio dal lamento alla gratitudine, dall’ansia di avere alla libertà di donare!

Testimonianza ripresa dal sito delle Suore operaie della Santa Casa di Nazareth. Ringraziamo suor PierAnna Dotti per la segnalazione e per la concessione di pubblicare l’articolo su SettimanaNews.

Sister Mari

giovedì 11 luglio 2019

Enzo Bianchi "La compassione perduta"

La Repubblica 10 luglio 2019
di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose

Chi stiamo diventando? Uno degli argomenti chiave nella complessa questione delle migrazioni riguarda la presunta minaccia alla nostra identità che l’afflusso di una certa tipologia – etnica, religiosa, reddituale – di stranieri rappresenterebbe per la società italiana.
Ma attualmente a preoccupare maggiormente non dovrebbe essere un’ipotetica futura "sostituzione" dell’italianità – qualunque cosa significhi questo termine – con elementi estranei alla storia e alla cultura del nostro Paese, quanto piuttosto un già avvenuto mutamento nel modo di pensare, di parlare e di agire fino a pochi anni fa patrimonio largamente condiviso.

Per anni ho insistito preoccupato sui piccoli passi quotidiani verso la barbarie: ormai vi siamo immersi, così che sentimenti ed emozioni di cui un tempo ci si vergognava, almeno in pubblico, ora sono esibiti come trofei di guerra. Specularmente, atteggiamenti di solidarietà, condivisione, bontà, compassione vengono sfigurati e irrisi. «Pietà l’è morta» si cantava durante la resistenza al nazifascismo, rivendicando il diritto a ripagare con la stessa moneta della spietatezza che si macchiava di crimini contro l’umanità.

Ora che da oltre mezzo secolo le nostre società e le legislazioni degli Stati hanno bandito questo concetto di «giusta vendetta», ecco che vediamo ogni giorno affermarsi un tacito proclama: «La compassione è morta». Sembra morto quel sentimento per cui, raggiunti dalla sofferenza di un altro, ci facciamo carico del suo dolore, fino a sentirlo con lui come nostro: il dolore dell’altro diventa il mio dolore. Compatire è essenzialmente "soffrire insieme": qualità umanissima che non è mai stato facile vivere in profondità, ma che oggi viene sbeffeggiata come buonismo da anime belle. Il contesto culturale, per lo meno dagli anni Sessanta del secolo scorso, ha creato una possibilità di percezione del male molto diversa dal passato: si pensi anche solo alla rimozione che le nostre società sanno fare della morte e, simultaneamente, alla spettacolarizzazione e all’esibizione della sofferenza, addirittura dell’orrido, del macabro in diretta, attraverso i mezzi di comunicazione.

Da un lato ci si abitua alla visione del male, tenendolo di fatto lontano attraverso la mediazione del mezzo di comunicazione; dall’altro si soffoca, riducendolo a un’emozione morbosa, ciò che dovrebbe invece essere una chiamata, una domanda a cui rispondere. I media diventano in realtà barriere, muri tra noi e il dolore altrui, e ci condannano sempre di più a un quotidiano di solitudine e di isolamento. Abbiamo paradossalmente difficoltà a diventare prossimi dell’altro: diventiamo con facilità prossimi virtualmente, e moltiplichiamo la nostra prossimità virtuale con contatti "liquidi", inversamente proporzionali alle relazioni concrete, "solide". E così la morte della prossimità è vissuta come negazione o "morte del prossimo".

Ma negli ultimi anni, in Italia come in molti paesi dell’Occidente, la situazione è ulteriormente precipitata: ci si vanta della spietatezza verso i più deboli, siano essi i poveri "di casa nostra", gli immigrati o gli appartenenti a determinate etnie. La solidarietà, lo storico "mutuo soccorso", il sostenersi tra esseri umani segnati dalla sofferenza, il "patire insieme" si è tramutato – dapprima nel linguaggio e poi nei comportamenti – in una ricerca ossessiva dello "star bene da soli", senza gli altri, anzi, contro di loro.

Se questo però è tragicamente il quadro prevalente, quello che si impone nei ragionamenti urlati di certa politica come dei mass media, non dobbiamo rassegnarci a trasformare questa deleteria tendenza maggioritaria in un sentimento universale.

