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giovedì 27 giugno 2019

L'Osservatore Romano: Quando l’io diventa sovrano

L’urlo si è imposto come affermazione della propria identità

Il dibattito intorno ad alcuni temi si è fatto recentemente molto acceso. Le posizioni tradizionali — Dio e Cesare, diritti e doveri, conservatori e progressisti — si trovano sempre più polarizzate l’una contro l’altra. Il conflitto si radicalizza e soffoca gli spazi di dialogo. Che i conflitti possano estremizzarsi non deve certo sorprendere; leggendo la contemporaneità secondo le categorie consuete rischiamo però di trascurare alcuni elementi nuovi.

Da un lato sono venute meno le grandi impalcature ideologiche che davano una forma coesa, orientata, condivisa anche al disagio sociale e al dissenso. Dall’altro, l’influenza dei nuovi media ha dato al singolo individuo uno straordinario (ma totalmente deresponsabilizzato) strumento di amplificazione della propria voce. Oggi si può interloquire (o, meglio, sentire di star interloquendo) direttamente con alti funzionari, celebrità, personalità di ogni genere. Ogni tweet, ogni status, ogni post, in virtù di una possibile viralità, assurge alla dimensione fantastica di un annuncio Urbi et Orbi.

In questo panorama sembra emergere una sorta di insurrezione in tre grandi aree: l’area della politica, ovvero il mondo del fare; l’area della scienza, ovvero il mondo del sapere; l’area della religione, ovvero il mondo del credere. Le popolazioni di queste tre aree di dissenso — non è un caso — presentano larghe sovrapposizioni.

I punti di riferimento di una volta (il rappresentante delle istituzioni, lo scienziato, lo stesso Pontefice) vengono aggrediti con sorprendente virulenza; non già per ciò che sostengono, bensì per ciò che rappresentano: l’esistenza stessa di un’autorevolezza, di un’istanza altra che pone limiti all’espansione sempre più autoreferenziale di un “io” individuale. La cifra inquietante di questo conflitto non è quindi la sua intensità né ha a che fare con le posizioni sostenute. La dialettica non è più fra due collettività: è piuttosto fra l’individuale e il collettivo.

In questa nuova dicotomia vengono favorite alcune dinamiche perverse. Innanzitutto, il linguaggio dell’individuo diventa quello dell’urlo: l’atto identitario, autodeterminativo non è più rappresentato dal messaggio (che serve al massimo per épater le bourgeois) ma è l’urlo stesso come mera affermazione di sé. Il contenuto, se mai ve n’è uno, è quindi un embrionale “io esisto e sono rilevante” senza ulteriori connotazioni, spiegazioni o ipotesi di sviluppo.

In secondo luogo, l’unica forma aggregativa di un io che non tollera limite, confine, conflitto, è la folla selvaggia: una moltiplicazione di urla tutte uguali in cui amplificarsi ulteriormente e allo stesso tempo nascondersi, omogenea, estemporanea e sussistente solo finché, appunto, canta il medesimo coro.

In questa dimensione primitiva di un io molto bambino, arretrano anche le modalità di ragionamento; la lettura più adulta del reale perde terreno di fronte al pensiero magico e prelogico; l’io (su cui a questo punto influiscono più le pulsioni che l’esame di realtà) si pone al centro dell’universo, diventa sola misura delle cose, giudice supremo di ciò che è buono, vero o giusto. Questa condizione presta facilmente il fianco a manipolazioni, soprattutto quelle che solleticano gli istinti più profondi (prima fra tutti la paura) e che presentano spiegazioni riduzioniste, semplificate, facilmente digeribili; soprattutto, che non compromettano questa posizione privilegiata di un io fin troppo disorientato da un mondo complesso e confuso.

Il capovolgimento più paradossale attiene però all’esperienza della fede. Il problema è: se l’io è al centro dell’universo, che posto occupa Dio? Inevitabilmente, Dio diventa oggetto, funzionale al mantenimento di quella fragile omeostasi di cui si è già parlato.

Il nemico contro cui insorgere sembra essere chi lo rappresenta indegnamente ed ereticamente, ma si tratta in realtà di una guerra per procura contro un Dio che sovverte, interroga, turba la quiete, porta e a volte anche dà la croce. Il Dio-oggetto da difendere è invece quello che giustifica, lascia tranquilli, permette di ripararsi dietro le forme esteriori della fede che sono però forme vuote perché non allarmanti, non significanti.

Il mito fin qui rappresentato sembra essere quello di Prometeo, che da solo ruba eroicamente il fuoco per liberare gli uomini dall’oppressione degli dei. È più corretto ricorrere però a Faust, il cui Mefistofele seduce non con le tentazioni ma, proprio, con le giusticazioni («È affatto naturale che un fastidio mortale avveleni la tua vita. Chi lo potrebbe negare? A qualunque orecchio delicato, il rintocco delle campane è noioso e ripugnante»). E il Male diventa l’Altro, il suo essere limite, spina nel fianco, il suo abitare (come i due anziani del finale del Faust) nella vigna di Nabot. Di fronte a tutto questo, chi è, in fondo, Dio per dirmi cosa è giusto?

di Cristiano Maria Gaston