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martedì 4 giugno 2019

L'Osservatore Romano: Manuale di sopravvivenza

Rompere gli automatismi della Fede e tornare alla sostanza 

Risulterà irriverente, dissacrante, a qualcuno persino ingiusto. A volte, infatti, nelle cose che contano non siamo capaci di ironia. Il tratto sovversivo con cui Alberto Porro, sin dal titolo (Come sopravvivere alla Chiesa cattolica e non perdere la fede, Milano, Bompiani, 2019, pagine 112, euro 12) fa del suo libro — in libreria dal 5 giugno — un invito a pensare, è però una dichiarazione d’amore: alla Chiesa stessa, nella sua forma feriale in cui tutti, ma proprio tutti, possono trovare casa. Con qualche accorgimento, certo, nel senso che occorre cimentarsi, tenerci, far qualcosa per sentire nuova freschezza in un’appartenenza antica e non più scontata. Il piccolo volume percorre i gesti caratteristici della vita parrocchiale — andare a messa la domenica, ascoltare la predica, sposarsi in chiesa, invitare il prete a cena, mandare i figli al catechismo, obbedire ciecamente al parroco, fare la carità, per citarne alcuni — offrendo di ciascuno una descrizione, segnalando un pericolo, proponendo “tattiche” per trasformare ogni problema in nuovo inizio.


Un manifesto di resilienza, quindi? Molto di più. Ci sono temi che solo l’ironia consente di affrontare. Fossero posti accademicamente, i teologi si scatenerebbero. Meglio tentare di far sorridere anche loro, strana ma imprescindibile categoria: allo studio critico della rivelazione cristiana, infatti, conviene esistano narrazioni acute e potenti della configurazione che la fede assume tra le cose di ogni giorno. Il fatto dell’incarnazione vincola fin dall’inizio il pensiero cristiano a contesti determinati e a persone reali cui è dovuto — se si pensa allo scrivere degli evangelisti o all’energia delle parabole — uno sguardo solare e attento. Pensiamo, però, all’ultima cena: «Come abbia fatto un’occasione così intima tra il maestro e i suoi più cari compagni di viaggio a diventare quella cosa noiosa, ripetitiva, intoccabile, molto sacra in certi posti e molto profana in altri, che oggi chiamiamo Santa Messa è una storia lunga», scrive Porro.

Il suo stile e l’intesa coltivata col lettore, del cristianesimo primitivo ricercano allora positività e intimità. Operazione interessante, spirituale; linfa che le scene descritte, le povertà narrate, le strategie proposte mettono di nuovo in circolo. Inizia già con la lettura l’esperienza invocata da chi ogni domenica si nutre al pane della Parola: «Dovrebbe essere che tu, prete, mi spieghi per favore perché oggi leggiamo quel Vangelo, perché quel testo antico rivive qui e ora e cosa c’entra con i miei problemi. Sai risvegliare la curiosità, l’attenzione, la sorpresa in chi ti sta di fronte? Sai toccare un sentimento reale che stabilisca un contatto con chi ti ascolta? In fondo l’emozione è una parte importante della nostra vita, è il cuore che batte, l’amore che si fa strada o la tristezza che ci assale. Farmi sentire vivo e farmi risuonare davanti le parole della Scrittura: questo, caro predicatore, dovresti far accadere. Tu che parli devi diventare ciò che dici e lasciare dietro di te l’eco di alcune grandi domande e una piccola indicazione per aiutarmi a trovare una risposta. Non una rispostina. In alternativa rimane sempre un sontuoso, promettente silenzio».

Aver rotto il silenzio è non solo un merito, ma un servizio che Porro fa al cattolicesimo popolare, specie italiano. Al suo futuro. Alle sue implicazioni comunitarie e persino civili. «La messa è pericolosa anche perché ti fa credere che intorno a te esiste un gruppo di persone che non vedono l’ora di rivederti alla fine di una settimana terrificante per darti una pacca sulla spalla. Stare a messa ti fa credere che non sei solo ma fai parte di una comunità. E invece non è vero. Tu prima ci credi, poi ti giri e non c’è più nessuno. Tu ci credi, ma quando sei nei guai ti rendi conto che non hai il numero di telefono di nemmeno uno dei tuoi confratelli. Ma dov’è la comunità in questa parrocchia?».