È necessario uno sforzo di autentica resistenza non solo per sostenere in prima persona l’etica della compassione, ma anche per saper discernere, riconoscere, dare voce a chi la solidarietà verso i proprio fratelli e sorelle in umanità non ha mai smesso di mostrarla e continua a farlo nel silenzio di tanti o addirittura nel dileggio dei molti.

L’essere umano si sta mostrando sì capace di chiudere le viscere in un egoismo che lo disumanizza, ma può sempre aprire le proprie viscere per soffrire e gioire con l’altro, per vivere autenticamente: la compassione muore dove noi la uccidiamo giorno dopo giorno, ma la dignità umana è viva là dove anche una sola persona riconosce il proprio simile nella sofferenza, si china su di lui, lo abbraccia e, così facendo, lo salva.Perché «chi salva una vita, salva il mondo intero».

mercoledì 10 luglio 2019

L'Osservatore Romano: Due persone due sogni

Dorothy Day e Thomas Merton ·

Da diverso tempo si scrive con più interesse di Dorothy Day, fondatrice insieme a Peter Maurin del Catholic Worker e autentica testimone del pacifismo e della non-violenza. Profetessa criticata anche all’interno della stessa chiesa cattolica americana, con il suo pensiero — che molto ha del personalismo maritainiano — e con la sua testimonianza, ispira numerosi altri intellettuali tra i quali Thomas Merton, del quale lo scorso anno si sono celebrati i cinquant’anni della morte. Di lui — per il suo passato inquieto, girovago e senza radici — padre Simeon Leiva ha detto che è «rappresentativo dell’uomo del ventesimo secolo». Come scrive Robert Ellsberg nella prefazione di una delle lettere della Day a Merton, quest’ultimo, prima di entrare in monastero, aveva lavorato con Catherine de Hueck, una carissima amica di Dorothy, alla Friendship House di Harlem.

Thomas Merton e Dorothy Day si assomigliano molto nel percorso umano-spirituale. Merton rimase presto orfano della madre e poi del padre quando aveva solo sedici anni. Figlio di artisti, aveva un’anima estremamente sensibile, che volle coltivare con gli studi umanistici. Dopo una lunga e inquieta ricerca del trascendente, nel 1938 riceve il battesimo nella Chiesa cattolica: a quell’epoca era già nato il Catholic Worker, e Dorothy Day da dodici anni si era convertita al cattolicesimo dopo una lunga e faticosa lotta con se stessa e con Dio, convincendosi finalmente che solo la fede e la carità l’avrebbero aiutata a comprendere e attuare i piani di Dio per l’umanità. Anche lei a sedici anni aveva lasciato la sua casa, gli affetti, per vivere nei bassifondi di New York ed essere con gli operai, i dimenticati della società e le vittime dell’avidità umana.

Considerando le opere e gli scritti della Day viene da pensare che sia nata troppo presto, e di Merton che sia morto troppo presto. E indubbiamente i piani di Dio sono imperscrutabili e sorprendenti perché ambedue hanno lasciato un segno indelebile nella società e nella cultura del loro tempo, una magnifica eredità, oggi più apprezzata che mai: essi sono rivisitati e contemplati come persone ispirate dallo Spirito, autentici profeti che hanno lavorato instancabilmente per una società più giusta e un mondo in pace.

La pace è un grande dono dello Spirito: ma come fare perché essa tocchi il cuore di tutti e specialmente di coloro che hanno nelle loro mani le sorti del mondo? Questa è la domanda costante. E la Provvidenza ci ha regalato due esempi da imitare.

Quando negli anni sessanta Dorothy Day e Thomas Merton si confrontavano, condividevano idee e riflessioni sul tema della pace e della non-violenza, si era sull’orlo di una crisi nucleare che avrebbe disintegrato il nostro pianeta. Nel febbraio del 1960 la Day scriveva sul «Catholic Worker»: «Nessuno è sicuro. Non siamo più protetti dagli oceani che ci separano dal resto del mondo in guerra. Ieri i russi hanno lanciato un razzo 7,760 miglia nel Pacifico centrale, che è caduto a meno di un miglio e mezzo dal bersaglio calcolato. Il dipartimento di difesa degli Stati Uniti ha confermato la precisione del tiro».

Nel 1962 la crisi dei missili russi a Cuba turba e indigna Merton e Dorothy Day che proprio a settembre aveva visitato Cuba, definendola «un campo armato». Dall’ottobre del 1961 e fino al successivo ottobre 1962 Merton scrive le Cold War Letters, tre lettere indirizzate ad amici, artisti ed attivisti — alcune anche alla Day — nelle quali parla di guerra e pace, per cercare di fomentare una reazione spirituale e contrastare la “bomba”. È in questo momento che crea un forte legame con Dorothy Day e il Catholic Worker per rompere il silenzio della Chiesa cattolica americana sull’incombente olocausto nucleare. Nel giugno del 1960 alla Day, che gli chiedeva di pregare per la sua perseveranza, rispondeva: «Sei la donna spiritualmente più ricca di America e non puoi fallire anche se ci provi»; poi continua amareggiato: «Perché questo profondo silenzio ed apatia da parte dei cattolici, clero, laici, gerarchia, su questo terribile problema da cui dipende l’esistenza della razza umana?».

Quanto è cambiato da allora? Non c’è più la guerra fredda (almeno apparentemente), ma gli equilibri internazionali sono assolutamente delicati al punto che qualunque commento, qualsiasi gesto inappropriato potrebbe scatenare una catastrofe. Non si tratta di visioni apocalittiche bensì della cruda realtà dei fatti, di cui forse troppo pochi si interessano praticando quello che Papa Francesco chiama tristemente «cristianesimo di facciata».

Esso purtroppo non è cosa d’oggi. In un suo articolo del 1960 su Pasternak — per il quale la Day diceva di non aver dormito la notte — Merton annotava: «Per venti secoli ci siamo chiamati cristiani, senza nemmeno cominciare a capire un decimo del Vangelo. Abbiamo preso Cesare per Dio e Dio per Cesare. Ora che “la carità si raffredda” e ci troviamo di fronte all’alba fumosa di un’era apocalittica, Pasternak ci ricorda che c’è solo una fonte di verità, ma che non è sufficiente sapere che la fonte è lì — dobbiamo andare a bere da essa, come lui ha fatto».

La consapevolezza di dover vivere la “radicalità” evangelica e mostrare al mondo l’amoralità di certe scelte diviene uno dei punti chiave del trascorrere quotidiano di Thomas e Dorothy. In particolare Merton cercava incessantemente di creare un circolo di interesse che avrebbe dovuto realizzare una sorta di “contrappeso morale” alle forze della paura e della distruzione. Dorothy gli comunicava: «I tuoi scritti hanno raggiunto molte, molte persone, portandoli sul loro cammino, stanne certo. È il lavoro che Dio vuole da te, non importa quanto tu voglia scappare da ciò». Costantemente vicini nella preghiera («Abbiamo una bacheca con i nomi di coloro che chiedono preghiere. Il tuo è lì», scrive Dorothy), li unisce un altro grande ideale, il “dovere” di amare il prossimo. Dorothy è “affascinata” dalle lettere di Merton perché sono così ricche che portano alla conoscenza e all’amore per Dio. Però non si può amare Dio senza amare prima il prossimo, e ambedue lo sanno. Nel dicembre del 1961 Merton scriveva alla Day: «Le persone non sono conosciute solo dall’intelletto o dai princìpi, ma solo dall’amore. È quando amiamo l’altro, il nemico, che Dio ci dà la chiave per capire chi è. È solo questa consapevolezza che ci apre alla reale natura del nostro dovere e del giusto operare».

Chi conosce Dorothy Day e Thomas Merton saprà che il loro desiderio di un mondo più giusto e pieno di amore era scambiato per puro comunismo. Una lettera della Day, scritta nel dicembre 1963 a un giovane ammiratore, rivela questo particolare. Con una punta di sarcasmo ella scrive: «Miracolo dei miracoli, il nostro unico giornale diocesano, molto conservatore, ma oggi con un editore nuovo, la scorsa settimana in un articolo di due colonne ha detto che Thomas Merton ed io abbiamo trovato la giusta via per combattere il comunismo, ed in più in accordo con i principi cristiani e che c’era da dubitare che ci fosse un’altra via per un cristiano. Non potevo credere ai miei occhi. Dio è buono e innalza i difensori».