Ci sono affondi discutibili, problematici. Nel senso migliore: problematizzano. Una fede ridotta a precetto, ad esempio: «Da che mondo è mondo essere cattolico significa in sostanza andare a messa la domenica e confessarsi almeno una volta all’anno (...). Se poi produci rifiuti tossici ed evadi sistematicamente le tasse non importa, quello che conta è non perdere la messa». Col coraggio — supportato da competenze che il genere letterario tenta solo di mascherare — di interrogare i precetti stessi, le norme, la natura del rito. Quando Porro, ad esempio, oppone la forza dell’ironia alle norme liturgiche che vogliono lo scambio di pace facoltativo, povero di gestualità, ridotto ai soli vicini, che cosa sta facendo? Della liturgia non capisce nulla, o ne riconosce e interroga la struttura fondamentale? Invade da battezzato il campo del clero, o chiede giustamente conto della fedeltà dei segni al loro Fondatore? In qualche frangente il teologo impallidirà, ma ben vengano poi le sue competenze. Importa intanto la questione: rompere gli automatismi, fuggire la banalità, lasciar entrare lo Spirito, respirare.

I preti escono un po’ bastonati dalle pagine di questo libro, come del resto da certi richiami di Papa Francesco alla loro vocazione. Emerge, tuttavia, un chiarissimo e paterno amore per loro, esposti da secoli a un’eccessiva centralità, alle proprie e altrui aspettative di autorità e perfezione. Sempre più prigionieri, in una società secolarizzata, di linguaggi tanto estranei a quelli comuni. Porro offre ai laici strategie per un “recupero” che dia ai sacerdoti amicizia, consolazione ed essenzialità. Piedi per terra, per guadagnare il giusto modo di indicare il cielo. «Ecco il pericolo: il prete parla tanto e parla soprattutto di sé. Non è incuriosito dalla vostra vita. La cosa è anche comprensibile, nel senso che se uno ha capito tutto del mondo e delle persone e deve solo applicare la teoria alla pratica non ha poi tanto bisogno di conoscere come siano davvero le persone». E allora la tattica: «Continuate a interrompere (...) intervenite, fate domande che non c’entrano nulla con il suo discorso, anzi, più che domande devono essere pugni nello stomaco, tipo: hai bisogno di aiuto? Perché abiti da solo? Voi preti non potreste vivere insieme? Quanto tempo passi su internet? Ma cosa volevi dire domenica nella predica, di preciso? (...) Come fate con i soldi in parrocchia? Vuoi che ci occupiamo noi — insieme a te, sia chiaro — della pastorale delle famiglie? Quante sono le famiglie, quando le incontri? Come sono le lasagne? Le apparizioni della Madonna meglio lasciarle stare. Dovete sparigliare, squinternare il suo sistema ordinato e tranquillizzante e spostare la conversazione sul piano umano, della relazione. È proprio lì che affiora l’uomo, con le sue qualità, il suo carattere e il desiderio di diventare grande insieme a voi, anche se ha una laurea in teologia».

Si profila, pagina dopo pagina, un reciproco accompagnarsi tra battezzati con sensibilità e vocazioni diverse, resi compagni di viaggio dalla qualità di ciò che credono, dallo spessore del Mistero. Sorprende come l’ironia disinneschi i potenziali aspetti di contrapposizione, ad esempio tra laicato e clero, ma anche tra uomini e donne, lasciando emergere il comune bisogno di ripartire, di costruire, di uscire da una stagione di rassegnazione e di lamento. Circolano forme di satira del tutto diverse: nostalgiche, distruttive. L’etimo di sarcasmo è «fare a pezzi la carne» ed effettivamente si può annichilire, disintegrare l’altro con parole che suscitino un riso sguaiato, omicida. C’è una pratica tutta ecclesiastica di questo humor agli antipodi dell’ironia vera, che invece alleggerisce, solleva, fa pensare. Quella di cui osserva Massimo Cacciari: «Come si fa a non sentire questo timbro nelle parole di Gesù? Ma direi ancora di più: non è piena di ironia tutta la parola di Gesù? Ironia nel senso letterale del termine, di gusto del paradosso. Il paradosso che invita alla ricerca. La parabola che timbro ha se non questo?». Sopravvivere alla Chiesa cattolica, allora, non significa negarne la santità o misconoscerne la natura. Al contrario, in quel linguaggio vivo dell’esperienza umana che è la narrazione, si tratta per Alberto Porro di reagire con il sorriso al declino e alla trasandatezza, operando intelligentemente perché la fede non si perda, ma cresca e vivifichi le persone e la società.

È come se a tutti i cristiani l’autore augurasse quanto scrive della categoria a maggior rischio d’estinzione: «Conosco alcune suore che sono splendide donne. Non imitano nessuno, men che meno gli uomini, pensano con la loro testa, non hanno paura del contatto umano né di dire la loro, anche se nei consessi ecclesiali capita che non possano esprimere il loro voto. Stanno dritte in piedi, guardano lontano e amano, amano con un cuore di donna consacrato, donato per sempre al loro Amore, un dono di sé che le rende libere di stare senza paura in un mondo di uomini. Libere di non trovare la morale a tutti i costi. Libere di non convertirti entro i prossimi dieci minuti. Auguro a mia figlia di incontrarne qualcuna sulla sua strada, prima o poi».

di Sergio Massironi