Papa Francesco nel 2015 in un viaggio negli Usa ha ricordato quattro grandi figure che hanno fatto l’America: «Quattro individui e quattro sogni (...) Dorothy Day, giustizia sociale e diritti delle persone; e Thomas Merton, capacità di dialogo e di apertura a Dio». In un mondo, oggi, pieno di odio e violenza gratuita, senza alcun rispetto per la vita e i diritti delle persone, non possiamo che fare tesoro di quanto Merton e la Day hanno fatto e detto. E concludo con una frase di Merton che dovrebbe aiutarci a riflettere su ciò che siamo e sulla possibilità che abbiamo di compiere il bene: «Sono venuto nel mondo. Libero per natura, immagine di Dio, ero tuttavia prigioniero della mia stessa violenza e del mio egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il ritratto dell’Inferno, pieno di uomini come me, che amano Dio, eppure lo odiano; nati per amarlo, ma che vivono nella paura di disperati e contraddittori desideri».
09 luglio 2019
di Caterina Ciriello

domenica 7 luglio 2019

L'Osservatore Romano: Ogni battezzato è un inviato

In Spagna l’arcivescovo Dal Toso parla del Mese missionario straordinario


«Ogni battezzato è un inviato». E ciascuno «deve rispondere alla sua chiamata concreta», perché «nessun fedele è così povero o privo di risorse da non poter dare qualcosa». Punta proprio alla riscoperta della responsabilità personale in ordine alla missione l’iniziativa del Mese straordinario che nel prossimo ottobre vedrà tutta la comunità cristiana mobilitata sul tema «Battezzati e inviati: la Chiesa di Cristo in missione nel mondo». Nel ricordarlo l’arcivescovo Giampietro Dal Toso — che ha aperto lunedì scorso, 1° luglio, alla facoltà di Teologia di Burgos, la settantaduesima Settimana spagnola di missionologia — ha ribadito che «la missione non è “delegabile”, nel senso di lasciarla agli altri», ma si fonda sulla «vocazione insita in ciascun battezzato».

Nella sua conferenza inaugurale il presule, che è segretario aggiunto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e presidente della Pontificie opere missionarie (Pom), ha richiamato il «messaggio profetico» e «universale» contenuto nella lettera apostolica Maximum illud, con la quale il 30 novembre di un secolo fa Benedetto XV volle imprimere un «nuovo impulso all’impegno missionario di annunciare il Vangelo». Proprio la celebrazione di questo anniversario caratterizza e orienta il Mese missionario straordinario, che ha come obiettivo aiutare ogni credente a inserirsi pienamente «nella chiamata del Signore della messe». In questo modo, ha rimarcato monsignor Dal Toso, «la missione dell’inviato non è diversa dalla missione di Gesù stesso: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”, in una continuità che trasformerà l’inviato in voce, annuncio, missione».

Scendendo nel dettaglio, il segretario di Propaganda Fide ha indicato i tre eventi principali che scandiranno le celebrazioni del Mese missionario a Roma — il 1 ° ottobre, la veglia a San Pietro con il Papa; il 7 ottobre, un Rosario missionario in diretta mondiale radiofonica dalla basilica di Santa Maria maggiore; il 20 ottobre, Giornata missionaria mondiale, la celebrazione eucaristica a San Pietro con il Pontefice — ai quali si affiancheranno le iniziative promosse a livello locale: tra queste, i pellegrinaggi diocesani o nazionali, le preghiere nelle parrocchie, le testimonianze dei missionari che lavorano in diverse parti del mondo. Ma già nei mesi scorsi, ha fatto notare il presule, la proposta ha suscitato «un’eco molto ampia» in tantissimi paesi, dando vita a una mobilitazione che suscita grande speranza: «È il segno — ha commentato — che il tema missionario è ancora molto sentito, e di questo dobbiamo essere contenti». Tra gli esempi più significativi, quello della Colombia, che per la circostanza ha indetto una missione in tutte le parrocchie; quelli di Venezuela, Malawi, Kenya, Portogallo, che hanno deciso di dedicare un intero anno alla missione «con un intenso programma di formazione e di studio»; e quelli di Polonia, Haiti, Filippine, Australia, Malawi, distintesi per la produzione di materiale didattico e formativo.

Nell’evidenziare l’importanza anche delle iniziative promosse in Spagna, l’arcivescovo ha voluto riaffermare che «l’approfondimento teologico della natura missionaria della Chiesa è una delle sfide più importanti della missione oggi». Occorre infatti «riscoprire il motivo della missione da un punto di vista teologico, di fronte alle grandi questioni che ci pone il nostro tempo, soprattutto in relazione all’incontro con le religioni». Da qui una serie di interrogativi fondamentali: «Cosa significa per noi oggi che la Chiesa è il sacramento universale della salvezza? Cosa significa oggi la redenzione salvifica di Cristo? Cosa significa che la Chiesa è missionaria per sua natura? Qual è la distinzione tra missione e proselitismo?». Domande, queste, che «manifestano la necessità di un fondamento logico per la nostra azione».

Non a caso, nell’intervento di monsignor Dal Toso è stato riservato ampio spazio ai presupposti dottrinali della missione della Chiesa. Che, ha spiegato il presule, nasce «dalla vita stessa di Dio», il quale chiama i credenti «a essere continuatori e suoi collaboratori» nell’opera salvifica. «La dinamica divina missionaria — ha affermato — fluisce incessantemente dalla fonte della carità inesauribile del cuore del Padre e si esprime nell’invio del Figlio e dello Spirito Santo, e ci raggiunge affinché possiamo porci al suo servizio».

La missione, ha ricordato ancora l’arcivescovo, «comincia dall’incontro personale» con Cristo «che a sua volta ci invia». È Lui, dunque, che «porta avanti l’opera salvifica e spinge la Chiesa al costante discernimento e alla risposta obbediente al Padre al servizio di questa opera». Questo significa che «prima di ogni cosa la missione non è umana ma divina, e dobbiamo confidare che lo Spirito Santo svolga la missione della Chiesa, nonostante i dubbi, le debolezze, le crisi che a volte constatiamo. Ci consola il fatto che lo Spirito Santo sia l’attore principale della nostra missione».

Se Cristo morto e risorto è «il soggetto» dell’opera missionaria, ne costituisce anche «l’oggetto» e «il cuore». Per questo, «oggi non possiamo parlare di missione senza fare riferimento a questo nucleo della nostra fede. È un annuncio che vuole far vibrare soprattutto i nostri cuori, perché possiamo essere capaci di far vibrare i cuori di quanti ci ascoltano, di quanti incontriamo». In tal senso «la missio ad gentes conserva tutta la sua rilevanza» anche in territori come l’Europa o l’America, dove «sono sempre più numerosi coloro che non sono battezzati o non credono o sono indifferenti, o sono totalmente ignoranti rispetto alla fede». Proprio in contesti simili appare evidente che «non ci sono più quelle condizioni che hanno contribuito a rendere il cristianesimo una fede condivisa dalla maggioranza». Ecco perché, ha esortato monsignor Dal Toso, «non dobbiamo sottovalutare la forza del secolarismo», che «è alimentato dal consumismo e si diffonde facilmente ovunque attraverso il web, che non è solo uno strumento, ma è diventato uno stile di vita, anche nelle zone tradizionalmente religiose».

In ogni caso, la missio ad gentes «tiene vivo il dinamismo della Chiesa locale», anche perché «rende concreta la missione in persone concrete». Ed è esattamente in questa prospettiva ecclesiale e pastorale che sono nate e operano ancora oggi le quattro Pontificie opere missionarie: quella della Propagazione della fede, nata nel 1822; quella della Santa infanzia o Infanzia missionaria (1843); quella di San Pietro apostolo (1889); e la Pontificia unione missionaria (1916). Quattro «realtà consolidate nella storia e nella missione evangelizzatrice della Chiesa», che costituiscono «una rete universale al servizio del Santo Padre per sostenere la missione e le giovani Chiese attraverso la preghiera e la carità».

Oggi, ha fatto presente il segretario di Propaganda Fide, «esistono 118 direzioni nazionali che assicurano la presenza delle opere in circa 140 paesi»: il che rende questa rete «veramente universale, sia in paesi molto grandi come il Canada o il Brasile, sia in paesi più piccoli situati ai margini geografici del mondo, come quelli dell’Oceano Pacifico o i paesi caraibici». Si tratta, ha precisato, di un vero e proprio «carisma, ossia un dono dello Spirito Santo, che dobbiamo mantenere e difendere» puntando su tre ambiti essenziali: la preghiera, la testimonianza e la carità. Senza dimenticare il carattere «pontificio» (è il Papa stesso che ne nomina il presidente) che distingue queste opere: esse, infatti, «sono uno strumento del Santo Padre per il bene della Chiesa universale». E questo, ha ribadito l’arcivescovo, «ci permette di comprendere che nessuno crede da solo, che nessuno può vivere la propria fede in modo individualistico, ma che siamo tutti collegati, anche con i nostri fratelli e sorelle nei paesi più lontani».

sabato 6 luglio 2019

Avvenire: Dopo il Sinodo. La Parola si apre la strada anche nella generazione social

Tra i giovani è viva la domanda di un nuovo modo di pregare che parta dalle domande della vita. Scoprendo che Vangelo e Salmi hanno risposte «per me»


Un piccolo suono nella notte. È il segnale di una fedeltà inizialmente non messa in conto. La proposta venne lanciata al termine di una vacanza estiva: inviarsi una frase, o anche solo una parola tratta dal Salmo di compieta, preghiera condivisa per diversi giorni prima del sonno. Legarsi così, grazie ad 'altro' rispetto al linguaggio comune, ci siamo accorti che piace e funziona. Non è per dovere che i giovani aprano la Bibbia, specie in un cattolicesimo che raramente ne ha proposto la frequentazione personale. L’amicizia e un’app possono fare la differenza: il nostro smartphone è tanto lontano dai codici miniati, quanto capace di dare accesso alla medesima esperienza di comunità in preghiera. Quando ce n’è modo, ci si raduna fisicamente. Altrimenti si è insieme seppur dispersi: ciascuno nella propria stanza, o in viaggio, ma col pensiero ai fratelli e il cuore in ascolto. «Scegliere fra tutte una parola – dice Valentina, 21 anni – quella che oggi pare scritta per me. Lasciarla risuonare prima nel silenzio e poi fra gli amici, pronunciandola ad alta voce o inviandola in chat: così mi sono accorta che la Bibbia parla di me, perché persino lo stesso Salmo non dice mai la stessa cosa. Lo si ritrova di mese in mese diverso, ma basta una sera per accorgersi di quanti particolari ognuno di noi ha colto. Lì dentro c’è la vita ed è come se Dio non ti facesse mai mancare la chiave giusta per quel che stai attraversando. Capita anche che io scelga una frase in cui non si tratta di me, ma forse di ciò che sta vivendo un’amica. Inviarle quella parola può fare la differenza: incide di più di tante frasi che spontaneamente avrei potuto scrivere io». È l’innesco, il giusto inizio di un nuovo modo di pregare in cui è lo Spirito a prendere e a dare la parola. Delicatamente, come nel suo stile, perché Dio è come si ritraesse: si offre in espressioni umane, segnate dal tempo, intrise di contrastanti emozioni, non sempre legate fra loro con chiarezza e coerenza.

I Salmi, prima ancora dei Vangeli, innescano tra testo e lettore un’immediata corrispondenza e rendono possibile un salto di qualità. Molti giovani hanno dentro di sé un universo inesplorato, che si dischiude solo nell’ascolto di ciò che inizialmente appare esterno, estraneo, ma poi improvvisamente familiare. «Ascolta, Israele!» (Dt 6,4): prende forma un popolo grazie al dono della Parola. Nel cuore della notte, raggiunti dal messaggio dell’ultimo amico che chiude i libri o rientra da una festa, Valentina può toccare con mano l’appartenenza non a un’ideologia ma al medesimo amore di cui vivono i fratelli. È un incontro, un’energia, un desiderare ancora: il testo che tutti pregano è voce, presenza. Anche i meno propensi a visioni angeliche avvertono, cammin facendo, il Mistero che li avvolge. C’è dell’altro, c’è di più. Non sono solo parole.

Si tratta di accompagnare oltre. Più in là dei Salmi stessi, ad abitare la grande storia che li ha generati. Tutti i libri della Bibbia, in questo senso, sono un invito a entrare e a sostare, al di là della singola frase, in un contesto. Un giovane arriva ai Vangeli, ad esempio, quando per la prima volta si accorge di trovarvi spazio e di riconoscersi presente a quanto narrano. Cade la sensazione di sapere già e affiora il presentimento di una rinascita. Andrea tre anni fa si trovò ad accompagnare al battesimo un giovane coetaneo di origine cinese. Una fede schietta e provata lo mostrò adatto ad aprire settimanalmente il Vangelo di Marco per introdurre l’amico a Gesù. Presto, però, i due si accorsero di poter allargare a una ventina di altri giovani, battezzati nell’infanzia, i loro incontri. Dischiudere a uno straniero il libro dei Vangeli divenne per tutti, così, una nuova scoperta di Dio: l’energia del racconto, letto nella prospettiva di chi ancora non sa, si rivelò intensa e trasformante. Peccato che la predicazione non abbia solitamente la stessa capacità di portare a Gesù, lasciando emergere la sua imponenza da testi mai logori. È il desiderio di papa Francesco, quando chiede «al Signore che liberi la Chiesa da coloro che vogliono invecchiarla, fissarla sul passato, frenarla, renderla immobile» (Chirstus vivit, 35).

Per molti giovani non le grandi liturgie ma momenti di culto semplici e quasi domestici espongono alla voce di Dio che dalle Scritture li chiama. Certo, anche l’immensa assemblea eucaristica di una Gmg, la bellezza lancinante di un paesaggio o di una cattedrale, l’intensità di un canto, possono fare la differenza. Più spesso, però, è una domus ecclesiae, cioè la misura familiare della piccola comunità a sospingere il cammino di chi inizia a leggere la propria vita come storia di salvezza. Come si legge nel Documento finale del Sinodo sui giovani, infatti, «la Parola del Signore esige tempo per essere intesa e interpretata; la missione a cui essa chiama si svela con gradualità. I giovani sono affascinati dall’avventura della scoperta progressiva di sé. Essi imparano volentieri dalle attività che svolgono, dagli incontri e dalle relazioni, mettendosi alla prova nel quotidiano. Hanno bisogno però di essere aiutati a raccogliere in unità le diverse esperienze e a leggerle in una prospettiva di fede, vincendo il rischio della dispersione e riconoscendo i segni con cui Dio parla. Nella scoperta della vocazione non tutto è subito chiaro, perché la fede 'vede' nella misura in cui cammina, in cui entra nello spazio aperto dalla Parola di Dio» (n.77). A 19 anni Letizia, grazie a un gruppo in cui si riconosce a casa, può già distinguere la Parola risuonata per lei in momenti e luoghi precisi. Ha scelto due passi evangelici che immortalano quanto più le preme: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13); «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi oltraggiano» (Lc 6, 2728). E scrive: «Sono tra le pagine di più immediata comprensione che troviamo nelle nostre domeniche, eppure credo siano tra le più ricche e significative, perché nella loro semplicità vedo il cuore di quello che vuol dire essere cristiani e vivere da cristiani a tutti gli effetti. Per questo sono forse tra le più difficili da mettere in pratica. Mi hanno colpita fin da piccola, le ho sperimentate sulla mia pelle: spero di riuscire a esserne all’altezza ogni giorno. Sì, perché quando penso al significato di una 'regola di vita' penso a impegno, obiettivo, promessa, responsabilità di guardare indietro al passato e avanti verso il mio futuro, scegliendo chi diventare e quali esempi di vita seguire. Ecco la mia scelta: AMARE. Parola chiave che vorrei diventasse parola d’ordine».

Il Sinodo ha fortemente sottolineato come intuizioni di tale intensità possano emergere dove si coltivi un vero equilibrio tra singolo e comunità. «Nei testi biblici si impiega il termine 'cuore' per indicare il punto centrale dell’interiorità della persona, dove l’ascolto della Parola che Dio costantemente le rivolge diviene criterio di valutazione della vita e delle scelte. La Bibbia considera la dimensione personale, ma allo stesso tempo sottolinea quella comunitaria. Anche il 'cuore nuovo' promesso dai profeti non è un dono individuale, ma riguarda tutto Israele, nella cui tradizione e storia salvifica il credente è inserito. I Vangeli proseguono sulla stessa linea» ( Documento finale, n.106). Aprirli, abitarli, rileggerli con i giovani può rinnovare la Chiesa. Può dar corpo a una freschezza inedita e contagiosa. Sempre, infatti, lo Spirito ha da offrire un cuore di carne a chi non teme che quello di pietra finisca infranto.

Alessandra Smerilli e Sergio Massironi mercoledì 3 luglio 2019